Ennio Abate
Su Dante “monumento” e Dante “poveraccio”. Risposta a Roberto Buffagni

dante

1. Come faccio spesso, prendo spunto da un commento, stavolta pungente – quello di Roberto Buffagni (qui), che contesta l’interpretazione  primo-novecentesca – “futuristeggiante” e da “poeta-scienziato” – che ho  visto nel “Discorso su Dante” di Mandel’štam.  Buffagni riafferma proprio la visione “tradizionale”: quella del “Dante-monumento”, del “poeta grandissimo” e “grandissimo uomo e cittadino”. Cosa rispondere?

2. Riporto innanzitutto in questo post (per comodità dei lettori)  il commento di Buffagni:

roberto buffagni
16 gennaio 2014 alle 17:56 

Bè, che uno si aggrappi a Dante quando gli tocca di fare un giro all’inferno come a Mandel’stam o a Levi non mi sembra strano. Né mi sembra strano che ci si specchi, fino ad attribuirgli la sua propria goffaggine (M. era goffo, un gran pasticcione), la propria insicurezza, le proprie debolezze umane. Dante, per quel che se ne sa, nella vita tanto goffo non era, anzi (difficile essere imbranati e sopravvivere a uno scontro di cavalleria all’arma bianca); e francamente, nella Commedia la goffaggine proprio non ce la vedo, come non ci vedo la geologia, la fisica dei quanti o i cerchi nel grano. Sarò banale, sarò servile, ma il cattolicesimo ce lo vedo eccome, e per non vedercelo bisogna impegnarsi mica male: come bisogna impegnarsi mica male per non vedere l’analogia di bruciante attualità tra l’episodio del conte Ugolino e la carestia ucraina provocata da Stalin, l’Holodomor [1](svariati milioni di morti di fame, molti episodi di cannibalismo anche intrafamiliare). Ora, pare che M. si sia deciso a scrivere la poesia contro Stalin che gli è valsa la deportazione e la morte proprio perché era venuto a sapere, da fonti incontestabili, di quella gigantesca catastrofe politica e umana, che si svolgeva mentre tutta la verità ufficiale cantava “ma come si sta bene qui nella patria del comunismo”.
Se stava zitto, se continuava a stare zitto, temeva di finire per disprezzarsi, decadere, diventare una merda. Scrisse, recitò agli amici, alla moglie e all’amante, la quale ultima per timore di rovinarsi e prendere un trenino per la Siberia se taceva, lo denunciò.
Rischiava un colpo alla nuca in una cantina della Lubianka; ma Stalin amava i poeti e i letterati, e gli andò bene (si fa per dire).
Che poi non abbia voluto insistere diffondendosi sulla vicenda di uno che per ragioni di politica è morto di fame dopo aver mangiato i cadaveri dei figli, quando in ogni istante i servizi segreti potevano frugare tra le sue carte, mi sembra più che umano: per fare una simile scelta da monumento eroico ci voleva giusto Dante, uno capace di esiliare e mandare a morire, per rettitudine e amor della patria, il suo migliore amico di gioventù[2]; o di rifiutare l’amnistia propostagli dai nemici politici purché ammettesse le sue (false) colpe, autocondannandosi a non veder mai più Firenze, neanche da morto; e costringendo i figli, se volevano stare con lui, alla vita dell’esule (lasciamo stare Lampedusa che non c’entra un cavolo, Dante era uno sconfitto politico, ma non era una vittima di niente).
Perché Dante, ragazzi, e M. può dire quel che gli pare, è SUL SERIO un monumento, e tale era anche in vita: era cioè non solo un poeta grandissimo, ma un grandissimo uomo e cittadino. Dà fastidio? Dà fastidio. Fa venire il mal di testa, il senso di colpa, di insofferenza, di inferiorità? Eh sì. Però è così. La grandezza himalayana è quella roba lì. Futile fargli le bucce adducendo che gli piaceva troppo il mascarpone, che faceva rumore bevendo il brodo…

3.  Per cominciare, ricorderei che, nel mio dialoghetto, avevo messo in bocca al poeta esodante queste caute parole:«Ma non l’avrai vinta tanto facilmente  col Dante dei professori. Occhio, quello resisterà. Non è che il Dante-monumento non esista o sia un’invenzione degli accademici. Si è costruito accanto a quello imbranato. E vi ha contribuito proprio  quel Virgilio-ragione, che Dante scelse come guida».  Ho così voluto ancorarmi a una visione dialettica, non unidimensionale. O, quantomeno, suggerire che il conflitto delle interpretazioni è costante nelle letterature e  solo in apparrenza tocca risultati ultimativi e definitivi. Se una parte (quella «samizdat», l’ alter ego “politicizzato” del «poeta esodante») è attirata dall’immagine del Dante «poveraccio»,  sulla quale s’è soffermato Mandel’štam  (e che ho trovato in parte coincidente con quella che mi ero costruito io: del “Dante migrante” o “esodante”),  non è che l’immagine del Dante-monumento svanisca di colpo. E il commento, apparentemente leggero,  disinvolto e non professorale di Buffagni, proprio questo conferma. Perciò non mi sorprende.

4. Buffagni contesta in toto non solo il Dante «poveraccio» di Mandel’štam, ma sostiene vigorosamente che, sì, Dante è proprio un monumento (intoccabile, aggiungerei). E lo fa prendendo di petto, per così dire, Mandelštam. Faccio ancora notare che, nel dialoghetto,  Samizdat – un po’ per ammirazione verso il poeta russo (da me condivisa), un po’ per rimanere al testo in questione (il suo «Discorso su Dante»), un po’ per non cambiare argomento, occuparsi cioè del contesto storico del saggio di Mandelštam, e cioè del volto meduseo della storia dell’Urss oggi completamente eclissatasi  e ardua da disseppellire – si era soffermato soprattutto sul  Mandel’štam “formalista”, sfiorando appena – e criticamente – la questione “contenutista”.

5.  Buffagni, però, accenna a due punti che a me sembrano interessanti e che non vorrei in alcun modo evitare. Allude innanzitutto – almeno  a me così pare –  alla reale, feroce,  situazione dell’Urss stalinista  che condizionava l’opera di  Mandel’štam. Tanto scottanti avrebbero potuto essere stabilire diretti  collegamenti tra la figura del Dante esiliato e la condizione di “immigrato interno” e sospetto “nemico del popolo” dello stesso Mandel’štam, che  il poeta si autocensurò. Fino a sorvolare o a rimuovere  un approfondimento “contenutistico” dell’episodio di Ugolino.  A riprova – Buffagni non lo dice, ma è facile dedurlo – di quanto sia stata pesante quel condizionamento politico; e, più in generale,  di quanto sia  fallimentare e controproducente tutta l’esperienza di costruzione del socialismo (e non solo del «socialismo in un sol paese»). La Rivoluzione russa, ala fine della fiera, avrebbe avuto gli stessi pesanti tratti “medievali” che voleva combattere, non tanto dissimili da quelli dei tempi di Dante in quanto a ferocia della lotta politica e a miseria dei rapporti sociali.  Inoltre – l’ aggiungo io –  a livello simbolico sarebbe facilissimo e non del tutto arbitrario accostare la «orribile torre» col suo uscio inchiodato per sempre dagli sgherri dell’arcivescovo Ruggieri all’Urss di Stalin.

6. Non so, dai pochi accenni contenuti nel suo commento, quali siano le effettive conoscenze di Buffagni  sulla vicenda di Mandel’štam, sulla sua poesia e sulla storia dell’Urss. Non me ne scandalizzo però, come ha fatto troppo visceralmente Marcello Mariani nei suoi stizziti commenti. Anche se le opinioni di Buffagni su questi temi fossero, come le mie, “di riporto”, per “sentito dire”, perché dovrebbero essere sottovalutate o svilite?  Non tutti possiamo basare i nostri discorsi su informazioni dirette o riservate o di prima mano. Non vedo però perché dovremmo condannarci al silenzio e perché non potremmo interrogarci su un poeta o sulla storia del suo Paese. A patto che il nostro discorso non diventi chiacchiera da salotto o un’operazione presuntuosa e ideologica, tendente a mostrare questo o  quel fuscello nell’occhio ex-sovietico e a tacere della trave presente (da secoli) in quello occidentale. O a ridurre a pura propaganda  da “libro nero del comunismo” l’evocazione di questa o quella strage.

7. L’accenno di Buffagni all’Holodomor ucraino potrebbe far sospettare  che egli possa volersi fermare a quella porzione (“comunista”) dell’orrore della storia umana. Che egli, cioè, si faccia portavoce della propaganda dell’Occidente “libero”, il quale ha  sempre sostenuto che  unicamente per propria scelta e per la malvagità intrinseca dei comunisti “mangia-bambini”  l’Urss e i cosiddetti Paesi dell’Est si fossero circondati di una «cortina di ferro»; e che il “libero” Occidente con la cosiddetta Guerra Fredda,  lungi dal rafforzarla aveva solo tentato di difendersi da un pericolo mortale che  minacciava le “radici cristiane” dell’Europa.

8. Ma, avendo – almeno io – già, in altre occasione e in altro siti (Le parole e le cose in particolare), avuto Buffagni come interlocutore/antagonista, posso assicurare i lettori di questo blog sulla sua “correttezza dialogica” . I suoi discorsi partono certamente da premesse “tradizionaliste” e “anticomuniste”, ma non sono mai bassamente unilaterali o tendenti a scaricare le tragedie della storia esclusivamente sugli “altri” (i demoni, i cattivi, i bestiali). Pur professando una visione della storia, che mi permetto di definire “cattolico-manzoniana-noventiana”, a me pare utilissimo  confrontari lealmente con le sue posizioni. L’esperienza di Mandel’štam e di tanti altri poeti e scrittori dell’epoca sovietica contiene nuclei di verità politico-poetica, che vanno messi a confronto con altri nuclei di verità politica presenti – contraddittoriamente e tragicamente – anche nella esperienza di quanti li perseguitarono – da politici puri – in nome del “comunismo”. Lo so che questi eventi e personaggi  sono fuori moda e appare persino vano ripensarli. Ma qualcuno coraggiosamente  e meritoriamente lo fa ( Si veda «L’esperimento profano» di Rita Di Leo, di cui  qui una recensione).

9.  Detto questo, a me pare di cogliere, anche  nello sguardo “impertinente” di Buffagni  sul dialoghetto 2014 n. 1 , una interessante ipotesi di portata generale (quasi a sfondo psicanalitico). E’ come se Buffagni si chiedesse: Non è che il formalismo (di  Mandelštam, ma anche di tanti altri poeti e intellettuali “macinati” dalla rivoluzione sovietica, che spesso avevano accolta speranzosi o persino con entusiasmo, come capitò ad Alexsandr Blok o a Vladimir Majakovskij), sia la risposta sublimante e cifrata, alla quale s’aggrapparono  uomini sensibili, che non volevano completamente «finire per disprezzarsi, decadere, diventare una merda»?  Forse traviso, ma, anche in altre epoche  “repressive”,  fenomeni culturali ed artistici come il manierismo o il  barocco funzionarono allo stesso modo. Basti rivedersi l’epoca della Controriforma, che pare stia tornando addirittura di moda tra  autorevoli intellettuali italiani (qui). O la storia degli eretici, studiata da Cantimori e più di recente da Prosperi. Si ritrovano  gli stessi comportamenti, più o meno di “dissimulazione onesta” o disperata, di Mandel’štam e di altri scrittori d’epoca sovietica.

10. Quanto, invece, al Dante-monumento che Buffagni contrappone (troppo, secondo me) al Dante «poveraccio» e “formalista” di Mandelštam,  invitandoci ad inchinarci alla sua « grandezza himalayana», insisto  a non essere d’accordo.  Non per «fastidio». O perché di fronte a «un poeta grandissimo, ma [anche] grandissimo uomo e cittadino» mi  venga «il mal di testa, il senso di colpa, di insofferenza, di inferiorità». Piuttosto per le ragioni che – guarda caso – proprio in questi giorni ho spiegato, qui sul blog, a Antonio Sagredo, che anche lui a mio parere faceva una distinzione troppo drastica ( e snobistica) tra “Poeta” e “poeti”. (Trascrivo il mio commento  polemico sotto, sempre per comodità dei lettori [3]).  Ma voglio esporre anche un’altra ragione elementare e di carattere generale che mi  oppone alla “monumentalizzazione” di Dante: non tutti possono entrare nella storia dagli ingressi principali o riservati a certe élite e guardarla dall’alto. A Dante questo – per sua fortuna o sfortuna non so – questo accadde. Se pensiamo che fu persino inviato dai responsabili  della “stanza dei bottoni” di una Firenze, allora abbastanza al centro del viavai della “Grande Storia”, in delegazione da uno dei potentissimi d’allora, come papa Bonifacio VIII. Molti, però, non vi entrano neppure nella storia. O vi entrano dalla porta di servizio. O altri, come il «poveraccio»  Mandel’štam,  finiscono nei suoi scantinati.  O alloggiano «sulla scala di servizio» (Cfr. la poesia «Leningrado», che abbiamo sfiorato in altra discussione: https://moltinpoesia.wordpress.com/2014/01/03/letture-per-poeti-10si-lavava-di-notte-allaperto/#comments).

11.  E poi a me poi ha sempre  ed enormemente impressionato (ah, le proiezioni!)   questo detto di Brecht, che spesso cito: – Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo![4]).  Ecco, quella di Mandel’štam (come le nostre o le mie d’oggi!) sono di questo tipo. Non per questo debbono scomparire rispetto a quella di un Dante ridotto a fonte unica,  perenne, inimitabile ( e castrante, diciamocelo).

12. Quanto al cattolicesimo della Commedia (comunque tutt’altro che bigotto e in odore di eresia, a sentire certe interpretazioni di Dante), non è che non ce lo vediamo. E che non ce ne accontentiamo. Non ricordo più dove lo lessi, ma Zanzotto, a chi troppo sottolineava questi legami di Dante con il cattolicesimo o  discuteva seriosamente persino sull’ipotesi che Dante avesse scritto la Commedia  sulla base di una visione dell’aldilà o dopo un effettivo viaggio da quelle parti, rispose che a lui interessava la lingua che Dante aveva  inventato per parlare di quel viaggio; e che soprattutto questa doveva interessare i lettori, credenti o non credenti. Altrimenti la Commedia si riduce a una esposizione della Summa di Tommaso d’Aquino.

13.  Sullo specchiarsi in Dante attribuendogli  « la sua propria goffaggine», come ha fatto  Mandelštam, non ci vedo nulla di male. Saranno proiezioni soggettive. E toccherà poi ai critici e agli storici della cultura stabilire se hanno colto un tratto più o meno nascosto della personalità e dell’opera di Dante.  O se si tratta di esagerazioni o travisamente per motivi “personali” o “contingenti” (per cui  svelerebbero più del sé del lettore o della mentalità della sua epoca che non di Dante o del Medio Evo).  Possono però essere sempre dei varchi per avvicinarsi  a Dante, per leggerlo o rileggerlo con una chiave diversa da quelle già in uso. Accanto, dunque, all’interpretazione che Mandelštam ha dato di Dante, ci stanno bene – per complicare il discorso – anche quelle  altri. Di Saba, ad esempio.  Che in lui trovava «un padre e bambino contemporaneamente (363). Lo ricorda sempre Zanzotto; e ne riporto in nota[5] il brano.

14.  Velocemente per finire. È così sicuro Buffagni che bisogna lasciar stare «Lampedusa che non c’entra un cavolo» con Dante, che «era uno sconfitto politico, ma non era una vittima di niente»? Davvero i migranti che lì arrivano non sono vittime di niente? Davvero non ci sono tra loro molti «sconfitti» o profughi  politici che alla lontana, come Dante, ma «sul fondo» della storia,  imparano a loro spese quanto « sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»?


[1] Holodomor (in lingua ucraina Голодомор), noto informalmente anche come Genocidio ucraino o Olocausto ucraino, è il nome attribuito alla carestia, di origine sia dolosa sia naturale, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina[1] negli anni dal 1929 al 1933 e che causò milioni di morti. Il termine Holodomor deriva dall’espressione ucraina moryty holodom (Морити голодом), che significa “infliggere la morte attraverso la fame”. In Ucraina, il giorno ufficiale di commemorazione dell’Holodomor è il quarto sabato di novembre.

[2] Da  http://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri/

«dal maggio al sett. 1296 [Dante] appartenne al più importante dei consigli cittadini, quello dei Cento, e, soprattutto, dal 15 giugno al 15 ag. 1300, fu tra i priori, eletti proprio col compito di opporsi alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di papa Bonifacio VIII che, col pretesto della vacanza dell’impero, e contando sulle discordie cittadine, mirava al dominio sulla Toscana. Notevole nel priorato di D. fu anche il provvedimento preso, pare per suo consiglio, di bandire da Firenze – in seguito a un assalto dei Neri ai consoli delle Arti, e alla reazione dei Bianchi – i capi delle due fazioni; tra i Bianchi era compreso Guido Cavalcanti, il “primo” degli amici del poeta, com’egli stesso lo chiamava nella Vita nuova.».

Non è superfluo precisare che il termine ‘amor di patria’ usato da Buffagni nel Medio Evo non ha il senso nazionalistico che poi ebbe dall’Ottocento in poi.

[3] ·  Ennio Abate

16 gennaio 2014 alle 09:13 (Modifica)

@ Sagredo

“Ci sono i poeti e ci sono i Poeti”.
C’è troppo snobismo dall’alto in questa affermazione. Non voglio contrapporvi il solito snobismo dal basso, ma questi ragionamenti:

1. “Ci sono i poeti e ci sono i Poeti”? Forse. Si tratta di classifiche strumentali agli interessi di questa o quella lobby letteraria. Perché, fuori da questo giochetto lobbistico, il confine tra poeti e Poeti è stabilito sempre soggettivamente. Ora da critici “autorevoli” (es. Croce) ora da comunità letterarie “autorevoli” (mettiamo: il Gruppo ’63). E varia nel tempo in base a mille fattori esterni. Non mi ci soffermo. Ricordo soltanto che Dante fu a lungo disconosciuto quando erano di moda i petrarchisti.

2. Ma cos’è questa enfasi esagerata sui Grandi Pastori e sui lettori ridimensionati a pecore? Mica siamo in un presepe o in un mondo pastorale o biblico coi suoi Mosè e i popoli selvatici da guidare. Siamo in società “liquide” (Bauman). È tutta un’altra storia ( non necessariamente migliore della passata) che si va a vivere.

3. E poi la grandezza di un poeta si misura dalla piccolezza degli altri? Parafrasando Brecht, dico: guai a quelle società che hanno bisogno del Poeta (l’eroe della poesia, il Vate, ecc.); meglio le società dei * molti in poesia* (e della de-sacralizzazione della Poesia!). La grandezza di un poeta (rigorosamente in minuscolo) sta nell’aprire vie percorribili dagli altri, da molti altri; e non vie riservate a pochi e respingendo gli altri (le folle, le pecore, le masse, gli anonimi). Nel primo caso il sapere nuovo, che il poeta raggiunge (magari in anticipo su altri), non è usato contro gli altri. Nel secondo caso, sì. Nel primo caso il poeta è prometeico. Nel secondo si fa complice di poteri preesistenti, che ogni sapere usano per perpetuare il loro dominio.

[4] Dal frammento La bottega del fornaio (Ne approfitto qui per una battuta di striscio  ad foeminas: Ah, le preghiere! Cara Banfi e cara Locatelli, bisogna sapersele scegliere!)

[5] Nel riportare il brano di Zanzotto sottolineo i passi che hanno maggiori collegamenti con la discussione di questo post:

«Occorre insistere sull’ apprezzamento che Saba fa di Dante  inquadrandolo nella propria teoria del poeta: si sa che nel poeta c’è un bambino che però è anche un adulto. Il bambino si stupisce della bravura dell’ adulto; ladulto si stupisce della profondità delle sensazioni del bambino, e insieme si armonizzano. Se qualcuno è troppo adulto, di fronte alla fresca innocenza della poesia finisce per diventare disdegnoso, sospettoso e perde il contatto con essa. Se invece è troppo bambino finirà per essere eccessivamente egoistico, non arriverà veramente a valori comunitari, cui solo l’adulto può riferirsi. Quest’ultimo è per Saba il caso di Pascoli, da lui citato come troppo bambino (anche se Pascoli si era messo la maschera del bam-
bino per nascondere cose molto più complesse). È uno schema per molti aspetti accettabile. Dante, secondo Saba, rappresenterebbe dunque colui che è insieme bambino e adulto al massimo livello e quindi poeta in senso assoluto. Ma, come sempre avviene, anche Saba attraverso tali apprezzamenti e teorie parla di se stesso pur se non può paragonarsi direttamente a Dante rispetto al quale egli opera in condizioni storiche addirittura capovolte. E vero comunque che Dante ha in sé nascosto un pusillo gemente che si rivela quanto più egli s’innalza verso il Paradiso; il Dante puer, quello della primissima infanzia, lo si ritrova mano a mano che egli s’innalza verso gli estremi gradi del linguaggio, là dove il linguaggio non può reggere la tensione di ciò che deve esprimere. Nella vicinanza  di Dio, nel Paradiso, negli ultimi canti, il linguaggio in realtà viene proiettato di fronte a se stesso, dato che si postulano come presenti esperienze sovrumane (non umane). Dante ha tuttavia realizzato il suo Paradiso-paradiso, e almeno è riuscito a porlo come problema non solo espressivo ma addirittura linguistico; ha dovuto affrontarlo come problema di esperienza sua personale e di esperienza poetica. In quel vuoto di riferimenti si accampano i numerosi paragoni presenti in tutta la  parte terminale della Divina Commedia, che riconducono «all’infante/che ancor bagna la lingua alla mammella». E non si può non ricordare l’inizio XXV Paradiso, in cui pare che il poeta abbia affrontato il suo onere cosmico solo per poter rientrare nell’ amata Firenze, nel fonte battesimale, nel «bello ovile» dove aveva dormito agnello. Agnello: animale e insieme simbolo divino. In quei versi, la massima funzione morale e sociale del poeta come adulto, è consapevolmente affiancata al modo di essere, anzi al «desiderio» dell’infante, e in ultimo ricondotta ad un’ animalità che è insieme biologicamente «calda» e archetipico-simbolica. Anche Saba mette il suo «adultismo» al servizio di questa «puerilità», di quest’infanzia senza
tempo, al di là del piccolo Berto, e fino a ricollegarsi agli ani
mali. Ma, come si accennava Saba si trova al polo opposto di Dante: alle prese cioè con una lingua (e con un’epoca) sempre più «tristi», autodistruttive, mentre Dante creava addirittura una nuova lingua, stava nell’inizio di un nuovo tempo, di una nuova nazione.

(da Andrea Zanzotto, Per Saba in Fantasie di avvicinamento, pagg. 365-367, Mondadori, Milano 1991)

13 commenti

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13 risposte a “Ennio Abate
Su Dante “monumento” e Dante “poveraccio”. Risposta a Roberto Buffagni

  1. Caro Ennio,
    va bè, avevo scritto che non sarei intervenuto; ma tu mi replichi con queste cinque cartelle (grazie), e non risponderti in pubblico sarebbe scortese.

    Premessa: a Mariani, e a gente come lui (per esempio questo claudio perrone [ho eliminato il suo commento. E.A.], un parente stretto, forse strettissimo di Mariani che scrive anche lui con l’iphone e oltre ad essere maleducato sbaglia l’ortografia), non rispondo.

    Di Mandel’stam so poco. Ho letto qualche poesia e qualche notizia biografica. Non è uno dei miei autori preferiti. Se ho scritto inesattezze o peggio, me ne scuso con chi lo ama, e ringrazio chi mi correggerà.
    Sono intervenuto per un motivo solo e unico: non per difendere Dante, che non ne ha nessunissimo bisogno, ma per difendere una cosa che mi sta a cuore: l’idea di grandezza, e la gerarchia dei valori, non solo poetici (anzi, soprattutto gli altri, i non poetici).
    Visto che mi fai credito di una visione “manzoniano-noventiana”, (troppa grazia) ti ricordo che Noventa parlava di “protestantesimo letterale”.
    Che cos’è, il “protestantesimo letterale”? L’atteggiamento che da una necessaria e sacrosanta protesta contro le falsificazioni della verità, dalla “protesta” contro tutto quel che non va nella Chiesa e nella religione (termini ai quali chiunque può sostituire quelli che, a suo modo di vedere, denotano il vero e la sua espressione storica: dunque, anche il comunismo, perché no) trapassa in una pura, “letterale” negazione o rovesciamento di quella verità; o che finisce per dire che la verità, visto che la si può infarlocchire, non esiste.
    Il Dante monumento dei professori è fasullo? Certo che è fasullo, fasullo per definizione; e benvenute siano le critiche a quel Dante fasullo, a quei professori tromboni, eccetera.
    Però, per disincrostare il monumento Dante dalle cacche di piccione professorali tu non mi puoi tirare fuori che Dante era un poveraccio, un imbranato, un migrante, una vittima, bref un povero coglione come noi. Eh no, Ennio! (Lo so, esagero, ma ci siamo capiti).
    La grandezza, e l’eroismo, ci furono e ci sono, o come minimo ci possono essere; e se noi non siamo né grandi né eroici non ci facciamo bella figura, trattando Dante come la volpe e l’uva.
    Dante è tante cose. Nella “Vita nuova”, quando racconta del suo trip dopo la morte di Beatrice, sembra un ragazzino che si è calato qualcosa di veramente pericoloso. Dante però è anche un uomo che ha dimostrato, nel modo meno facile di tutti cioè mettendoci la faccia e rischiando tutto, un eccezionale coraggio fisico e morale, e una altrettanto eccezionale coerenza tra quel che credeva e quel che faceva. Già di coraggio morale ce ne vuole una carrettata solo per tentare qualcosa come la Commedia; se poi ci aggiungi quello, anche fisico, di cui ha dato prova nell’azione politica, altro che monumento! Un camion di medaglie ci vuole.
    E se cominciassimo di lì? Se cominciassimo ad ammirare il monumento Dante, e a riconoscere la distanza che corre tra lui e noi, vasta come quella tra il dire e il fare?
    Poi gli troveremo anche il tratto “umano”, il difettuccio (per esempio, la totale assenza di sense of humour), la debolezza, l’alito pesante, se proprio ci teniamo, se proprio ne abbiamo bisogno per non sentirci troppo piccoli al suo cospetto.
    E va bè. Manzoni era nevrotico, pesava i vestiti sulla bilancia (più pesanti, più leggeri); Dostoevskij si faceva le pippe pensando alle ragazzine, forse si faceva anche le ragazzine; Martin Luther King scopava le puttane gridando “Stasera non sono un negro!”; Baudelaire piagnucolava bassamente bussando a quattrini dalla mamma; e così via. Dante, chissà, magari quando i suoi protettori lo invitavano a pranzo, con la scusa che il pane altrui sa di sale gli fregava l’argenteria.
    So what? Embè?
    Andiamo al dunque. Ho scritto che Mandel’stam ha sorvolato sull’episodio del conte Ugolino per paura che i suoi sorveglianti leggessero, e facessero due + due: “Questo parla di Ugolino per parlare dell’Holodomor”, = colpo alla nuca.
    Non ho prove, tranne la clamorosa coincidenza temporale, e il fatto, storicamente acclarato, che nell’URSS di quegli anni chi parlava, anche al bar, della carestia ucraina, faceva una bruttissima fine.
    Se ci ho preso, non ci trovo niente di strano o di infame, nel comportamento di M.; e la sua (relativissima) viltà non importerebbe che sia stato un quaquaraquà, o un poeta da niente. Nessuno sa come si comporterebbe, se una forza soverchiante lo minacciasse seriamente di morte. Prima ti ci trovi, e dopo lo puoi dire.
    In Italia, negli stessi anni, in un regime politico infinitamente meno pericoloso e persecutorio come il fascismo, poeti veri come gli ermetici parlavano quella che il tuo maestro Fortini chiamava “la lingua dei servi”, cioè a dire parlavano d’altro, ci giravano intorno, facevano, appunto, “del formalismo”; e gli intellettuali antifascisti in generale, salvo eccezioni rare, stavano allineatissimi e copertissimi. Rischiavano molto poco, in confronto a M.: rischiavano un avanzamento di carriera, alla peggio il confino. M. rischiava la pelle sua e dei suoi cari.
    E oggi, scusa? Quanti tra gli intellettuali non stanno allineati e coperti rispetto ai powers that be? Io direi, molto pochi. E cosa rischiano? Di non andare in tv?
    Bene. In questo quadretto, Dante è uno che allineato e coperto non ci è stato mai, e che ha rischiato la posizione sociale, il patrimonio, la famiglia, la reputazione, e pure la vita per quel che credeva giusto e vero. In più, già che c’era – e secondo me, un rapporto tra le due cose, magari non semplice, c’è eccome – ha scritto un’opera che da settecento anni ha qualcosa da dire a tutti quelli che la leggono. Un simpatico pasticcione? Ma andiamo…
    La storia di Lampedusa. Non ci siamo intesi. Io dico che Dante con gli emigranti di Lampedusa non c’entra un cavolo, perché mentre i migranti sono, parlando in generale, delle vittime della storia, povera gente alla quale è capitata una disgrazia che non hanno voluto, cercato, meritato, etc., Dante tutto può essere tranne che una vittima, perché la sua emigrazione Dante se l’è cercata e voluta a occhi apertissimi, e ha continuato a volerla anche quando con una paroletta sottovoce avrebbe potuto farla finire. Uno così non è una vittima: è politicamente uno sconfitto, ma vittima non è e non sarà mai.
    Per concludere. Secondo me, oggi di una cosa proprio non abbiamo bisogno: di sdrammatizzare la grandezza e il coraggio, di minimizzarli, di concludere e far concludere che tutto sommato, anche i grandi e i coraggiosi così grandi e coraggiosi non sono, e che anche la grandezza e il coraggio, visti da vicino, sono farlocchi come tutto il resto. Forse un tempo ce n’era bisogno, ai dì che Berta filava e il professor Caviglione declamava Dante e Carducci facendosi scoppiare i bottoni del panciotto.
    Oggi, direi proprio che non ne abbiamo bisogno. Ci pensano già, meglio di te e di me, le grandi Fabbriche della Chiacchiera, le uniche che non conoscono crisi di domanda solvibile.
    Grazie ancora e ciao.

  2. Mah! troppa carne al fuoco e forse troppa enfasi in tutti questi ragionamenti. Io credo questo: che ognuno prende dal poeta quello che gli pare e quello che può. Sapere “chi” fosse Dante, è importante, ma credo che conti saper entrare nella sua poesia, non importa a che livello. Per capire un medioevale, infatti, so dovrebbe avere il medioevo in testa, la sua sensibilità, il suo orizzonte e questo è il lavoro degli eruditi, di coloro che accostano poesia e storia per ricavarvi sempre nuovi nessi o scoprire nessi che a quei tempi non era necessario neppure mettere in luce, perché erano ovvi e chiari in quell’rizzonte.
    Dante, a quanto ne capisco, ha messo in poesia il suo tempo. Si vede che è coltissimo e non soltanto poeta. La storia ci dice che fu un politico di notevole spessore e, soprattutto, di rigore morale. In esilio certo ci va non da poveraccio o da sfigato: quelli sono altra cosa: lui è sempre stato un animale da Corte, certo non quella delle cascine. La storia del “pane altrui” non mi ha mai convinto: credo ci sia un poco di autocommiserazione in questa cosa ma vabbé, momenti di depressione ce li abbiamo tutti… Si trova prepensionato dalla politica, si guarda allo specchi e si dice: mo’ che faccio? A combattere non c’era avvezzo, anche se partecipò a battaglie, come molti di qualche generazione prima della nostra, senza avere la vocazione del militare. Il mestiere che sapeva fare bene e che in quel tempo qualcosa rendeva ancora, era quello dell’intellettuale e del poeta. Quello lo sapeva fare molto bene e lo fece. Nella sfiga ha avuto anche la fortuna di fare “l’uomo di lettere”, fortuna che non a molti toccò, nella storia, specie di questi due ultimi secoli – allora c’erano ancora i Mecenati e non dobbiamo dimenticare che i poeti scrivevano per loro, mica per Pinco Pallo Edizioni. E quindi il rigore morale del nostro Dante, come avrà subito questa cosetta? Magari qui c’è qualche pagnotta amara da ingoiare: scrivere per dei signorotti cazzuti, a volte ignoranti come buoi a volte finissimi letterati pure loro, ma scriverfe con l’occhio del padrone addosso, più o meno. In questo non era molto dissimile, la sua condizione di quella del poeta russo – immagino. Mica per niente il suo mentore spirituale è Virgilio (uno che sapeva molto bene navigare a vista e trarsi d’impiccio anche di fronte ai potenti servendosi di altri potenti senza mai leccar lolro la mano più di tanto, come invece per certi versi fece Orazio). Ed è anche per questo che Dante fa il cattolico, il teologo: forse per pararsi il culo, forse facendo dire alla religione qualcosa che avrebbe voluto dire fuori dai denti e non poteva permetterselo sennò avremmo avuto un San Dante decollato in calendario. E poi la poesia è un buon paravento per dire cose terribili con l’aria di un bambino che chiede (cacciare arcivescovi e papi all’inferno, farci esaltare per quello che la prosaica verità definirebbe “adulterio”, condannare tutti i vizi e le peccata dei politici del tempo, certo, ma circondandoli come di un’aura di benigna comprensione). Un socialdemocratico d’altri tempi, sotto questo punto di vista, ma se non avesse scritto così forse non avrebbe potuto scrivere. Avrebbe fatto la fine del nostro poeta russo, che non poteva avvalersi di poteri e contropoteri, perché il potere era uno solo.
    Insomma, è vero che quest’uomo è un gigante, perché la sua vita è stata un unico atto creativo, non soltanto artistico ma anche una creatività pratica, intelligente, molto concreta. Basterebbe studiare la Comedia per diventare medioevali, così come basta studiare Omero per capire i greci antichi. Dante ha fatto del suo tempo un poema, non tanto un poema del suo tempo. E poi c’è il merito della lingua, della versificazione, dell’aver trovato una lingua dal suono seducente, flessibile e pronta ad essere plasmata per ogni sottigliezza, scorrevole, chiara e insieme concreta, che ve niva subito al nocciolo (non così altri poeti medioevali, magari anch’essi abili versificatori, ma menatori di molti can per l’aia). E piace ancora oggi, affascina, accende la fantasia, lo staremmo ad ascoltare. Persino gli uomini di spettacolo lo recitano e quella recita diventa un avvenimento (Gassman, Benigni…). Dunque, la poesia di Dante prende ancora oggi, ed è questo il segreto da indagare. Forse perché racconta, invece di ciurlare nel manico. Bellissimi racconti in versi, cose concrete, “res”, che piacevano ai medioevali ma piacciono anche a noi. Invece di scrivere su Re Artù o su Olrando a Roncisvalle, Dante scrive sulle avventure di un popolo, di una civiltà, tramite delle narrazioni paradigmatiche. I poeti di oggi invece, se la menano e se la cantano per i fatti loro, piegati sui loro significati che neppure loro sanno interpretare e dimenticano che ci sono anche i lettori a fare la poesia, non soltanto i poeti. Per me dunque il Dante è un grande punto di riferimento, ma certamente non il solo e non lo vedo poi così himalayano. Certo, “di Dante ce n’è solo uno” – ma per fortuna, soggiungo – sennò chissà che palle ci avrebbero fatto quelli che credono che di Dante ce ne sarà uno solo e in eterno. Voglio dire che, anche se l’uomo è grandissimo e sicuramente uno dei maggiori poeti dell’umanità intera, con qualche migliaio forse di altri nomi, per essere onesti – e anche perché la poesia non si scriveva soltanto in Europa, anche nell’antichità e non ci sono soltanto i nostri canoni o i canoni accademici per poter valutare una certa poesia. Insomma, il poeta Dante è senza dubbio un grande poeta (come migliaia di altri), un abile narratore in poesia, dotato di una cultura vastissima, abile e intelligente nella sua visione poetica ma anche nelle scelte concrete della vita e, a suo onore, coerente con una sua visione morale della vita civile. Questo, credo io, è innegabile. E poi è stato il primo di simile statura, nella letteratura italiana, tant’è che lo si chiama “il padre”. OK, gliene rendiamo merito. Ma credo anche che poi bisogna dare un taglio a questa enfasi a mio avviso sconsiderata per la figura di questo poeta e vedere se fra quelle migliaia di cui dicevo sopra, magari non ci sia qualche altro esempio da indagare con altrettanta pertinacia.

  3. @ Buffagni

    Non vorrei insistere con troppi no rispetto a quanto ora aggiungi in questo commento (18 gennaio 2014 alle 16:48). Forse tra noi c’è un equivoco. Mi pare che non c’intendiamo sulla questione dell’idea di grandezza o della gerarchia di valori. Ti faccio notare, però, che hai saltato quelli che considero i due punti cruciali della mia posizione: la citazione in cui Brecht distingue (non contrappone!) lotte in alto e lotte in basso; e il rimando alla mia risposta ad Antonio Sagredo, dove, se rileggi, facevo una domanda per me decisiva: «la grandezza di un poeta si misura dalla piccolezza degli altri?».
    Questi miei due puntelli (altri sono: lo Spinoza che teorizza la fluidità del rapporto tra saperi alti e basso, di cui ho parlatospesso a proposito dei “moltinpoesia”; e il Fortini che sollecitava l’incontro dialogante tra il filosofo e il tonto) dovrebbero chiarire che non rifiuto, odio o provo risentimento verso la grandezza – poetica e/o umana – di Dante, Leopardi, Galileo e tanti altri/e. Tutta la mia diffidenza si concentra verso l’*ideologia* della grandezza (o potrei dire: verso i presupposti filosofici di un certo tipo di idea di grandezza) che cancellano “la grandezza che non si vede” o non rientra nel Canone dominante. E’ quella che invariabilmente viene usata a piene mani per fissare un unico tipo – astorico, immutabile o addirittura “naturale” – di grandezza.
    Concordo, dunque, con te quando dici: « La grandezza, e l’eroismo, ci furono e ci sono, o come minimo ci possono essere». E ti assicuro che non voglio « sdrammatizzare la grandezza e il coraggio» né minimizzare nulla. Sbagli a pensare che, simpatizzando con quanti mi aiutano a « disincrostare il monumento Dante dalle cacche di piccione professorali» (avevo citato nel dialoghetto Emilio Pasquini), io voglia ridurre Dante a «un simpatico pasticcione» o a «un povero coglione» (non «come noi», perché non penso che noi – io, te e tantissimi altri – lo siamo) o a «una vittima» (e chi ti dice – qui insisto ancora – che i migranti d’oggi a cui ho accostato Dante siano soltanto delle vittime?). No, non voglio comportarmi di fronte a Dante come la volpe con l’uva non matura. O cedere alle «Fabbriche della Chiacchiera». Non m’impressionano i «difettucci» suoi o di Manzoni. Messi sul piatto della bilancia contano pochissimo rispetto alle loro opere. Né nego la « distanza che corre tra lui e noi». È distanza storica (politica, culturale, linguistica), come dice Zanzotto nel brano che ho scannerizzato. E come diceva Pietro Cataldi, che seriamente ne parlava come un «marziano» in una discussione del 1999-2000 (qui:http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=332:pietro-cataldi-ennio-abate-su-dante-oggi&catid=2:storia-adesso&Itemid=15), che ebbi con lui e alla quale rimando chi volesse approfondire anche i precedenti dei nostri due punti di vista. Il problema vero e non facile è come relazionarci a quella sua reale e non ideologica grandezza. Io resto convinto che non è ammirando il Dante-monumento, che usciremo dal «basso loco» in cui siamo finiti; e, come scrivevo nel 2000, che «abbiamo bisogno di un Dante attualizzato sulla crisi lunga del ‘900 [e che] per conquistarcelo si deve avere il coraggio di fuggire non solo il Dante-monumento ma anche i suoi scolastici sacerdoti». E perciò il Dante «poveraccio» di Mandel’štam mi ha stuzzicato.

  4. Caro Ennio,
    al volo:
    1) Brecht. In fatto di grandezza, e in generale, sono interclassista. Ognuno ha la sua sfida, e certo il coraggio del signore non si esprimerà come il coraggio del servo, la poesia dell’analfabeta come la poesia dell’istruito: ma se lo sono, restano coraggio e poesia tutt’e due. Gli argomenti del tipo “Ma io sono figlio di nessuno” o “Ma io non ho studiato” mi persuadono come “Ma lei non sa chi sono io” o “Ma io sono laureato a Cambridge”, cioè zero.
    2) Distanza da Dante. Certo che Dante è un marziano, e certo che la distanza tra noi e lui è “distanza storica (politica, culturale, linguistica)”, e tte credo, settecento anni sono tanti. E’ anche vero che un ipotetico clone di Dante, oggi, non potrebbe riscrivere la Commedia, perché essa richiede, oltre l’esserne capaci, una unità del senso e della cultura che oggi non si presenta a nessuno. Però, scusa la banalità, è anche e soprattutto distanza qualitativa, nel senso, ovvio, che era meglio lui. (Così io so di essere stato un buon soldato, ma so anche che Teseo Tesei è un’altra cosa). Che Dante sia meglio è un fatto noto, ma non per questo compreso a fondo. Pensandoci, suggerisce parecchie riflessioni, tra le quali cruciale mi par questa: che nelle cose che contano sul serio, non esiste progresso (se non personale). Come diceva un altro marziano, il vero progresso non sta nelle biotecnologie o nelle rivoluzioni politiche, sta sta nella diminuzione delle tracce del peccato originale.
    3) Minimizzare la grandezza. Se ti ho frainteso, me ne scuso e me ne rallegro. Su questo tema tendo a scattare, dev’essere un soft spot. E’ che mi capita spesso di sentire, anche nelle conversazioni quotidiane, un tersitismo che mi deprime (non mi riferisco a te). Anni fa mi capitò di sentire un vecchio che raccontava come suo fratello, durante la IGM, avesse ricevuto l’ordine di resistere fino all’annientamento, e avesse obbedito. I presenti reagirono scrollando il capo, come se avesse raccontato di un povero scemo che si è schiantato facendo il bungee jumping. Se ci ripenso, rifriggo.
    4) Ideologia della grandezza. E’ stata una ideologia abbastanza schifosa. Io non ce l’ho, la mania del grande, specie se con la scusa della grandezza si fanno passare delle gran porcate, com’era uso corrente al tempo in cui l’ideologia della grandezza andava per la maggiore, cioè all’epoca della borghesia trionfante. Non vedo – mi sbaglierò – pericolo che ritorni in pista. Si comincia ad annunciare il superuomo (preclaro esempio di grandezza farlocca) e to’! salta fuori l’ultimo uomo.
    5) Dante oggi. Intanto, lasciamolo circolare per le nostre strade e scuole. Certo, farà la fine del marziano a Roma di Ennio Flaiano, cioè nessuno, dopo un po’, se lo filerà. Ma chissà. Vedi mo’, anche qui, in questo angoletto, che a parlar di Dante si litiga bene?

    • Annamaria Locatelli

      … credo che Mandel’stam (anche Ennio Abate) attriuisca alla parola poveraccio riferita a Dante il significato di “persona che ha conosciuto la condizione dei poveri” e questa particolarità non sminuisce la figura del poeta, anzi . Certo può anche significre “persona di poco valore” ma ovviamente non c’entra niente.
      Mi va di pensare Dante come gigante in umanità e non come mostro sacro inavvicinabile perchè la sua poesia offre quella risonanza umana e la possibilità di di rispecchiarsi in situzioni, pensieri e sentimenti di tipo universale, come l’amore, la crudeltà, il desiderio di conoscenza, il senso del mistero che travalicano i secoli. Viceversa Dante sarebbe proprio solo un monumento di marmo.
      La Divina Commedia per la sua altissima forma e contenuto viene studiata nelle scuole e nelle università italiane e di tutto il mondo ma ha anche saputo raggiungere la fantasia popolare( forse proprio perchè il poeta é stato anche un poveraccio?)..ricordo , come Gianmario, le letture pubbliche dell’opera da parte di Gasman e Benigni, come patrimonio comune da tramandare ma soprattutto un episodio che risale a oltre cinquant’anni fa…Nelle osterie di Lodi, tra cui quella dei miei genitori, , e non più di una o due volte all’anno, si materializzava un”cantastorie”, un senzatetto per capirci, che non si sapeva da dove venisse e dove fosse diretto nei suoi vagabondaggi…Recitava a memoria la Divina Commedia…tutta!!…su richiesta o no canto per canto per un bicchiere di vino. Intorno a lui si formava un crocchio di persone ammutolite e rapite, c’ero anch’io

  5. emilia banfi

    L’immortalità di Dante è in tutti e noi italiani, soprattutto in questo periodo di bassezze politiche, dobbiamo renderci conto di quanto egli abbia voluto dare al mondo intero esempi di grande dignità attraverso i sentimenti e una cultura che lo distinguerà per sempre.
    Parlare del Sommo è sempre necessario.

  6. roberto b

    Di fronte alla scelta simbolica estrema (i cui limiti sono, per l’appunto, quelli dell’estremismo) tra il Dante-monumento e il Dante-poveraccio, non ho problemi nello schierarmi a favore del primo, quello di Buffagni, pur immaginando che la definizione di Mandelštam sia stata una provocazione per meglio identificarsi umanamente in lui. Averlo “ridotto” biograficamente a sé, era forse un modo per riuscire a resistere alla sua condizione di deportato. Salvo poi, per la perversione politica che mi anima, ricercare nei bassifondi la grandezza, anziché nei piani alti. Per questo ho subito condiviso, nel ’94, e ho continuato a condividere sino ad oggi il “discorso” zapatista, un esempio di come la povertà e l’emarginazione d’un popolo non impedisca loro d’affermare dal basso grandezza e dignità. Comunque, per tornare a Dante, c’è stata sì l’appropriazione della “Commedia” da parte dell’accademia, questo aspetto è inevitabile, ma riguarda, appunto, l’accademia che l’ha museificato, non certo l’opera in sè, per così dire, che, come ogni grande opera letteraria, ha nel suo dna gli anticorpi che la disincrostano e la rendono “nuova” a ogni lettura storica. Voglio con ciò dire che la “magia” dell’opera-monumento è di essere sempre attuale, e la sua grandezza consiste nel permettere nuove interpretazioni anche secoli dopo che è stata scritta. Ogni opera del passato vive dello “spirito” dell’epoca presente e si rigenera in esso. Altrimenti non ci sarebbe conflitto d’interpretazioni. Quanto poi alla “dimensione religiosa” e al discorso teologico della “Commedia”, ritengo che il cliché sia stato più forte della “verità” testuale, e l’abbia soffocata. Quale migliore carta da visita, per il cristianesimo, essere rappresentato dall’opera che ha fondato la lingua italiana, e che è una pietra miliare della nostra identità storica? Per farla breve, a mio avviso, il canto XXVI dell'”Inferno”, quello che racconta l’ultimo viaggio d’Ulisse, dimostra che non è così. Secondo la lettura che ne feci a suo tempo, qual canto è una dichiarazione di laicità, che Dante l’abbia voluto o meno, è attesta che dal viaggio d’Ulisse in poi, le morti per naufragio dei navigatori sono laicissime “morti per acqua”, per dire alla Eliot, che escludono vendette o zampini della divinità, cosa assolutamente inedita per la concezione del viaggio medievale.

  7. Rita Simonitto

    Rispondo anch’io a ‘botta e risposta’.
    ***** Ennio al punto 11, dice: * E poi a me ha sempre ed enormemente impressionato (ah, le proiezioni!) questo detto di Brecht, che spesso cito: – Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo![4]). Ecco, quella di Mandel’štam (come le nostre o le mie d’oggi!) sono di questo tipo. Non per questo debbono scomparire rispetto a quella di un Dante ridotto a fonte unica, perenne, inimitabile ( e castrante, diciamocelo).

    Rita: va da sé che c’è questa diversità e ci mancherebbe altro. Ci vogliono tutte e due, rappresentano fette di osservazione, appunto, diverse. Ma perché prendersela con Dante? E’ proprio questa rabbia a farci sentire ‘castrati’!

    ****** Più oltre Ennio dice: *Velocemente, per finire. È così sicuro Buffagni che bisogna lasciar stare «Lampedusa che non c’entra un cavolo» con Dante, che «era uno sconfitto politico, ma non era una vittima di niente»? Davvero i migranti che lì arrivano non sono vittime di niente? Davvero non ci sono tra loro molti «sconfitti» o profughi politici che alla lontana, come Dante, ma «sul fondo» della storia, imparano a loro spese quanto « sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»?

    Rita: Da un lato sono vittime di propagande che si sono giocate sulle loro teste, vittime sacrificali che non possono che seguire ‘a pecorone’ il loro INGIUSTO destino stabilito in virtù di calcoli, di compravendite di merce umana, di cui loro non sono consapevoli. Questo significa il ‘niente’.
    Dall’altro lato, Dante guarda alle *lotte sulle cime* (Brecht) e ci insegna che è il ‘vendersi al migliore offerente’ che in certe situazioni non paga. Perché ci sono anche molti “sconfitti” o profughi politici i quali, proprio in virtù di questa loro veste (e spesso a causa delle loro anche ‘legittime’ delusioni’), trovano accoglienza nei salotti buoni e ci raccontano pietistiche false verità, buone per le anime belle che vogliono lavarsi la coscienza.

    ****** e ancora Ennio aggiunge: *meglio le società dei * molti in poesia* (e della de-sacralizzazione della Poesia!). La grandezza di un poeta (rigorosamente in minuscolo) sta nell’aprire vie percorribili dagli altri, da molti altri; e non vie riservate a pochi e respingendo gli altri (le folle, le pecore, le masse, gli anonimi). Nel primo caso il sapere nuovo, che il poeta raggiunge (magari in anticipo su altri), non è usato contro gli altri. Nel secondo caso, sì. Nel primo caso il poeta è prometeico. Nel secondo si fa complice di poteri preesistenti, che ogni sapere usano per perpetuare il loro dominio.

    Rita: Che piaccia o no (e ciò a causa di confuse reminiscenze religiose), la funzione del ‘sacro’ è molto importante ed è quella che permette di stabilire i limiti, tra il ‘sacro’ e il ‘profano’, tra il dentro ed il fuori, tra l’intimo e il pubblico, tra l’immaginazione e la realtà. Non ci possiamo lamentare se poi, abolita la funzione di questi limiti, ci dobbiamo confrontare con la vituperata società liquida.
    La grandezza di un poeta sta nel saper fare il suo lavoro, nell’esercitare la sua poiesis, né più né meno di quella che poteva essere la grandezza dell’artigiano. Dell’esito di quel sapere nuovo che il poeta raggiunge ne possono beneficiare tutti: non a caso, come racconta con commozione A. Locatelli: * Intorno a lui [il declamatore dei versi di Dante] si formava un crocchio di persone ammutolite e rapite, c’ero anch’io*.
    Il fatto è che poi se ne appropriano i potenti per girarlo, ideologicamente, a loro pro
    (a proposito di Dante, la ‘volgarizzazione’ fattane da Benigni!). Ma non è una novità: lo abbiamo visto fare con tutti i pensatori il cui pensiero è stato manipolato. Basti pensare all’accusa di ‘pansessualismo’ fatta a Freud!

    Riguardo al commento di Roberto b., mi trovo pienamente d’accordo sulla definizione di grandezza dell’opera letteraria: essa è grande perché permette *nuove interpretazioni anche secoli dopo che è stata scritta*, perché *ogni opera del passato vive dello “spirito” dell’epoca presente e si rigenera in esso* (e non è certo una questione di DNA!) .

    R.S.

  8. Ennio Abate

    @ tutti/e quelli/e che sono intervenuti sul tema Dante “monumento”/”poveraccio”

    Proprio perché intendo questo blog come un luogo di riflessione, mi prendo il tempo necessario per rispondere a tutte le interessanti osservazioni o obiezioni che avete espresso. Lo stesso potete fare voi, anche proponendomi ulteriori e autonomi vostri contributi da pubblicare come post. Ciascuno coi suoi tempi. Quelli “veloci” del blog non devono essere un dogma.
    Un saluto.

    • roberto b

      Caro Ennio,
      a proposito dei monumenti, e siccome la storia letteraria, che registra tutti i libri e spesso gli inediti d’un autore che ha guadagnato un posto al suo interno, è decisamente troppo lunga e soffocante, ti propongo un giochino censurante, ossia prendere un autore “affermato” e liberarlo da tutte quelle sue opere che l’hanno reso manierista o epigono di se stesso. Cioè, per fare un esempio, Montale (su quello sì che l’Accademia ha, rispetto a Dante, colpe maggiori) poteva limitarsi a scrivere due, massimo tre libri di poesia (“Ossi di seppia”; “Satura”, e, se proprio vogliamo, “La bufera”), e sarebbe diventato comunque quello che è. E la storia letteraria ne avrebbe guadagnato in brevità. O Sanguineti: Se si fosse limitato a “Triperuno”, sarebbe sato molto meglio per l’incisività, e non avrebbe ingolfato di “titoli” inutili la storia letteraria.

  9. Rita Simonitto

    @ roberto b.
    Oltre a questo interessante giochino (molto utile, direi) sarebbe da fare un altro lavoro, che è proprio un LAVORO. Dopo una attenta valutazione critica, sarebbe da evitare la pubblicazione di autori noti se non si trova nella loro opera nulla di ‘nuovo’ rispetto a quanto già scritto prima. Ciò eviterebbe il narcisismo dell’autore che si compiace della ‘inesauribilità’ della sua fonte ispiratrice; il feticismo sull’autore da parte del pubblico che si beve tutto purchè porti quella firma riverita; e darebbe più spazio alla nuova sperimentazione letteraria. Ma ho l’impressione che lo staff editoriale punti invece sul contrario: sollecitare il narcisismo dell’autore e il feticismo del lettore.
    R.S.

  10. roberto b

    @ Rita,
    in linea di massima sarei d’accordo (ti riferisci ad autori viventi, naturalmente, ché per quelli deceduti ha gioco facile, ahimè, la sacralità dell’inedito), ma, senza rubare la parola a Ennio, credo sia dura, se non impossibile, per un blog letterario avere a disposizione tanto di quel materiale buono da poter permettersi di snobbare gli autori epigoni di se stessi. Immagino a questo proposito che qualcuno potrebbe dire: ma un autore, quando trova il suo stile, è giusto che si ripeta all’infinito. E su questo non sono affatto d’accordo, se no non avrei proposto il giochino di cui sopra. Altra cosa è se per il lesso quotidiano un autore tende a ripetersi (anche lui tiene famiglia), ma oggi chi può vivere del pane letterario? Vabbe’. a ben vedere qualcuno c’è: sono quelli del literary correct.

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