Moltitudine poetante
Anno 2002/2

T. N. prova con Paint 2019

di Ennio Abate

Elencherò qui, con la schematicità propria di una breve nota, quattro ragioni che inducono oggi a riflettere su poeti e poesia alla luce del concetto (spinoziano) di moltitudine.

La prima riguarda l’evidenza sociologica del fenomeno degli «scriventi poesie» (Majorino): esso non è ricacciabile facilmente nell’epigonismo, normale “aureola” in passato dei pochi Grandi Poeti, perché sta dentro trasformazioni sociali di enorme rilievo a stento esplorate nei loro ambigui risvolti di servitù e di possibile emancipazione. […] La vastità lutulenta di questo mare magnum degli scriventi poesie stizzisce molti addetti ai lavori, che preferiscono attingervi con l’abituale colino delle antologie poetiche – come fanno, ad es., coi pregi e i limiti di un approccio universitario (pregi di strumentazione, difetti di elitarismo), gli autori di Parola plurale (Sossella, Roma 2005) – piuttosto che affrontarlo di petto e ragionarci su senza piglio snobistico.

La seconda si appoggia su un sapere psicanalitico critico. Il desiderio “infantile” dei molti di scrivere poesie va pensato con il coraggio che Freud ebbe quando scrisse della sessualità infantile svelandone il polimorfismo. Da questo desiderio può uscire di tutto: poesia libera, insolita, similpoesia, brutta poesia, ecc. Ma il fastidio per i risultati estetici dei “troppi che scrivono ma non leggono poesia” – quasi che la poesia dipendesse soprattutto da una attitudine libresca o a questo deficit di letture fosse da imputare la crisi che oggi l’angustia – sbarra la difficile comprensione di un processo complicato (e poco indagato). E anzi viene censurato e bloccato ogni discorso sulla possibilità di costruire le condizioni favorevoli a un esercizio critico – cioè adulto e infantile a un tempo, e non unilateralmente paternalistico o permissivo e commercializzato – sulla poesia da parte dei molti. In costoro si finisce per vedere solo dei poeti-nani (“dilettanti”, “sottobosco”) come nei bambini a lungo si sono visti soltanto degli adulti-nani.

La terza è di carattere estetico. Detto in fretta: si resiste, si teme il bello della moltitudine perché, malgrado certe apologie della cultura di massa, della comunicazione globale, si continua in fin dei conti ad onorare il feticcio di sempre: il bello dei pochi e per pochi. Gli studi di estetica conservano i connotati della loro nascita elitaria o di quel bello tentano un allargamento “democratico” davvero parziale. I modelli di bellezza neutra, ossequiati e convalidati socialmente, una volta attraverso la scuola e oggi soprattutto tramite i mass media, restano quelli. E si sa che essi sono inaccessibile e quasi impraticabili ai più. La loro inerzia diventata nei secoli monumentale impedisce di riproporre il problema di una qualità e di una bellezza comune, cioè di tutti e per tutti. Certo, le reali e accertabili differenze di qualità (fra i testi o fra le facoltà degli individui), le distinzioni e persino le gerarchie fra bello e brutto, riuscito e non riuscito, sono innegabili. Il guaio è però che ci si ferma ad esse. Così, da provvisorie, diventano permanenti e indiscutibili. O – peggio – contribuiscono ad annebbiare persino la memoria della violenza (operante non solo nella materialità delle cose ma anche a livello simbolico, dei linguaggi). In questi modi anche l’estetica riconferma di essere al servizio dei pochi che amano parlare e scrivere in nome dei molti (azzittiti).

La quarta è di carattere politico. In Italia ill pregiudizio elitario, appena attenuatatosi negli anni Settanta del Novecento, è stato pienamente ripristinato in tutti i settori e soprattutto nelle pratiche poetiche. In primo piano – quasi riflesso difensivo da parte di poeti e critici “di professione” – si è tornati ad insistere sul “bagaglio tecnico-culturale”, di cui obbligatoriamente i poeti dovrebbero disporre. E sulle riviste o nei dibattiti pubblici la poesia è stata riproposta come proprietà o attributo naturale e individualistico del Grande Autore, di una élite, di un cenacolo, di una pseudocorporazione di ”addetti ai lavori”. Se ne perde così la sua universalità reale (perché quella proclamata a parole lascia l’amaro in bocca). E vengono sminuite certe qualità e certe libertà della ricerca poetica. E sia di quella esercitata dagli addetti ai lavori (spesso intellettuali del ceto medio-alto in possesso di un maggior «capitale simbolico», come ribadiva Bourdieu) sia di quella “selvaggia” o costretta ai margini degli esclusi o dei periferici ricacciati nel sottobosco degli scriventi. Si dimentica così che anche la genialità individuale che raggiunge a volte le vette del capolavoro s’è alimentata di una lingua che è comune, sociale. Oppure cheil linguaggio di certe opere comunque si deforma per lo stacco dai saperi (e dai “non-saperi”) dei molti che il processo creativo, specializzandosi e isolandosi, subisce. (Ricordare in proposito la grande lezione di Benjamin o di Brecht).

Concludendo, tengo a ricordare che, se a prima vista una moltitudine poetante può sembrare una massa caotica di singoli che si respingono (al peggio: di atomi iper-individualizzati ed eterodiretti), essa potrebbe essere pensata (o addirittura pensarsi) come cooperazione mutevole (e anche conflittuale, per carità!) di singoli. Potrebbero prodursi, cioè, fecondi scambi e confronti tra questi singoli su quanto essi vanno confusamente facendo o sperimentando. E quindi anche discorsi costruttivi fra opera riuscita e opera non riuscita. O fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi. Eccellenza e mediocrità, in un’ottica cooperante assumerebbero così un senso provvisorio, dinamico, includente e non escludente. Il concetto di moltitudine valorizza, dunque, tutte le possibili differenze. Non le irrigidisce o occulta, come fa il pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista). Né abolisce l’ipotesi di una possibile unità delle differenze né esclude una loro base comune.

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