Ennio Abate
Rileggendo «I poeti del Novecento» di F. Fortini: Luzi (4.1)

Fortini i poeti del Novecento0001

Continuazione degli Appunti interrotti (qui).

1.

Certo la poesia di Mario Luzi, anche per la lunga vita dell’autore che ha attraversato buona parte del Novecento, presenta varie fasi di ricerca e un’evoluzione. Abbastanza netta, secondo alcuni suoi estimatori e sodali (Ramat, Verdino, Ladolfi). Per altri invece (Fortini) essa è segnata da una fissità spiritualista mai veramente alteratasi nel tempo e riottosa alla mondanità e alla storicità della condizione umana. A ben rifletterci da un’ottica moderna e critica, è un limite. Che però non impone a Luzi – sempre e necessariamente – una cecità assoluta su mondanità e storicità. E Fortini segnala questi varchi verso una presa sulla realtà, quando il poeta Luzi (che non s’identifica in pieno con la piccola borghesia intellettuale cattolica!) li apre.

2.

Nelle due ultime fasi della produzione poetica di Luzi[1] si è parlato di un abbandono dell’iniziale spiritualismo e di un maggiore aggancio al reale. È, però, la qualità e la presa su questo reale che è stata da alcuni (ancora Fortini, ma pure Mengaldo ed altri) messa in discussione. Faccio mie queste critiche. Non credo che ci possiamo accontentare (oggi, ma anche ieri, negli anni Settanta-Ottanta) del passaggio di Luzi dal lirismo ermetico ai toni più prosastici o corali o “civili”. Certo, leggendo questi versi di una delle sue raccolte “civili”:

«Muore ignominiosamente la repubblica.
Ignominiosamente la spiano
i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.
Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto.
Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani,
si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli.
Tutto accade ignominiosamente, tutto
meno la morte medesima – cerco di farmi intendere
dinanzi a non so che tribunale
di che sognata equità. E l’udienza è tolta.»

(da Al fuoco della controversia)

e ci lasciamo distrarre dalle reazioni di certi politici (Gasparri o Calderoli), che, secondo le cronache del tempo, finsero indignazione, è chiaro che Luzi non ha nulla a che spartire con l’Italietta berlusconizzata. Ma con quella “pidizzata” e “democratica” e sostenitrice delle “guerre democratiche”? Qui dovrebbero insistere a scavare i critici. Perché la sua poesia non morde, Né può dire con esattezza (poetica!) dell’orrore del mutamento che l’Italia sta subendo nella “globalizzazione” se il poeta non lo guarda, se ne è distratto dai suoi pensieri religiosi e dalla sua memoria che lo seduce verso un passato giovanile o infantile mitizzato e senza legami o attriti con quel che oggi accade. Luzi ha sempre parlato ancora “da signore”. Si è sempre afferrato alla dignità dell’Italia “povera” da lui mitizzata. Mentre altre sono le “nuove povertà” che la poesia dovrebbe guardare. E il tribunale o la giustizia che egli in questi versi evoca restano ben generici.

3.

Vogliamo davvero passare Luzi e la sua poesia ai veri fuochi della «controversia»? Dovremmo sapere quale controversia oggi stiamo davvero vivendo e se la poesia ha voglia e strumenti per occuparsene. E se davvero Luzi sia riuscito ad occuparsene. Dovremmo chiederci perciò: quel suo intatto rapporto con il trascendente (o lo spirituale) l’ha ostacolato o aiutato a indagare (poeticamente!) la realtà, ad intervenire con la poesia, intesa come strumento di conoscenza, nella realtà in trasformazione? E più di un Fortini o di un Montale, per avere dei termini di paragone? Quando Luzi è stato costretto, come dicono i suoi estimatori, a scoprirsi necessariamente politico, con chi si è messo? Contro i berlusconiani. Ma, forse, sono solo essi gli affossatori dell’Italia, della cultura, del vivere “quasi civile” che in alcuni decenni del secondo Novecento avevamo sfiorato? Fu sufficientemente politico e poetico quel suo «sguardo puro e incosciente di chi è fuori da ogni gioco di potere, da ogni logica mercenaria»? Che peso ha nella controversia attuale (quella reale, quella mondiale!) la rivendicazione della « dignità dell’uomo libero, del cantore del mondo epifanico e della rivelazione cosmica racchiusa in ogni minimo evento quotidiano…»? Dove stanno in giro, nell’Italia d’oggi, in Europa, nel mondo, questi uomini liberi? No, per andare contro «l’ignominia, l’inganno del potere che ci domina, la volgarità della vita che ci perde» – sia pur soltanto in poesia e coi modi fragili, allegorici, simbolici propri della poesia – bisognerebbe sapere dove sta oggi la vera ignominia, quali siano i veri inganni del potere che ci domina e chi – sinistra compresa e compreso pure il cattolicesimo nel suo insieme (tranne singole eccezioni e penso a Rachetti, don Milani, Balducci) – ha involgarito la nostra vita. E allora mi viene da pensare che l’uomo Luzi non avrebbe dovuto accettare così facilmente certi riconoscimenti ufficiali da parte di chi ci ha governato e ci governa ed è responsabile del nostro degrado; e rifiutarli, come fece Sartre con il premio Nobel.

4.

Tutti i critici favorevoli a Luzi o che lo chiamano «Maestro» hanno teso a sganciarlo dall’ermetismo e ad insistere sul suo « difficile cammino verso la realtà» (Ladolfi). Ma quali sono le crisi del poeta su cui insistono e in quali figure tale crisi si svelerebbe? Seguiamo una scheda di Giuliano Ladolfi (qui):

«La prima riguarda l’aspetto stilistico: la cristallinità della parola ‘pura’ viene abbandonata per lasciare il posto al sermo merus, un linguaggio tendente alla prosa. La seconda coinvolge la sfera morale del poeta scisso tra il dovere coniugale e l’attrattiva sensuale, tra il senso di colpa e la morale cattolica. Una terza investe il tema del tempo ormai lontano dall’assolutezza dell’infinità dell’attimo. Una quarta riguarda la tradizione occidentale con il bagaglio di valori e di certezze considerate da secoli “naturali”».

Morale cattolica, senso di colpa, tempo, tradizione occidentale, valori. Siamo del tutto dentro a concetti del passato e che ci fanno muovere in una dimensione astratta, astorica. Chiediamoci: quale sarebbe il nuovo orizzonte cui Luzi giunge. Ladolfi risponde:

« Nel Fuoco della controversia (1978) a Luzi si apre un nuovo orizzonte: se Dio parla attraverso la storia, al poeta è delegato il compito di scoprire i segni e il senso di quella Parola che continua a incarnarsi nella storia umana e a salire sulla Croce. Egli si riconosce come “scriba”, amanuense che non possiede autorità né spirito di iniziativa. ».

Siamo alla visione provvidenzialistica della storia, quella manzoniana. (E maliziosamente chiederei: ma La Provvidenza non era già affondata con Verga nel secondo Ottocento?). Altro passaggio rivelatore di un Luzi in corsa verso il reale sarebbe il modo come tratta la figura femminile:

« Anche la figura femminile contribuisce a delineare il realismo luziano: può essere fanciulla, madre, amante, Eva, mater dolorosa, Madonna; viene presentata sotto l’aspetto emblematico, romantico, spesso sensuale, talvolta spirituale, talvolta materno. Il senso del dovere è rappresentato dalla madre, la custode del focolare, che dopo la morte conserva la pienezza di un’esistenza vissuta nella fede.»

Ma non siamo al romanticismo e ad un edulcorato matriarcato cattolico? E come se la cava Luzi, secondo Ladolfi, quando affronta i problemi della storia (mai – sottolinea Ladolfi – disgiungendoli da quelli dell’«esperienza personale», come se la storia d’oggi non avesse spezzato da tempo questo legame e non ci fossimo accorti con Benjamin dell’impoverimento o cancellazione o «atrofia dell’esperienza»):

«I problemi suscitati dall’esperienza personale e dalla storia urgono approfondimenti a cominciare da quello della fede, che riflette la situazione postmoderna di un intreccio tra luce e tenebra, all’interno del quale la luce possiede abbastanza splendore per presentarsi e abbastanza oscurità per non offrire soluzioni “chiare e distinte”, abbastanza ragioni per portare avanti un discorso e abbastanza difficoltà per individuare soluzioni».

I problemi della storia vengono cattolica-mente ridotti alla problematica della fede e alla dialettica luce/ombra… Più vaghi di così si muore. Ed è proprio nei luziani più sfegatati che viene accentuato il peggio del cattolicesimo del poeta. L’ideologia di cui egli nutrì la sua poesia, più che indagata criticamente, viene sventolata quasi come una prova in più della sua grandezza poetica.

5.

Quanto più acuto Fortini che indica il raggiungimento (poetico) della realtà proprio quando Luzi, malgrado quel cattolicesimo spiritualista che gli distorce lo sguardo (e gli impreziosisce fin troppo il verso nella prima fase o lo fa adagiare fin troppo nel quotidiano nelle altre due fasi), riesce a dire la crisi di una condizione reale: quella del suo ceto medio di appartenenza. Ma ben poco – è bene ripeterlo – sugli altri: su chi comanda e domina e sui “poveri” che non siano quelli della sua infanzia contadina toscana. Mi pare, dunque, che con Luzi sempre nell’io si resta; e sempre ad un io che volge un sguardo religioso sugli orrori della storia. Certamente ad essi Luzi alllude più da vicino nell’ultima fase della sua produzione, ma sempre – come ben dice Fortini – con « una certezza che può subire oscillazioni ma tende sempre a tornare identica a se stessa».

6.

Ho letto in questi giorni anche le testimonianze rese da alcuni critici e poeti nel 2005, alla morte di Luzi (qui). In quella di Ramat torna la caparbia intenzione di staccarlo dai suoi inizi ermetici e di confrontarlo soprattutto con i cultori della Parola Poetica, per mostrarne la distanza da loro:

«Luzi non sarà mai ascrivibile alla famiglia di coloro per i quali, dannunzianamente, valga la spaventosa formula “il verso è tutto”; ma non si inserisce nel novero di quanti – pensiamo a Ungaretti, a Quasimodo – hanno potuto credere che “la parola” sia “tutto”».

Mi dico: si può accettare l’intenzione di distanziare Luzi dai mitomani della Parola assoluta, macome si fa a respingere la sua separatezza dalla storia? Come si fa a scrivere: «Altro che torre d’avorio! Il poeta era ben addentro ai suoi giorni e a riguardo si sprecherebbero gli esempi probanti, che si moltiplicano e si fanno clamorosi dopo il ’70»? Ci sono anche “torri d’avorio” a prezzi più economici e in apparenza meno aristocratiche di questi tempi. Davvero Luzi s’è mai spogliato dello scudo del cattolicesimo (la sua vera “torre d’avorio”) ? Nel secondo o nel terzo Luzi c’è, sì, lo sforzo per « decrittare uno “spirito del tempo”, antico o moderno che fosse», ma lo “spirito del tempo” resta qualcosa di molto sfuggente; ed è facile «proiettarlo in una luce positiva, malgrado i segnali orribili che ci incupiscono di continuo l’orizzonte frustrando i facili ottimismi». In sostanza il finalismo della storia in Luzi, come in tanto pensiero cattolico, non è mai venuto meno. E Ramat, contraddicendosi o mostrando una facile tendenza a un compromesso tra metafisica e storia, deve riconoscerlo: «La sua visione del mondo poggiava su un’ipotesi – su una speranza – evolutiva. Per questo lo attrasse il disegno provvidenzialistico d’uno scienziato sui generis come Teilhard de Chardin (sul quale invece calò il sarcastico scetticismo di Montale)».

7.

Luzi può evolversi, passare da « sant’Agostino, “maestro della vita individuale” e della “confessione introspettiva”» e approdare a san Paolo e al «suo “discorso” basato sulla “coralità”», ma sempre in quella campana di vetro spirituale resta. O, con una sua immagine, è dalla «barca» (al sicuro o quasi al sicuro e non certo da un gommone di nuovi immigrati) che guarda: «Amici dalla barca si vede il mondo». Se prima in Luzi c’era «un’assenza e distanza totali dalla realtà contingente e dalla storia», tanto che Mengaldo, calcando un po’ la mano (ma eravamo negli anni Settanta!), parlò di una sua «raffinatezza e quasi schifiltosità spirituale» che si traduceva in un «preziosismo formale estenuato ed araldico» (Poeti italiani del Novecento, p. 649), poi il passaggio è da un «atteggiamento soprattutto letterario» ad una vera «esperienza esistenziale», ma sempre «sotto il patronato ideologicamente più congruo, di Eliot».

8.

E ora mi azzardo a dire: Luzi non arriva a Sartre, non arriva soprattutto a Marx, non arriva mai alla visione di una storia fatta di conflitti che nessuna provvidenza dirige. So di provocare. E giustamente un mio interlocutore antagonista potrebbe chiedere: E ci deve arrivare per forza? Qui mi pare stia il nodo che una buona critica deve sciogliere. Scegliendo, però; ed evitando il comodo pluralismo per cui possono coesistere – a livello critico, a livello teorico le cose più contraddittorie (che nella realtà come nell’inconscio, che sono altra cosa dal pensiero e dalla teoria, possono benissimo coesistere). Sì – risponderei allora – perché un intellettuale, un poeta, solo sporgendosi su certi terreni, solo interrogando la “Sfinge Realtà” con certi concetti e non con altri, può evitare di lasciarsi ingabbiare dall’ideologia di un vago «spirito del tempo» o dal cattolicesimo provvidenzialistico o evoluzionistico; e gettare un occhio sugli orrori della storia più da vicino; e cogliere quali siano le vere forze che in essa si scontrano di continuo e senza garanzia di un mondo migliore, di un Progresso, di un Nuovo Ordine. Solo, sentendo il vento freddo della storia, si potrà lasciar perdere «la squisitezza dei vocaboli», i «latinismi» il «gioco irrealizzate degli astratti», l’«aggettivazione capziosa» (Mengaldo) tipica dei letterati.

9.

Sostenere, come fa poi Stefano Verdino (sempre qui) , che « Luzi non ha mai amato la contaminazione o l’ibrido, ed è stato fedele sempre a una visione classica della poesia e del poetico. Non ha giocato di dissacrazione, di falsetto o d’ironia; glielo impediva quell’immemorabile patto tra parola e verbo, con una conseguente vocazione al sublime: “Vola alta, parola” è infatti un suo citatissimo incipit», non è , come può sembrare a prima vista, un merito. Bisogna anche dubitare del classicismo. Esso può anche limitare a priori la funzione conoscitiva della poesia e mettere le braghe (ordinate) ad una realtà che se le toglie subito…

10.

La centralità del cattolicesimo per Luzi, che spesso si tende a vedere come aspetto quasi implicito e naturale della poesia tout court (come se poesia e religione, poesia e spirito, poesia e mistero esaurissero le coniugazioni possibili del fare poetico, mentre sono – almeno su questo dovremmo essere d’accordo – solo alcune, non le uniche; e abbiamo avuto anche poeti non religiosi, non spirituali, non invasati dal Mistero), è cosa riconosciuta da amici e meno amici. Sintomatici alcuni giudizi che (sempre qui) si leggono. Zanzotto: « Mario Luzi, nella sua parabola esistenziale e poetica, ha confermato un’assoluta fedeltà a se stesso, anche in quella religiosità diffusa che per lui è sempre stata una vicinanza al cattolicesimo”». Sanguineti: «Dopo la fase ermetica, da cui non si è mai distaccato in modo radicale, Mario Luzi, intorno agli anni Sessanta, ha sviluppato una sua lirica, in modo originale, incentrata sulla poesia religiosa, metafisica ». Ma -facciamo attenzione – questi critici e poeti tendono a glissare, a non approfondire questa ispirazione cattolica luziana. A me pare che solo Fortini, anche per il suo essere stato fiorentino ed essersi strappato faticosamente al mito ermetico di Firenze e alla visione religiosa cattolica – scegliendo da giovane di essere valdese e poi dopo la guerra marxista, abbia detto su Luzi le cose più severe chiare e vere. Da piccolo borghese a piccolo borghese (mi pare che questo confronto Fortini/Luzi debba fare il paio con quello che avevo già tentato tra Montale e Fortini(qui).

11.

E direi pure che Fortini, parlando di Luzi, non pecchi affatto di estremismo, se riesce a riconoscere all’antagonista il merito di avere comunque, con la sua ricerca di poeta, fuoriuscendo dall’ideologia e, dunque, dalla più stretta osservanza al clima ermetico, reso testimonianza « della realtà sociale delle classi medie intellettuali»( come ho ricordato al punto !). Fortini riconosce questo scarto tra intellettuale piccolo borghese e poeta. Luzi non è soltanto piccolo borghese, non ricalca in pieno e sempre la tipologia sociale della piccola borghesia. E, infatti, Fortini scrive: «Ho detto: partecipa, non: s’identifica … Taluni testi di Primizie sono proposta di contenuti diversi, sono esercizi severi per affrontare un mondo contraddittorio finora mantenuto a distanza».

12.

Ora però arriviamo al punto più arduo. Dobbiamo misurare le critiche di Fortini a Luzi col “senno di poi” di cui, noi ad entrambi posteri, disponiamo. E qui accenno – ma velocemente e solo in forma interrogativa, rimandando le risposte ad altra occasione – a un ginepraio di problemi che si pongono se volessimo davvero approfondire il confronto fra cattolicesimo e marxismo, fra Luzi e Fortini, alla luce della mutata situazione in cui noi viviamo e operiamo. Si potrebbe, infatti, rimproverare a Fortini, ad esempio, di aver criticato lo spiritualismo cattolico di Luzi da marxista, e cioè da un pulpito che negli anni Sessanta-Settanta pareva ancora solido fondamento teorico ed invece si è poi dimostrato pur esso fragile e inadeguato a leggere gli sviluppi a sorpresa della storia. Si potrebbe persino rimporoverare Fortini di vedere il fuscello (dell’ideologia cattolica) nell’occhio di Luzi e non la trave (dell’ideologia marxista) dentro il proprio occhio. Si potrebbe rinfacciare a Fortini che l’accusa che egli mosse a Luzi («La sua volontà maggiore, quella di dignità ed integrità spirituale, è diventata il limite medesimo della poesia di Luzi. Alla lettera, oggi, non si può volere quella dignità ed integrità mediante l’esercizio della poesia senza allargare misuratamente la mistificazione che la società nostra introduce in qualsiasi opera letteraria ») potrebbe essere ribaltata e mossa al suo marxismo.Se, infatti, Luzi «ha partecipato di quella falsa ascesi di tanti intellettuali, che fa tutt’uno con la difesa del privilegio per conto altrui, dei Rosacroce della piccola borghesia cittadina, tagliati fuori dalla vita della produzione, che vedono il loro tradizionale campo d’azione ridotto ogni giorno dallo sfruttamento ideologico di massa a sua volta», lui – Fortini – non potrebbe essere stato corresponsabile di una “falsa discesa” di un’altra fetta della piccola borghesia (o ceto medio) verso un’altrettanto o più mitica e illusoria “classe operaia”? Se egli si permette di accusare Luzi di « agorafobia, spirito di corpo e incoscienza storico-politica», non è che qualcuno può accusare lui di populismo, di spirito di setta («Non parlo a tutti»[2]) e di una coscienza storico-politica (comunista) dimostratasi fallimentare? Insomma perché accusare Luzi e l’ermetismo di “individualismo piccolo borghese”,[3] se poi la propria prospettiva di superamento dall’individualismo, di costruzione anche in poesia di un noi attento ai destini generali non ha ottenuto l’attesa verifica nei fatti? Certo «i suoi «poveri» preborghesi o almeno premoderni non hanno nulla da chiedergli, se non preghiera», ma cosa hanno potuto chiedere gli operai o gli studenti dopo la sconfitta degli anni della politica? Luzi in politica era attento a «fenomeni di retroguardia» come la lotta dei ciprioti o (come Pasolini) alla « retroguardia economico-culturale italiana» , ma come sono finite le nostre lotte? Lascio per ora senza risposta queste domande.

***

[1] Ad uso scolastico la poesia di Luzi viene distinta in una prima fase (ermetica: dagli esordi con La barca del 1935 fino a Quaderno gotico con al centro Avvento notturno), una seconda (esistenziale: le tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) fino a Su fondamenti invisibili (1971) ) e una terza (prosastico- memoriale-corale: Al fuoco della controversia ( 1978) , Per il battesimo dei nostri frammenti (1985))

[2] È il titolo, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale e politico, che Daniele Balicco ha dato a una sua monografia uscita per manifesto libri nel 2006.

[3] «La poesia sorgente dalla letteratura spiritualistica e dalla cultura di difesa di quelle classi piccolo-borghesi che fra le mura delle città del centro Italia si consumano nella propria angoscia senza riuscire a dire anche la diversa angoscia dei loro dissimili e la loro lotta per riconoscerla o sormontarla, quella poesia giunge, in un supremo sforzo contro l’afasia, fino a mimare la comunicazione; ma altro non ha finora potuto realmente comunicare, se non quello sforzo».

2 commenti

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2 risposte a “Ennio Abate
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  1. Pingback: “Appunti su Mario Luzi”, di Sandra Evangelisti | La distensione del verso

  2. Gentile Sandra Evangelisti,
    la ringrazio per la sua replica ai miei appunti su Mario Luzi. Non posso però non farle notare che il dialogo tra noi è alquanto arduo. Lei nel controbattermi da una parte mi attribuisce posizioni che non sono mie e dall’altra non argomenta in modo convincente le sue tesi.
    Vado per punti e brevemente:

    1. Né io né Fortini (da me citato) abbiamo mai negato che Luzi sia stato «principalmente un poeta, non un teologo, non un filosofo, non un politico, non un semplice intellettuale». Non credo, tuttavia, che poeta possa voler dire solo o soprattutto attenzione alla metrica e alla suddivisione in strofe di una poesia, come ingenuamente qualcuno potrebbe dedurre dal brano tratto da “Prima semina” che lei riporta.

    2. Non è che Luzi essendo «un poeta, un grande poeta» non possa essere analizzato con alcune categorie (“ermetismo”, “cattolicesimo”, “spiritualismo”). Lo facciamo con tanti altri poeti. Dante forse non è cattolico? Basta non ridurre la poesia a un’idea ( o ad una ideologia). Ho tante volte ripetuto che la «Commedia» non è riducibile alla «Summa» di Tommaso d’Aquino. Non si capisce il suo rigetto delle categorie quando servono a capire meglio dove sia la poesia.

    3. Lei sostiene che «l’unica vera analisi che si può fare di un poeta parte […] da una lettura attenta dei testi, e ,se lo ha fatto, da quello che ci dice della sua poetica e del suo rapporto con la storia». Sia io che Fortini e molti altri partiamo dalla lettura dei testi. Ma come fa a pretendere che, per intendere un poeta (ma – direi- qualsiasi persona (che so: un politico, un truffatore, ecc.) bisognerebbe stare soltanto a quello che uno ha detto di sé? Per cui, ad esempio, Luzi non sarebbe o non potrebbe essere definito ‘piccolo borghese’, perché«innanzi tutto classe piccolo-borghese è una definizione inesistente nell’opera luziana». Così cancella secoli di lavoro critico sui testi. Basterebbe credere a quello che dicono di sé i poeti i filosofi, i mariti, le mogli, i politici, ecc. Il linguaggio è molto più complicato. Figuriamoci poi quello della poesia.

    4. Lei mi accusa di “integralismo” («il giudizio sull’opera di Luzi formulato da Ennio Abate che si rapporta agli scritti di Fortini, mi sembra frutto di un integralismo di pensiero, laico, ma sempre integralismo»). O di ricorrere a definizioni (piccolo borghese) « evidentemente tratte da Marx […] le cui categorie non hanno nulla a che vedere con la poesia e nemmeno con quella di Luzi». Ma,scusi, perché mai, appoggiandomi su un pensiero laico, dovrei essere per forza di cose integralista? Forse non vedo che Luzi la pensa diversamente da me e da Fortini e voglio assolutamente farlo diventare laico e marxista? E ancora: ha mai sentito parlare di Lukács? Ha mai saputo che anche in Italia, da Gramsci in poi e almeno fino agli anni Settanta, c’è stata una vigorosa critica letteraria di orientamento marxista?

    5. Sul fatto che Luzi sia « cristiano non cattolico» o «cristico, non cattolico» non riesco a seguirla. Mi sembra che si arrampichi sugli specchi. Voglio ammettere che si tratti di sfumature, certo non sottovalutabili, ma la matrice è quella. A me interessa sottolineare soprattutto questa matrice. E non mi pare che sostenendo, come lei fa, che « Mario Luzi ha fede, ma nel Cristo rivelato e fatto uomo, non in una idea», si esca da questa matrice di *idee* . Perché la fede di Luzi non è qualcosa di indefinibile. Non può essere confusa, ad es., con quella di un maomettano o di un ebreo. Ed ha comunque un rapporto con l’idea di Cristo che egli si fece o che la Chiesa cattolica qui in Italia gli propose. Da dove la prese , se no? Da sua madre? E sua madre da dove?

    6. Nessuno ha negato che Luzi abbia dato « testimonianza completa e preziosa di un’epoca storica difficile, contraddittoria e soprattutto caratterizzata dal male e dalla guerra». Non è questo in discussione tra noi. Ma lei dovrebbe capire che quella sua testimonianza fu *cristiano-cattolica* (o cristica, se le piace di più, ma tenendo conto dei fili che legano i concetti di cristico, cristiano e cattolico). E che non è l’unica che si può avere. Ce ne sono altre (di altre religioni, di pensatori laici o atei).

    7. Quando scrive che « c’è già tutto in questa poesia [La barca]. La vita che è viaggio in mezzo alla corrente della storia, la natura, gli amici, le creature, la donna, la terra e la madre. E la Madonna, segno della fede del poeta», dovrebbe capire che, in questa visione, ‘vita’ è termine che si contrappone a ‘storia’; e che, mettendosi da questo punto di vista “vitalistico”, la storia viene ridimensionata, diventa secondaria. O, in una visione religiosa della vita, viene inclusa in qualcosa di superiore, di *oltre la storia*, che la *trascende*. Qui è la differenza.

    8. È vero che « la fede non è un vento contrario alla storia se vissuta senza integralismi di sorta». Ma, guidati dalla fede, la lettura della storia può essere diversa da quella di chi guarda la storia da un altro punto di vista: senza fede. Tutto qua. Mi pareva di averlo detto chiaramente nei miei appunti. Perciò non si capisce l’accusa di integralismo. Non sto dicendo che Luzi, per essere poeta, doveva essere marxista. Ho solo distinto punto di vista marxista da punto di vista cristiano cattolico. Con entrambi su può fare poesia e grande poesia. Brecht per lei è un poeta o no? E non ho neppure detto che quello marxista sia superiore in assoluto. Lo è (o dovrei dire oggi: lo era) *per me*.

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