In Appendice (sotto) una scelta di poesie di Rocco Scotellaro
curata da Giuseppina Di Leo
1.
Scotellaro mi fa venire in mente quel gruppo di studenti della mia classe che venivano da Pisticci e vivevano in convitto a Salerno per frequentare il liceo classico (Torquato Tasso). Silenziosi, determinati. Vere “macchine da studio”. Con rigidità da seminaristi.
2.
Fortini guardava a Scotellaro da un altro mondo, cittadino e rivolto all’Europa culturale. (Nulla di Kafka o Dostoewskij in Scotellaro…). Mostra simpatia (penso da poeta e non solo da politico) ma non sente in quei modi. Idilli ed elegie, che non mancano nella produzione fortiniana, si nutrono di sensazioni tratte da ambienti cittadini e piccolo borghesi.
3.
È un errore leggere le poesie di Scotellaro volendoci trovare per forza il politico o sminuirle perché non lo si trova in forme critiche, ma ingenue, “populiste” ( da populismo “buono” non vociferante come quello di Grillo oggi). Iscrivere Scotellaro tra gli antenati della poesia esodante? Sarebbe una forzatura. Però c’è un dato comune che avvicina i destini di tanti intellettuali (e la cosa non riguarda, dunque, solo Scotellaro) sia a quello di Fortini sia al mio/nostro: aver simpatizzato o aderito per un certo numero di anni a forze politiche che in Italia si rifacevano alla (molto mitizzata, si deve dire con il senno di poi…) tradizione socialista e comunista. È la delusione di queste speranze politiche (anch’esse di antica tradizione…penso a Foscolo…) a respingerli “in zona poetica” (cioè lirica) quasi come dei “condannati”. Solo in questo senso minimo e psichico potrei considerarli “esodanti”, costretti cioè ad abbandonare certi legami e certi luoghi anche fisici da cui erano stati attratti. Magari, se non divenuti politicamente reazionari o apoti (Prezzolini), per mantenere in vita quei problemi in una sorta di pessimistica e sconsolata “contemplazione delle rovine”.
4.
Perché ripensare oggi a Rocco Scotellaro e alle sue poesie? Perché il solo accenno quasi casuale del suo nome, ha fatto scattare in me tutto un lavorio della memoria? Risponderei così: perché vedo nella vicenda di Scotellaro ( ma – ripeto – vale anche per Fortini, Silone e tanti altri..) la ripetizione non di un destino (quello dell’intellettuale che “s’improvviserebbe” politico per ingenuità e afflato solidaristico con gli “oppressi”), ma la conferma delle difficoltà cui va incontro un poeta che voglia uscire dalla dimensione lirica e misurarsi con l’extrapoetico (storia, politica, scienze, “altro”). E questo però vale per chiunque non s’accontenti di vegetare o di vivere esclusivamente all’ombra di un’autorità rassicurante (religiosa, politica, culturale). Ripensare Rocco Scotellaro assieme ai tanti considerati eretici, anormali, scioccamente ribelli, terroristi, ecc.
5.
Sempre nel libro «La poesia di Scotellaro» c’è un’ampia introduzione firmata nel 1974 dalla redazione di «Basilicata», curatrice del libro stesso. Alcune delle difficoltà politiche qui vengono mostrate. Ma per valutarne l’importanza e percepire il danno che certe scelte politiche hanno procurato alla vita civile di questo Paese, a un lettore del 2013, anche volenteroso, sarà richiesta una pazienza e una fatica davvero fuori del comune; e, dati i tempi appiattiti sul presente, un coraggio del tutto fuori moda per distogliersene e considerare le cose storica-mente. Bisognerebbe, infatti, prima rendersi conto del clima di speranze che negli anni ’60-’70 si presentarono
alla sinistra del PCI-PSI (la “sinistra storica) e che affiorano in questa introduzione. E prima ancora del clima creatosi nell’immediato dopoguerra attorno al discorso della riforma agraria, che aveva animato le speranze di Scotellaro e dei contadini meridionali. ( Di Vittorio sullo sfondo…).
6.
Questi “due passi nella storia” (italiana e meridionale) sono oggi resi quasi impossibili dall’azzeramento completo della sinistra d’allora e – dico io – della sinistra tout court. Quanti oggi su quella storia si volessero interrogare, stenterebbero a trovare un qualche filo di continuità con il presente. Dove sono più i contadini come forza politica riformatrice o rivoluzionaria e dove gli operai, ai quali negli anni Settanta ancora gli intellettuali della redazione di «Basilicata» s’illudevano di potersi rivolgere?
7.
Ma chi s’interroga oggi su queste vicende di poeti e di politici della sinistra? Gli sparuti ’io’ o ‘io-noi’ (e mettiamoci anche il sedicente ‘noi’ di qualche gruppetto che si sentisse a suo agio a usare questo pronome) che oggi ancora prestano orecchio ai discorsi su Scotellaro o sulla storia italiana dal dopoguerra agli anni Settanta appartengono per lo più ad un “ceto medio” quasi smemorato, distratto dai miraggi ideologici europeisti e globalizzanti. Con quell’epoca di contadini o di operai politicamente attivi esso ha perso ogni contatto. Anche quando ne ha memoria o procede ad indagini e inchieste su quel che è venuto dopo ( mettiamo il citato – in alcuni commenti del blog – Franco Arminio) e contempla – è il caso di dirlo senza ironia o sarcasmo – le rovine di una civiltà contadina, il suo occhio è estetizzante, politicamente spaesato, programmaticamente (e per me miopamente) “antideologico”.
8.
A rileggere oggi quella introduzione, una cosa è evidente: quegli intellettuali neogramsciani, che scrivevano la rivista «Basilicata» negli anni Settanta, pur parlando della sconfitta dei contadini meridionali e vedendoli soppiantati dal ceto medio «che cresceva e si moltiplicava innestando nell’intervento pubblico la propria tradizionale funzione di gestione del potere per conto terzi» (p.VII-VIII), s’illudevano ancora sul fatto che i contadini potessero essere la «sola classe nel Sud implicitamente rivoluzionaria». E sulla base di tale convinzione polemizzavano sia contro Asor Rosa, l’autore di «Scrittori e popolo» impegnato a valorizzare anche in Italia una cultura «grande-borghese» che avrebbe dovuto avvicinarsi «ai grandi problemi della storia moderna, d’Europa e del mondo».
Ma la sordità verso il mondo contadino e verso la voce poetica di Scotellaro non era del solo Asor Rosa, che aveva catalogato Scotellaro «come esempio di una cultura populista ingenua e artificiosa» (IX). Sordo era anche il PSI (il Convegno di Matera del ’55 era stato promosso in pratica da minoranze socialiste dissidenti, da un Raniero Panzieri, un intellettuale del tutto anomalo nel PSI di Nenni quasi quanto Fortini). Più sordi di tutti erano gli intellettuali-funzionari del PCI d’allora (Salinari, Alicata, Muscetta), che «in nome dell’umanesimo illuminista» se la presero sia col Carlo Levi del «Cristo s’è fermato ad Eboli» che con il “populista” Scotellaro, accusandoli di «romanticismo rurale» e confinando il secondo – a riprova di quanto poesia e politica o poesia e cultura erano per loro inconciliabili – «nel limbo dei poeti» (XIX). E del resto la ben nota vicenda del «Politecnico» di Vittorini aveva già azzerato tutte le illusioni di coniugare poesia e cultura con politica di Partito invece di sottometterle.
Se poi si pensa alla sconfitta alla fine degli anni Settanta anche degli operai (il potenziale alleato dei contadini nella visione di Gramsci) si capisce ancora meglio che ci troviamo oggi davvero a fare i conti con rovine di tutta una prospettiva storico-politico-culturale. Per cui si porrebbe la questione di ripensare tutta questa storia da un altro punto di vista, senza sconti o illusioni. Ed è persino legittimo il dubbio: ma perché dobbiamo occuparci di Scotellaro e di queste storie sepolte?
9.
Scotellaro come si colloca in questo sommovimento che ha portato alla cancellazione delle prospettive di una rivoluzione fondata sul mondo contadino o sulla possibile alleanza tra contadini ed operai? La fonte della tristezza di questa poesia a me pare non solo lirica ma anche politica. Quel passo, che egli aveva compiuto passando dalla lirica alla poesia politica o civile, era stato fatto forse già presentendo la sconfitta. Oggi capiamo che era un passo nel vuoto. Perché quella politica della sinistra (del PSI e del PCI d’allora) non era in grado di stabilire – e oggi abbiamo le prove – nemmeno per un attimo, malgrado il sogno leninista ripreso in Italia da Gramsci, una qualsiasi saldatura tra contadini e operai per abbattere il vituperato potere del Capitale. E Scotellaro dovette per forza ripiegare nel suo lirismo e nel suo “populismo” contadino, come poi negli anni Sessanta-Settanta altri (del PCI ma poi anche della «nuova sinistra») ripiegheranno in un illuminismo o in un avanguardismo o post-avanguardismo entrambi astratti.
10.
Non è difficile per me accostare la sorte di Scotellaro a quella di Danilo Montaldi, un altro sconosciuto ai lettori d’oggi e dimenticato da quelli di ieri che pure l’avevano accostato. Entrambi, nel momento della sconfitta, restano dalla parte dei vinti piuttosto che salire sul carro dei vincitori “urbanizzati” ed “eurocentrici”. Scotellaro non salì né sul treno dello sviluppo (del PSI e del PCI) né su quello, ben più doloroso per tanti, al di là della retorica sul “grande esodo” e sul “boom economico”, dell’emigrazione. Ma proprio come fece Montaldi per il cremonese, Scotellaro si tenne legato a quel mondo della Basilicata, e partecipò nei pochi anni che gli restarono da vivere ai lavori “sociologici” dell’Osservatorio di economia agraria di Portici, che aveva come perno la figura di Manlio Rossi-Doria. Raccolse storie di vita di contadini («Contadini del Sud», una ricerca rimasta incompiuta…) proprio come Montaldi ne raccolse tra gli emarginati della Leggera o tra i militanti politici di base dissidenti dai partiti di sinistra.
11.
Resta il problema dello Scotellaro poeta. Lo si può riproporre oggi, lasciando da parte quel contesto storico-politico di sconfitta? ( È tra l’altro il problema che si pone per la stessa figura di Fortini). La poesia come “rovina speciale”, capace comunque di salvare qualcosa che conta, anche se le vicende personali del poeta o quelle sociali in cui s’identificò sono andate incontro al fallimento? Può darsi. A me pare che, anche se accettassimo il valore della poesia, l’inquietudine resta. Basta confrontare discorso poetico (la breve, conciliante, quasi ottimistica sintesi che Fortini fece di Scotellaro poeta negli anni Sessanta):
Scotellaro
Le poesie di Scotellaro,” rilette oggi, mi sembra reggano
benissimo al tempo. Il suo moto primo è il compianto di
sé e dei suoi, idillico ed elegiaco. In quel desiderio di
conforto e paura della solitudine, Scotellaro ha espresso
il timore contadino della derelizione: di qui il tema della
fedeltà o infedeltà all’infanzia, alla madre, al paese; quel-
lo della madre o del padre, ingiustamente morti, deside-
rati e fuggiti; della sposa contadina, come volontà di fis-
sarsi, di rifugiarsi nello squallore; e finalmente, molto
indicativo, il tema della straniera e quello dell’ «invito al
paese», quasi che l’immobilità storica cui si convita lo
straniero fosse una paradossale difesa contro la morte. I
temi «sociali» – sciopero o rivolta, sconfitta politica o
solidarietà – sono i correlativi collettivi del distacco dal-
l’infanzia e dalla famiglia o del ritorno all’infanzia e al
paese. Mi pare che la sua sia poesia dello squilibrio do-
loroso fra persuasione e speranza, da una parte, e paura
delle cose stesse che si sperano; poesia della coscienza di
essere inferiori alla storia e alle nostre medesime pro-
messe. Un tema, questo, pochissimo intonato dalla poe-
sia dei nostri anni, ma rivelatore di una intelligenza o di
un intuito poetico non comune. Questa persuasione, in-
dividuale e storica, di esser pieni di acini verdi, che ha
dato tanto patetico significato alla giovane morte di Sco-
tellaro, la ritroviamo viva nei suoi versi migliori. Per
questo dico che la sua è una figura, un personaggio poe-
tico da non dimenticare.
( Saggi ed Epigrammi, pagg.568-569)
con il mutamento “extrapoetico” che egli stesso con sarcasmo e parodiando Foscolo registrava nello stesso paesino di Scotellaro nel 1980:
159. [RISPONDE AL CASES PER ELOGI
ALLA PROPRIA VERSIONE DI «]OHANNA
DER SCHLACHTHOFE». 1980]
Oggi mi dice il Ti Gi Due: a Tricàrico,
la patria del gentile Scotellaro,
dove, or quasi trent’anni, lieta turba
di gente di sinistra – il Levi in testa,
d’adipe cinto e vanità – moveva
celebrando il poeta contadino
sotto lo sguardo della tetra madre
orba del figlio e della fede in Cristo,
a Tricàrico dunque oggi si è aperta
una fabbrica di salami.
Ami
tu – sebbene la Legge ai Cases vieti
quel cibo immondo – ami tu i crepitanti
panini della gioventù, che odorano
di appetitoso salame? lo certo
li amai. Ma nostalgia non è che muova
ora il mio cuore. È bile. Sì, con voce
suasiva pastosa onniplaudente
il miserabile speaker narrava
che da più di un decennio è quella fabbrica
costrutta e pronta e dentro quella fabbrica
sono ingegnosi macchinari orrendi
ed efficaci che le scrofe possono
e i porci figlioletti e gemebondi
– che di acutissimi gemiti avrebbero
gli antri tutti del Bràdano ed i boschi
d’intorno empiuti e fino i monti dove
dorme ferace d’api erma Venosa –
con destrezza possente sminuzzando
e insaccando nei loro omenti stessi
e fra grani di pepe infocatissimi
e spaghi e nastri e labelli e sigilli
dopo lunga stagione stagionati
far pervenire ai panini onde s’ornano
le mense e i bar degli spuntini e infine
nei crudi ghiacci delle notti inverne
di desolate stazioni, fra lerci
zinchi, le Tavole Fredde e li azzannano
rappresentanti di commercio o stanchi
uxoricidi o precari vaganti …
Ma no. Qt,lei porci che d’Italia strazio
fanno, non quelli che l’Italia strazia,
hanno, per oltre dieci anni, lasciato
alla ruggine edace ordigni e macchine.
È già ferraglia ogni due l’una. E solo
maiali ventimila la regione
èduca ove fan d’uopo centomila
perché riattate e rinnovate e unte
possano di Tricàrico le macchine
triturar quelle carni ed alle figlie
dei pallidi operai patema giunga
mercede onde si affrettino le nozze
col baffuto barese o il cosentino.
Quanti di quelli che accolse Tricàrico
sono discesi ai padri! Il Carlo Levi
e l’Alicata funesto e il Raniero
Panzieri che un decennio ebbe a sua gloria.
L’antico fianco altri traggono. E, vedi,
l’amico che di care itale note
vestì la morta di gelo Giovanna
del poeta germanico e di gelo
storico è stretto ormai sin dove gli esita
tra le falangi fragili la biro.
( Saggi ed Epigrammi, pagg. 1092-1093)
APPENDICE: Poesie di Rocco Scotellaro
Una dichiarazione di amore a una straniera
Non ti ho saputo dire una parola.
Senti le nostre donne
il silenzio che fanno.
Portano la toppa
dei capelli neri sulla nuca.
Hanno tutto apparecchiato
le mani sul grembo
per l’uomo che torna dalla giornata.
Silvia vuoi coricarti con me?
tanto buio s’è fatto tra di noi,
vedi, che fingono le nozze
anche i fanciulli raccolti negli spiazzi.
Vuoi sollevare per favore il sacco,
accendere il cerogeno
minuscolo sul lare,
vuoi quieta lasciarti prendere, amare?
Le nostre donne allora sono in vena
i giorni d’altalena in mezzo ai boschi.
Gli abigeatari
Chi non dorme nel mare sonnolento
delle ristoppie unite, sulle spoglie
dei calanchi, gli abigeatari.
Scansàti alle tamerici,
sulla sabbia accolta del fiume,
gettano i mantelli neri,
amano il loro mestiere,
uomini sono gli abigeatari,
spiriti pellegrini della notte,
si cibano all’alba.
Lezioni di economia
Ti ho chiesto un giorno chi mise
le sentinelle di abeti
visti alle Dolomiti.
Ti ho chiesto tante altre cose
del cisto, del mirto,
dell’inula viscosa,
nomi senza economia.
Mi ha risposto tra l’altro
che un padre che ama i figli
può solo vederli andar via.
(1952)
Passaggio alla città
Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.
Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla rapata
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?
Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di Luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.
(1950)
Neve
E queste nubi sono così ferme
a raggiera di viola, sovrastano
gli uomini sviati sui pendii.
Se pure danno uno spillo nel sangue,
queste giornate dell’ultimo inverno
sono più larghe di cuore nella sera.
Tu puoi sentire nella notte fonda
lievitare la neve sopra i vetri
e come si cerne fino al setello,
acceca i finestrelli delle case.
Quando il cielo porta la bufera
il più vecchio si muove dalla seggiola
a spalare la cenere bianca:
– Non uscite, lo so io cosa accade!
Non rasparono più la terra
i cavalli atterriti nel valico,
il polverischio radeva sibilando,
il trainiere portava il nostro sale,
lo trovammo con la mano di pietra
spingeva ancora le ruote affogate.
(1948)
Già si sentono le mele odorare
Già si sentono le mele odorare
e puoi dormire i tuoi sonni tranquilli,
non entra la farfalla
a prendere il giro attorno al lume.
Ma non ho mai sentito tante voci
insolite salirmi dalla strada
i giorni ultimi di ottobre,
il padre m’inchiodava la cassa,
la sorella mi cuciva le giubbe
ed io dovevo andarmene a studiare
nella città sconosciuta!
E mi sentivo l’anima di latte
alle dolci parole dei compagni
rimasti soli e pudichi alle porte.
Ora forse devo andarmene zitto
senza guardare indietro nessuno,
andrò a cercare un qualunque mestiere.
Qui uno straccio sventola sui fili
e le foglie mi vengono a cadere
delle mele che odorano sul capo.
(1947)
Ogni giorno è lunedì
I lunedì così pieni di aria
delle nostre dolci voci casalinghe
può brontolare
la voce di un maestro
fare il mio nome e lasciarlo cadere.
Portatemi in giro così
nell’uniforme marinara
dagli zii nella valle più alta.
Ogni giorno è lunedì
c’è sempre qualcuno
che fa cadere il nome.
E vorrei rifugiare
questo fresco amore del mattino
dove suonava il mandolino
nella chiusa barberia.
Perché mi lasciano sulla via
più muto dei vecchi
che prendono il sole
dietro la sagrestia.
Di noi fissi
Di noi fissi, di noi codardi
al tremito, al terremoto
dell’impiantito…
È questo il rito dell’anima sospesa
ai freni delle corse,
ai lamenti delle tavole
che si rompono di notte;
alla parola fredda della folla.
Oh questi mancamenti!
questa fuga del sangue
e il silenzio nemico
e le spose e le mamme,
fantasmi istupiditi
che s’allontanano da noi,
girano sugli orli dell’orizzonte!
Non m’accoglie stasera la pace
d’un solo focolare del paese.
(1948)
Noi che facciamo?
Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
dal Castello intristito.
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamiamo
fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.
Noi siamo le povere
pecore savie dei nostri padroni.
Due eroi
Quinto, studente di un paese lucano,
Pisticci bianco e rosso sulla collina,
ucciso a Napoli il quattordici Luglio.
Luigi La Vista, di un paese lucano,
tra il Vulture e l’Ofanto altra collina,
cent’anni prima nel Largo Carità.
Erano di quelle terre,
Quinto non disse niente,
La Vista: «Prisonnier de guerre!»
non voleva morire.
Neanche Quinto voleva morire.
(1951)
Il garibaldino novantenne
Tra tutte le cose che ricordo
(come le bestie, chi ha la forza
chi lo stagno del piscio e chi una fontana:
io anche sono un muletto, scelto nelle fiere
che ha avuto già tre padroni)
quella che fra tutte più ricordo
e vive è un pezzo di stradetta
vicino a casa mia. Aveva ed ha
sempre una coperta bianca di sole
che viene da mezzogiorno: le case
davanti sono basse e scendono a valle.
Qui portavano in seggiola il vecchio garibaldino
novantenne.
Un garibaldino novantenne era
quel vecchio bue che pigliava il sole
a Fuori Porta Monte.
Gli andavo attorno come al monumento:
il grande corpo di una statua di neve
e carboni per occhi aveva.
Una volta e due
– come si fa per capire
il cenno più vero
di un animale che capisce –
gli mettevo davanti il sussidiario
ed il ritratto del Generale
che egli non vide veramente mai.
Veniva una nipote a dargli
il pane cotto col cucchiaio,
ad aprirgli le labbra inerti di bronzo.
Mi nascosi, per giocare a moscacieca,
sotto il suo pesante mantello di lana:
era più caldo lui del bue nella stalla,
era più freddo lui della statua di neve.
Calato il sole, quattro uomini
lo calavano nella casa.
(1952)
Lo scoglio di Positano
Più paura che della morte
se si rompono gli amici e gli amori.
Fratelli e sorelle della mia corte
siete qui, vi conto, nessuno è fuori.
Li Galli se ne sono andati
e la Punta Licosa
nella notte del mare.
Come ti voglio amare
fin che dura lo scoglio e la paura.
(1951)
Salmo alla casa e agli emigranti
Inchinati alla terra, alla piccola porta mangiata della casa,
noi siamo i figli e la porta è carica di altri sudori,
e la terra, la nostra porzione, puzza e odora.
Mi uccidono, mi arrestano, morirò di fame, affogato
perché vento e polvere, sotto il filo della porta, ardono la gola;
nessuna altra donna mi amerà, scoppierà la guerra,
cadrà la casa, morirà mamma e perderò gli amici.
Il paese mio si va spopolando, imbarcano senza canzoni
con i nuovi corredi di camicie e mutande i miei paesani.
Che vanno a pigliare l’anello? Come nel giuoco,
sui muli bardati di coperte, e con le aste di ferro uncinate,
al filo teso sulla rotabile, nel giorno di San Pancrazio?*
Ve ne andate anche voi, padri della terra, e lasciate
il filo della porta più nero del nero fumo.
Quale spiraglio ai figli che avete fatto
quando la sera si ritireranno?
* Giuoco per la festa del Protettore: chi strappa eretto sul mulo l’anello con la lunga asta, ha in premio un anello d’oro. L’espressione è usata per indicare la sproporzione tra il pericolo di cadere e il premio. (N.d.A.)
Per una donna straniera che se ne va
Se tu non m’avessi neanche guardato
alta come sei passandomi vicina,
oggi non soffrirei le fitte al cuore.
Se tu fossi oltre passata nella folla,
oh il cane vagabondo
non baciava la sua piaga con la lingua.
Se non ti fossi arresa così presto
presa dal gioco dell’ombra,
oh il pastore non avrebbe
suonato così a lungo.
(1948)
L’amica di città
Il mio occhio è fatto per guardarti,
amica, come il sole è frastagliato
dietro le quercie* di prima mattina.
Hai tu la veste succinta dell’alba,
hai le labbra di carne macellata,
i seni divaricati.
Sono stato con te. Ciao, me ne vado.
Non ti scordar di me,
dei braccianti impiccioliti
nel fascio dei fanali
che scappano nei campi come lepri.
(1945)
*[sic!]
Primo sciopero
A passi volenterosi
siamo qui giunti io e te
come truppa di riserva,
compagno della Camera di Bernalda,
e possiamo solo emettere un grido.
Sperduti siamo in questo mezzogiorno
nella lunga mulattiera
cordonata da agavi sempreverdi.
E ancora dietro le agavi i padroni
puntano i fucili sulle bocche
dei foresi silenziosi come bestie.
(1947)
La prima di agosto
A Manlio Rossi-Doria
In un momento cesserà la giostra
delle giumente bendate che trebbiano
a giri vorticosi sulle aie.
Hanno bisogno d’essere cantate
allora si mettono al trotto
e gli uomini sanno farle sognare:
O esauste fontane, a briglie lente,
dopo i picchi fatigati,
o amore sommo dell’uomo
un vero fratello
che scendeva da cavallo,
rimescolava invano nella ciba
d’acqua al fondo d’un’argilla
che lunga cervice non lambiva!
O vero amore di compagni al lavoro
ho visto un uomo dare a bere
le sue mani a una giumenta e bestemmiare!
A un cenno, nel momento
or rendetele franche
le giumente sulle aie
con le sacchette gonfie della biada.
Oggi nelle terre
si lavora e si fa festa
la prima di agosto
la gioia di riserva
il cibo di nascosto.
Dall’ombra dei fichi
si vede come una bandiera
sull’ultima biga.
E sono imbianchite le casine
la festa gloriosa dei santi
padri contadini.
Casa
Come hai potuto, mia madre, durare
gli anni alla cenere del focolare,
alla finestra non ti affacci più, mai.
E perdi le foglie, il marito, e i figli lontani,
e la fede in Dio t’è caduta dalle mani,
la casa è tua ora che te ne vai.
Padre mio
Padre mio che sei nel fuoco,
che brulica al focolare, come eri
una sera di Dicembre a predire
le avventure dei tuoi figli
dai capricci che facevamo:
«Tu pure non farai bene» dicevi
vedendomi in bocca una mossa
che forse era stata anche tua
che l’avevi da quand’eri ragazzo.
(1953)
Serenata al paese
Ma le case sono, hai voglia!, e le scale
ancora zeppe di gente e di lumi,
e sempre al paese fanno
Natale, Capodanno e Carnevale.
Ed io, che pure me ne sono andato
penso a loro e sono nominato:
amici e compagni, vicini e lontani,
cancelli e amore avevo salutato,
di tutti quanti voi m’ero scordato.
Ma il paese continua la sua storia
«sotto il cielo stellato a foglia a foglia»*
per chi parte se vuol ritornare.
(1952)
*«U ciel staie stellato a foglia a foglia / lass nu salut’ marito e moglia». È una strofa che si ripete nelle serenate di Carnevale a Tricarico. (N.d.A.)
Sempre nuova è l’alba
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna,
l’oasi verde della triste speranza,
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
Grazie Ennio! Ora mi chiedo da dove ricominciare o da dove incominciare? Le rovine sono lì a testimoniare la fine di una vita che ci aveva dato molto, che ha costruito dignità e valori. La poesia non sa più a chi rivolgersi o meglio, salveremo certo ciò che conta. La politica dentro i popoli è la miglior fonte di soddisfazioni e di disgrazie. Aristotele diceva:
– L’uomo è per natura animale politico- La poesia ne terrà sempre conto.
Sarà che è tempo di ciliegie, ma le parole richiamano altre parole, così, guardando tra i miei libri, ho trovato un testo del 1975, edito da De Donato Editore, in cui Primo Levi, parlando di Rocco Scotellaro, chiama in causa il convegno di Matera. Ma andiamo con ordine.
La pubblicazione del volume La poesia di Scotellaro avviene a distanza di vent’anni dalla morte del poeta di Tricarico, morto all’età di soli 30 anni (Tricarico, 1923 – Portici, 1953).
Alla base di un tale lavoro vi è non solo la ragione stringente di una “valutazione complessiva delle sue opere”, ma soprattutto quella di portare il discorso su Rocco Scotellaro a “catalogazioni” meno schematiche” rispetto al passato.
Quel convegno di Matera (1955), svoltosi «quando era in pieno svolgimento lo scontro fra la cosiddetta “leggenda” suscitata nel mondo contadino, e le polemiche politico-culturali», aveva cercato di “ampliare il quadro delle interpretazioni” sulla poesia di Scotellaro, riuscendoci tuttavia solo in parte; di fatto esso non era bastato ad eliminare del tutto la pesante patina di populismo e l’alone mitico-poetico che, fino ad allora, Carlo Levi vi aveva impresso con il suo giudizio.
Guardando infatti la prefazione al volume L’uva puttanella (Laterza, 1955), Carlo Levi parla della difficoltà avuta dai contadini di accettare la morte di Rocco Scotellaro, al punto che molti lo pensavano ancora in vita, fino ad immaginare che il funerale fosse stata una farsa, quando in realtà era stato rapito e portato in America.
Riporto un breve stralcio della introduzione di Levi perché la trovo interessante in merito a quanto dice sul fenomeno (la leggenda), che, a suo parere, è anche tra i motivi fondanti del convegno di Matera: «Dobbiamo porci la domanda: perché è nata, nel mondo contadino, la leggenda di Rocco Scotellaro? In un qualche modo essa preesisteva alla sua morte: già in questi ultimi anni l’immagine del piccolo sindaco dal viso di bambino era, per i contadini, qualche cosa di più della figura di un compagno e di un amico; forse non era altro che il prestigio naturale dei suoi valori umani, della sua semplice natura di poeta e di capo, che essi, i contadini, intuivano direttamente sentendo in lui uno di loro, diverso tuttavia per quella capacità di esprimersi, che è insieme somiglianza e completa differenziazione. Ma, dopo la sua morte, una vera leggenda si è creata nei suoi paesi. Mi scriveva, quindici giorni dopo la sua morte, Antonio Albanese […] : “Ai contadini riesce difficile pensare Rocco morto: per questo corrono tante voci. Alcuni vanno dicendo che Rocco è stato rapito e portato in America; altri (per questi la bara era troppo leggera) sospettano che gli amici hanno fatto seppellire il suo corpo a Napoli o a Roma; altri ancora lo attendono vivo da un giorno all’altro. […] Non c’è casa di contadini a Tricarico dove il ritratto di Rocco non sia appeso al muro accanto alle immagini dei Santi.” Perché dunque si è creata questa leggenda? Non basta certo l’affetto e il compianto per una morte precoce, né il prestigio del valore a spiegarla. Essa nasce invece dal senso naturale dei contadini che Rocco era realmente il loro rappresentante, era, come essi dicono, il fiore della loro terra: era il loro poeta in tutti i sensi della parola così come essi l’adoperano, di cantore, di scrittore, ma insieme di creatore, era, come sta scritto nella lapide che abbiamo, nell’anniversario della sua morte, murato sulla sua casa: il poeta della libertà contadina. Il fatto che i contadini riconoscono in Rocco Scotellaro il loro vero rappresentante ha portato al congresso di Matera, che ha visto per la prima volta contadini e uomini di cultura discutere di un poeta e riprendere, attraverso di lui, tutti i problemi politici e culturali che riguardano il mondo contadino meridionale e chiudere insieme felicemente una polemica male impostata e senza fondamento.» (in Carlo Levi, Il coraggio dei miti. Scritti contemporanei 1922-1974, a cura di Gigliola De Donato, De Donato Editore, 1975).
Levi parla di “polemica male impostata” e sostiene dunque che il convegno abbia messo fine ad una disputa, non tanto, o non solo, letteraria.
È da notare come Levi eviti di parlare di Fortini, cosa che altrettanto fa il secondo nei confronti del primo in fase di convegno.
Anzi, e qui torniamo alla polemica, sempre nella introduzione sopra citata, Levi inveisce contro «qualche critico, troppo frettoloso e superficiale», che, troppo frettolosamente, appunto, aveva “accusato” Scotellaro di aver «idoleggiato in modo decadente il mondo di cui faceva parte».
Su chi o verso chi fosse indirizzato il discorso di Carlo Levi non si sa, né credo ci interessi molto, se rivolto a Fortini si può solo ipotizzare.
Quel che è interessante notare è come la presenza di un critico come Fortini sia stata fortemente voluta dagli organizzatori del convegno, ed è stata dunque necessaria, per ristabilire il giusto peso ad un autore ormai avviato sull’onda del mito.
Altrettanto importa notare l’aspetto politico di Rocco Scotellaro, come sottolineato da Ennio Abate, quello cioè di uomo che aveva assunto su di sé, negli anni del dopoguerra, un impegno molto forte nei confronti della classe contadina, avviando, secondo le parole di Rossi-Doria, quel «processo di liberazione e di rivolta contro un sistema di rapporti di proprietà e di rapporti di classe che effettivamente costringeva in una situazione di servitù questi contadini e faceva sì che la loro impresa fosse soltanto un’impresa precaria e un’impresa servile».
@ Di Leo
in quel convegno di Matera la figura di Rocco Scotellaro fu di certo oggetto di scontro politico mascherato da dibattito culturale o letterario (come del resto avviene anche oggi; e anche su questo blog).
Se non la si ripensa nei contesti storici precedenti (ne ho indicati almeno due fondamentali: quello dell’immediato dopoguerra, che mette in gioco la politica del PCI togliattiano; quello degli anni Sessanta-Settanta che tentò di revisionare in senso antitogliattiano la fase storica precedente),
si capisce poco anche della figura di Scotellaro e della sua poesia, perché, strappate le radici dal contesto in cui sorse, può essere dai lettori d’oggi apprezzata al massimo come quella di un *naif* primitivo della mitica e disprezzata Terronia.
Anche il dissenso tra Carlo Levi e Fortini va ridotto ad antipatia personale che c’era: i due non si dovevano digerire reciprocamente, a leggere l’accenno pepato di Fortini contro di lui nella poesia di risposta a Cases che ho riportato, ma anche quest’altro che trovo in un testo fortiniano “In morte di Primo Levi”: “Ma basta confrontarlo con l’altro Levi, Carlo, per intendere la diversa grana dell’animo, l’assenza di estetismo e di fantasie signorili, non infrequenti in quella tradizione [gobettiana, nota mia]” (F. Fortini, Saggi ed epigrammi, p. 1681, Mondadori, Milano 2003).
Per intendere il senso storico-politico del dissenso Fortini-Carlo Levi bisognerebbe confrontare il discorso che da una parte (Carlo Levi ed altri) spingeva – è questo l’elemento estetizzante e “di fantasie signorili” – a parlare *superficialmente* (per me) dei contadini del Sud e della Basilicata come entità arcaiche e fuori della storia (come fece anche Pasolini per il “popolo”) e dall’altra Panzieri e Fortini (e in tutt’altro scenario, quello cremonese, Danilo Montaldi o le dissidenze che poi diedero vita alla “nuova sinistra”) a tentare di tenere politicamente ( marxianamente, gramscianamente) assieme analisi della condizione contadina e della condizione operaia, a sottolineare quanto il capitalismo stravolgeva e sottometteva quel mondo contadino.
Che non era intatto e non aveva una cultura tutta sua capace di respingere ogni penetrazione o invasione della modernità. E l’emigrazione dopo la sconfitta delle lotte agrarie del dopoguerra ne fu un segno tangibile, non diverso da quelle d’oggi e dall’attuale “emigrazione dei cervelli giovani” verso Francia, Germani, Inghilterra o USA..) dopo la sconfitta di fatto di ogni discorso di sinistra, dalemiano, bersaniano etc.
Avrei delle riserve perciò a isolare Scotellaro da questo contesto. Se ne fa un “eroe” politico, enfatizzandone la figura personale e trascurando le responsabilità del PCI-PSI d’allora, come se uno da solo potesse fermare una frana. (Impossibile; ed infatti il mondo contadino meridionale fu sconfitto e disaggregato). Oppure se ne fa un “santino”, ad uso e consumo delle plebi “di sinistra” in modi non dissimili dal trattamento riservato ai Padre Pio per le plebi “democristiane” o “di destra”.
P.s.
Negli spazi commento del blog i corsivi saltano. Per segnalare un termine o una frase in corsivo si usa l’* all’inizio e alla fine.
a Ennio Abate
Il rischio che si corre con le ricostruzioni è sempre quello della parzialità.
D’altra parte affrontare un discorso come quello della condizione delle classi contadine e subalterne in genere della prima metà del ‘900, del sud come del resto d’Italia, comporta un impegno e una preparazione non indifferenti, oltre che l’ausilio di esperti.
Spero tuttavia che grazie ai contributi qui apportati (ringrazio Abate per il suo) una piccola parte di verità e realtà sia emersa, non fosse altro per rimuovere quella “patina” di cui parlavo e scongiurare il processo di beatificazione, inutile quanto dannoso per la memoria stessa del poeta.
per Giuseppina Di Leo con un caro saluto da un’affezionata “copiaincollatrice” 🙂
****************
IL PAESE DI SCOTELLARO
Lungamente ho pensato di non essere mai stato a Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro. Da queste parti negli anni cinquanta uno studioso americano venne a studiare le basi morali di una società arretrata. Adesso non viene nessuno, né studiosi, né turisti, dunque è un luogo ideale per le visite paesologiche. La Lucania non si presta ad apparecchiare dibattiti televisivi: niente camorra, è sparita anche la secolare arretratezza che faceva di questa regione un laboratorio ideale per gli studiosi della questione meridionale. Questa regione vive più nella testa di chi se n’è andato che di chi è rimasto. E perfino arrivandoci dalla desolata Irpinia d’oriente si sente un ulteriore e per me riposante senso di vuoto, un vuoto che ti fa rivedere la terra, come se negli altri giorni vedessimo solo quello c’è sopra. Da casa mia ci metto poco a entrare in Lucania, a sentire il soffio selvatico che spira di quelle alture. Qui non c’è trambusto, sento che tutto è distante, ogni cosa, il nodo di un paese, la cima di una montagna, è preceduta da un prologo di solitudine e silenzio.
È una tiepida mattinata d’inverno. I nervi un poco cominciano a distendersi. Lascio la Basentana e prendo la strada per Tricarico. Prima del paese mi trovo davanti uno strampalato accampamento. Mi fermo, è una sorta di parco giochi ricavato da una pista di motocross che non ha avuto successo. L’uomo che ha messo al mondo questo carnevale di figure è un ex emigrato, tornato dalla Germania dove era caduto in depressione. Adesso è qui, prende oggetti in disuso e li scioglie nel miele della sua fantasia infantile. Ne vengono fuori creature felicemente improbabili, una ragnatela di animali di carta e metallo, il sogno e la ruggine distesi su una collina. Mi pare un bell’ingresso al paese, una cosa che non vedi mai in questo mondo ridotto a una caserma dove tutto è infilato nella stessa collana di mestizia.
Parcheggio in piazza e subito mi colpisce il fatto che è abbastanza animata. Forse godo degli effetti della visione precedente, anche qui mi pare che alligni un qualcosa di fantastico. Vedo molti corpi animati da qualche felice deformità. Sono assai più tristi in fondo quelli alla moda, quelli che hanno le forme giuste e l’anima sigillata. Anche alcuni negozi esibiscono vetrine strampalate. Sento un brivido di euforia che mi attraversa, non mi capita quasi mai. Pare che tutto abbia un suo accento, come se una specie di sclerosi abbia privato questo luogo della guaina che avvolge i luoghi e li isola, come se niente dovesse più parlare veramente, né gli uomini, né le cose.
Chiedo un’informazione sulla parte più antica e mi ritrovo con un vecchietto che mi fa da guida. Mi accompagna con una puntigliosità quasi nevrotica. Non si capisce bene cosa dica e sembra rispondere non tanto alle nostre domande, ma a se stesso, è come assorto in un ossessivo dialogo interiore, una dialogo autistico, fatto di domande inesistenti e risposte incomprensibili. Arrivo dove hanno buttato giù le case più vecchie, eppure il paese è ancora imbevuto di un sapore antico: non c’è niente da fare, certe cose non vanno via nemmeno con le ruspe, restano nell’aria, si depositano ai margini meno battuti del paesaggio.
A questo punto è ora di andare da lui, dal poeta morto a trent’anni perché si è fatto passare nelle vene tutto il dolore e la rabbia di un popolo. So che c’è un centro di documentazione dedicato al sindaco poeta. Immagino di trovare lettere, libri, fotografie. Mi ritrovo in una biblioteca con un paio di ragazzi che copiano qualche pagina per fare le solite ricerche che assegnano a scuola.
La signora che mi accompagna dice che non c’è niente da vedere. Le foto non sono esposte. Ci mostra solo un libro curato da Umberto Zavattini nel 1954. Non è in vendita qui ed è introvabile anche altrove. È bellissimo, anche se certe foto sembrano finte, tanto impressionante è la miseria immortalata.
Un po’ mi scompongo. Penso che se vai al paese di Padre Pio ti fanno vedere la stanza del santo e tutto il resto. Qui niente, un riserbo che per certi aspetti potrebbe anche rincuorare. Scotellaro non è diventato un eroe da esibire sulle magliette. Forse sarà pure per il fatto che gli manca il fisico. Me ne rendo conto al cimitero osservando la sua foto accanto a quella del fratello e dei genitori.
Usciti dal cimitero non sento più quel brio del mattino, forse è svanito l’effetto dovuto alla visione iniziale del sognatore tornato dalla Germania. Lui mi aveva detto che spesso si ciba solo di erbe. Io invece ora sto dentro una salumeria a fare un panino che è sempre più grande del necessario. Mi capita spesso dopo mangiato di restare imbambolato dalla digestione e il mondo volteggia intorno a me come un uccello intorno a uno spaventapasseri.
Me ne vado mangiare il panino a Pietrapertosa, sulle Dolomiti lucane, non lontano da Tricarico. Scotellaro di Rapallo scriveva che le case sbucano nella/ costa come margherite. Questo paese è come se sbucasse dalla roccia. Le case però non sono fiori, sono tane per proteggersi dai nemici e dall’inverno. Qui ci sono già stato, ma era un altro giorno, avevo un’altra combustione. Non provo nemmeno a salire gli scalini che portano a un brandello di castello in cima alla roccia. Resto su una panchina a prendere il sole e il silenzio di un pomeriggio insolitamente grazioso. Quando mi accorgo che comincio a stare assai bene decido che è ora di smuoversi, la mia corsa contro il benessere non mi concede lunghe tregue. Decido di andare a vedere Acerenza. Nelle guide sulla Lucania è segnalato per la sua cattedrale. A me colpisce la stradina che porta al paese in un paesaggio che sembra quello di altri secoli. E poi mi colpisce ancora di più l’apparizione del paese, una chiocciola di pietra, una forma che fa apparire il tutto come una torta a più strati.
Di fronte alla cattedrale resto un po’ deluso. Forse non c’è la luce giusta. Per rifarmi vado a sporgermi da un belvedere dove ammiro un’altra cattedrale, quella del paesaggio, senza capitelli e stemmi, una facciata di terra arata, un omaggio orizzontale al Dio della fatica e del sudore.
Ormai è quasi notte, è tempo di tornare. Adesso che non posso guardare intorno, adesso che ho davanti a me solo l’asfalto, vengo assalito dalla solita paura. Mi riprendo un poco attraversando Pietragalla e Filiano, dove mi aspetta l’acquisto del formaggio. Poi è ancora asfalto, ancora i cecchini dell’ansia che mirano a un bottino che non potranno mai avere.
Eppure il tesoro di questa giornata è al sicuro. Il tesoro è in quei minuti in cui sono arrivato a Tricarico e l’ho vista luccicare davanti ai miei occhi con la sua divisa profondamente meridionale. Il sud è diventato tante cose, ma la matrice è qui, è qui lo stampo di quella civiltà contadina che in ogni luogo ha avuto una sua diversa fine. Scotellaro è morto nel 1953, il suo mondo è durato altri vent’anni, poi ha ceduto, come una terra che prima frana in maniera impercettibile e poi viene giù di colpo. Il mondo che è venuto dopo non è mai veramente entrato nel sangue di questa terra. Qui si capisce meglio che altrove perché l’Italia è diventata la tana degli scontenti. Nessuno fa veramente quello che vorrebbe e nel posto che vorrebbe. La vita prima pastorale e poi contadina, la vita fatta col fiato dei muli tra i vicoli e i dirupi, ha lasciato il posto all’asfalto e al cemento. La vergogna di essere antichi è stata camuffata con le automobili e le palazzine. Ma se ti spogli in fretta del tuo passato, se resti nudo non puoi pensare di rivestirti con due bottoni e un cappello. C’è da trovare il tessuto e bisogna filarlo con pazienza. Tricarico nuova ha la stessa mesta oscenità della nazione che abbiamo costruito negli ultimi cinquant’anni. È un luogo che sparisce. Mano a mano che viene costruito.
Franco Arminio-23 marzo 2010
a Ro
Grazie.
Il tuo coiaincolla restituisce a meraviglia una pagina davvero bella.
…copiaincolla (correggo).
Ringrazio rò per questo copia/incolla del pezzo di Arminio. Ho detto che la figura di Scotellaro è una cartina di tornasole che permetterebbe di cogliere le lacerazioni di storie collettive e private. Ed avevo proprio bisogno di un esempio *a contrario* per chiarire cosa vedo io nella figura di Scotellaro e cosa mi pare vedano ( o non vedano più) altri/e.
E, infatti, Arminio è per me un giovane scrittore “cetomedista” meridionale d’oggi che non ha più nulla a che fare con Scotellaro. E che, per la cancellazione della storia che qui ho cercato di tratteggiare, è ormai impossibilitato a guardare il Sud se non in maniera estetizzante e astorica, ricalcando in parte e in altre forme quella “arcaicizzante” di Carlo Levi.
Ho intrattenuto con Franco Arminio degli scambi mail attorno al 2006-2007. Malgrado gli avessi ricordato (con questi miei versi: Emigrare è conoscere dalla parte delirante del celeste/ l’oscuro schianto del comune presepe./ Voi, i rimasti, dalla parte interrata /ne soffrite lo stesso l’agonia) i punti di contatto ancora possibili tra la mia esperienza dell’immigrazione e la sua esperienza del restare, ogni rapporto di scambio con lui è poi venuto meno. È un altro segno della crisi che viviamo, che oltre a logorarci ci separa e impedisce forse ogni dialogo non diplomatico tra vecchi e giovani, tra immigrati ( e invecchiati) al Nord e non immigrati (e in via d’invecchiamento al Sud).
Da una di queste mie lettere (4 gennaio 2007) scritta dopo la lettura del suo «Circo dell’ipocondria» stralcio un breve brano in cui facevo presenti le ragioni del mio dissenso con lui:
Nel n.1 di Poliscritture, Agostino (Pelullo), anche lui di Bisaccia, ci ha dato un’idea “realistica” di questo luogo. Ricordando l’anniversario del disastroso terremoto del 1980, ha insistito su cose concrete: il rifiuto da parte di stampa e TV di ascoltare i testimoni del terremoto attivi nei soccorsi alla popolazione; la rimozione dal dibattito pubblico della questione della gestione «affaristica e camorristica» dei fondi allora stanziati dal governo; l’inefficienza dei politici nel delineare un qualche futuro per quelle zone (La Regione Campania diretta dal diessino Bassolino, paralizzata di fronte al problema della cosiddetta «emergenza-rifiuti», ha brillato solo per il tentativo di privatizzare l’acqua). E ha pure suggerito la possibilità di documentarsi sul sito «Osservatorio sisma» sui reati (omicidi di giornalisti e magistrati scomodi) legati al controllo di quegli appalti da parte della Camorra.
Il tuo libro (ma anche il dvd su cui dirò poi) dice poco sull’Irpinia di oggi e quasi nulla sulla sua storia, sull’economia, la politica, il lavoro, l’ambiente di queste zone. Aggiungo subito a scanso di equivoci che forse avrai già scritto di queste cose sui giornali. Ma cosa significa che in «Circo dell’ipocondria» l’approccio diciamo più diretto alla realtà di questi paesi manchi e prevalga in maniera massiccia la metaforicità?
Non chiedo a un’opera letteraria di essere un reportage e non la misuro esclusivamente in base alla presenza o meno di contenuti per me “importanti”. Importante è anche l’ipocondria di Arminio. E posso pensare, come dice Cortellessa, che ci sia una «profonda relazione» tra «il corpo di Arminio e la sua terra» tanto che «l’uno è sintomo dell’altro». Ma questa relazione non è sufficientemente sviluppata. E la ragione forse sta nel fatto che tu parli addirittura di identificazione tra il corpo di Arminio e l’Irpinia («Il paese è appoggiato su una zolla di terra che scivola, si spacca e porta in superficie le sue fenditure. Come si fa a non temere la morte in un paesaggio così malato? Come si fa a non temere la morte quando il corpo del paesaggio e il nostro corpo sono una cosa sola?», 103).
Ecco, questa equazione tra ipocondria di Arminio e ipocondria dell’Irpinia mi pare davvero equivoca. Ne discenderebbe che, parlando della “malattia” di un individuo immaginario-reale, si verrebbe a parlare o a conoscere quasi automaticamente quella (probabile ma tutta da accertare) degli abitanti del paese o di quei paesi. Mi sembra una soluzione inaccettabile. E vedo in un uso così strabordante della metaforicità del linguaggio letterario un rischio di evasione.
Considero poi problematico anche il passaggio che verso la fine del libro sembra delinearsi: dall’autoanalisi dell’ipocondria alla «paesologia». La «paesologia» non sarà «una trovata» (14), ma uno come me la intenderebbe all’incirca come conoscenza dei paesi (come la teologia vuole essere conoscenza di Dio e la psicologia della psiche). Qualche esempio c’è stato in passato. Ho in mente un «paesologo» sui generis come Danilo Montaldi, scrittore forse sconosciuto alla tua generazione, ma ben noto a Celati, tuo autore di riferimento. Nella bassa padana cremonese degli anni ’50-’60 egli indagò un mondo che, a causa della trasformazione industriale, andava scomparendo come forse accade oggi ai paesi dell’Irpinia. E in «Autobiografie della leggera», libro oggi introvabile, facendo parlare e trascrivendo le storie di vita di vagabondi, ladri, prostitute, costruì narrazioni di grande intensità estetica e non solo di valore sociologico-politico. Oggi a un «paesologo» chiederei proprio questo: descrivere e analizzare un territorio, intervistare e far parlare la gente, andare al di là del paesaggio (dell’apparenza), studiare le trasformazioni che si stanno verificando nelle strutture politiche, economiche, antropologiche, storiche di zone dell’Italia e, se possibile, del mondo. Montaldi lo seppe fare da «poeta sociale» (Cortesi), quindi senza rimanere inceppato dagli idealismi e dagli scientismi che dominavano allora la cultura italiana. Se i poeti d’oggi non sanno più farlo o neppure sono attirati da un lavoro del genere è perché risentono di un clima culturale che ha rimesso in primo piano l’io individualistico, chiuso in sé, e vedono gli altri come una semplice reiterazione di quell’io. Tu – scusa la schiettezza – mi sembri un esempio di questo modello di scrittore. E il tuo passaggio alla «paesologia», per me positivo, rimane incerto.
P.s.
Rò ha scritto in un altro commento:« Rocco Scotellaro non è perduto come purtroppo il mondo dei suoi canti. Finché ci saranno gli Arminio e ogni copiancollatore fra cui anche tu, le domande che faceva Ennio saranno vive in ogni lettore».
Da quanto finora ho scritto, non mi pare proprio che ci sia continuità tra Scotellaro ed Arminio.
E un po’ maliziosamente farei notare che anche ad Arminio, che scrittore di successo è diventato ( magari più in piccolo rispetto a De Luca), si adatterebbero le obiezioni che la stessa rò ha rivolto a quest’ultimo: «il problema è in parte di Erri De Luca et simili, perché dall’altra hanno ormai allevato milioni di milioni di smemorati che si credono alternativi e sono invece conformi ad un pensiero unico».
Di sicuro quando Arminio parla ed esalta la decrescita felice, non sa di fare il gioco( e la somma gioia) dei padroni del mondo, ovvero di fornire meglio l’avallo (di quel sud, nord o sud poco conta) che non appartiene piu a se stesso, ma ai 40 piu estesi agglomerati/urbanizzati delle città in cui viviamo sul pianeta, asfaltando o desertificando tutto il resto, sud e tutti i punti caridnali compresi….tuttavia a ognuno il suo mestiere ed Arminio come paesologo/poeta sa fare il suo, non pretendo cioè da lui che sia il mio guru politoloto ideologo tuttologo, ma che faccia il suo mestiere. Cosa che non fa certo con presenze libreria/ vetrina/ tivvì di cui in parte nei comportamenti piu mediatici di Erri De Luca e ogni passaggio di costui dai vari fabio fazio system o bignardi spa…Inoltre se Arminio facesse come altri “intellettuali ” di massa ma anche di ipernicchia, che vogliono spiegarmi per controllarmi meglio sui fatti del mondo, dalla siria allo spread , da montale a monti , etcetera, anche anche si potrebbe approfondire ogni contestazione, ma così messa , la tua affetuosa contestazione caro Ennio, come gia altre volte, pone qualsiasi viandante su un’ unica strada tracciata di non dialogo; la difesa di Arminio contro un tuo attacco ad Arminio? Personalizzazione che non mi interessando, anche se c’è gossip e gssip, e questo sarebbe d’alto livello, non m’appartiene. Inoltre, io non ho bisogno come te di spingere o far cadere da un piedistallo questo o quello.
Per il prblema del “ceto semicolto”, be’ questo è interssante perchè è talmente un tormentone anche pe me ma solo in quanto dato di fatto di svuotamento del mondo persone, per il resto ha sinceramente stancato, soprattutt quando rivolto ad autori che non ne sono i capi mandria, o che non si chiamano e non sono Saviano o Littizzetto, Volo o Severgnini e centinaia di esempi ben diversi dalla vita e il pensiero di Arminio. Ma, soprattutto, se ti/vi dà cosi noia il liquidissimo ceto semicolto, allora tutti coloro (= i supercolti…voi! e anche se ti da cosi fastidio il noi da una parte e il voi dall’altra parte) che vorrebbero un altro “ceto” d’ascolto, occorre che inizino a rimboccarsi le maniche dandosi da fare almeno almeno come i vari Arminio ( e relativi sbattimenti nel mondo sotto l’iperuranio), con un linguaggio per cui sappiano parlare agli altri, i semplici ( semicolti o meno) come facevano Scotellaro et simili intellettuali di una volta, pena al contrario, per i supercolti del nuovo millennio, fare la fine di sempre, condannati ad essere cosi dalla secoli dei secoli della Storia, il sapere e la conoscenza: fare elite, senza altre smanie, pensando al proprio mestiere, linguaggi compresi, facendo la propria parte e punto.
@ rò
Ho vissuto per fortuna in un epoca in cui almeno da alcuni intellettuali (su piedistalli o meno) ho imparato a distinguere il confine tra critica e gossip. Aggiungo che – e non solo nel caso di Arminio – ho spesso rinunciato, troppo generosamente in certi casi, a pubblicare scritti analitici su testi di persone (note o meno note) quando mi sono accorto che erano permalose, confondevano – loro non io – i due piani e davano i numeri.
Ciò detto, il tuo commento salta le questioni che ho posto: discontinuità/continuità tra Scotellaro e Arminio; tra intellettuali formatisi negli anni ’60-’70 in grado di collegare letteratura e politica e intellettuali “postmoderni” che pretendono di essere “a-ideologici” e “liberi”; possibilità del ceto medio ( colto o semicolto, noi compresi ), che ha soppiantato contadini e operai, di contribuire all’uscita dalla crisi di questo Paese senza chiudersi nel “mestiere” o in qualche altra pratica palliativa.
La fama, la televisione…siamo noi che l’accendiamo . La televisione siamo noi. La fama, la potenza , merde comprese siamo noi, noi che sappiamo tutto di ciò che appare su quel video, sul nostro pc e , magari senza volerlo, pigiamo quel tasto ed è lì che ci freghiamo, che cambiamo piano piano il nostro pensare. Chi “conta” e ci prende in considerazione provoca in tutti noi quel piacere che proprio tutti amano sentire e addio…cara Rò addio a tutto anche al nostro essere nostri. Ciao cara. Emy
a Ennio Abate
“Scotellaro è morto nel 1953, il suo mondo è durato altri vent’anni, poi ha ceduto, come una terra che prima frana in maniera impercettibile e poi viene giù di colpo. ” (Arminio) – Mi chiedo che continuità potrebbe esserci se già da queste parole appare chiaro il concetto che non c’è stata nessuna continuità. E poi, Arminio o chi altri potrebbe oggi avere qualcosa in comune con Scotellaro?
Il “ritratto” di Arminio evidenzia semmai un vuoto storico, fatto di arretratezza culturale, politica ed economica.
L’arretratezza del sud è già in quel che tu hai evidenziato parlando di “quanto il capitalismo stravolgeva e sottometteva quel mondo contadino”. Credo che siamo tutti concordi nel dire che il problema della marginalizzazione del sud non è stato risolto in passato, né si potrebbe tentare di risolverlo oggi, con la semplice letteratura di denuncia.
Cara Ro,
apprezzo molto il tuo impegno.
Ringrazio tutti, Ennio per primo, per avermi sopportato; all’insegna del simbolo sigillo “copiaincolla”, saluto anch’io dicendo che,oltre il vuoto e il dolore dentro il nostro mondo perduto e smarrito, “apprezzo molto il vostro impegno”…
🙂
ps
una carezza speciale a Emy e Giuseppina
@ rò
Credo che anche tu sopporti me. Quindi c’è una reciprocità.
Ma si sopporta solo quando in quello che dice l’altro/a s’intravvede una sfida alle proprie convinzioni e scatta la volontà di approfondire, di ragionarci su, di articolarle meglio.
Questo ho fatto io a proposito di Arminio/Scotellaro. Speravo che tu non ti ritirassi – troppo signorilmente! – e entrassi nel merito delle mie obiezioni.
Con vantaggio credo anche di chi legge. Ma non posso che suggerirtelo.
A Rò:
Ma che cavolo stai facendo! Ti ritiri? Da chi ? Da cosa? Ma fammi il santo piacere ! Non lasciarci , la tua voce è importante e soprattutto stuzzicante…Rò va che se ti ritiri io ti tiro un tiro che tu manco ti immagini!
per gli Emynni .-)
è proprio un mondo difficile …scrivendovi, non ho pensato ad una mia ritirata “assoluta”, più semplicemente ho ritenuto di darvi cenno/salutarvi dando per sotteso che ho letto le vostre considerazioni e che tutte formano un mosaico incluso il mio pezzo…mi spiace non poter dare soddifsazione ad Ennio in ulteriori scavi ed è facile il motivo: la mia ignoranza rispetto alla sua sapienza , conosce i limiti oltre i quali non vado mai tanto quando il/i miei interlocutori hanno minori risorse di me, tanto come in questo contesto ne hanno molti più di me. Il braccio di ferro in un caso come nell’altro è inutile, almeno per me e “il movimento” minimo è stato comuqnue raggiunto senza cioè dividerci nei due soliti fronti, da perfetta mente bipolare ergo schizofrenica , che vede una cordata pro e una contro.
Sul tema specifico di Scotellaro e del mondo perduto sia come societa contadina che come societa intellettuale, ha già detto tutto, almeno per me, Di Leo….su quel vuoto, Arminio agisce in un modo e Abate in un altro. Le due modalità non le vivo in antitesi.
un abbraccio a presto con nuove ritirate , tutte relative 🙂
… sperando che Ro non si ritiri, lancio un intermezzo poetico riguardante Rocco Scotellaro.
Quando morì Amelia Rosselli scrissi dei versi a lei dedicati che accennavano anche a qualcosa della sua vita, in particolare al rapporto con Rocco Scotellaro, breve ma molto significativo.
Come testimoniano le linkature che seguono la mia poesia (in una sono i versi di Amelia in morte di Rocco).
In morte di Amelia Rosselli
Certo era straordinaria-
-mente aperta in se stessa
presa d’altro sempre dovunque
straordinariamente altra
da chiunque e visibilmente
straordinaria
e se non era facile
tenerla se non era lecito né si
poteva averla, berla o anche solo
intimorire la sua voce arcana
se non sarebbe stata per chiunque
per tutti quelli che l’hanno voluta
è stata voce e bevanda e preda
intimo possesso è stata per tutti
quelli che l’hanno veduta, presa
sopra una terra ch’è adesso muta
via dalla sua chiarezza, il verso
uno scrosciare a taglio d’acque
Ma la sua vita allontanata la sua
straniera disgrazia l’adolescenza
solitaria il perdersi nel mondo senza
reti che solo a Tricarico trovò riposo
un’ora e per la vita intera una
mancanza
(lì si saldò l’incontro e la parola
prese da un lapsus la sua corsa
metrica di versi antichi e belli-
-che variazioni
http://www.bibliomanie.it/amelia_rosselli_rocco_scotellaro_poesia_tormento_g…
di A Giannitelli – Articoli correlati
lucaniart.wordpress.com/2011/01/19/cantilena-di-amelia-rosselli/
http://www.torinomedica.com/…/0750ebe370b1f3bfd823627715155290-4.ht...
(sperando di aver ricopiato bene gli indirizzi …)
no, gli indirizzi non sono stata capace di copiarli in modo che si aprano i siti.
ora ci riprovo.
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=amelia%20rosselli%20e%20rocco%20scotellaro&source=web&cd=1&cad=rja&ved=0CCwQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.bibliomanie.it%2Famelia_rosselli_rocco_scotellaro_poesia_tormento_giannittelli.htm&ei=b2PIUfHLCYPZ4ATa_IDQBw&usg=AFQjCNGnWOoUk8JZnNwsV–b5UyvpYxKAA&bvm=bv.48293060,d.bGE
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=amelia%20rosselli%20e%20rocco%20scotellaro&source=web&cd=2&cad=rja&ved=0CDQQFjAB&url=http%3A%2F%2Flucaniart.wordpress.com%2F2011%2F01%2F19%2Fcantilena-di-amelia-rosselli%2F&ei=b2PIUfHLCYPZ4ATa_IDQBw&usg=AFQjCNHYHa8fUAeWDeVUkwUudqzaE1vZSQ&bvm=bv.48293060,d.bGE
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=amelia%20rosselli%20e%20rocco%20scotellaro&source=web&cd=4&cad=rja&ved=0CEAQFjAD&url=http%3A%2F%2Fwww.torinomedica.com%2Ftimetolive%2Fpage10%2Ffiles%2F0750ebe370b1f3bfd823627715155290-4.html&ei=b2PIUfHLCYPZ4ATa_IDQBw&usg=AFQjCNF7JpwmiiM1F6D_JKk87juxGLc3Ag&bvm=bv.48293060,d.bGE
a Ro
E’ un mondo difficile: verissimo Ro.
Comunicare sta diventando sempre più difficile.
Ciao, un abbraccio.
A presto.
@ rò. Sulla vischiosità cetomedista.
“mi spiace non poter dare soddisfazione ad Ennio in ulteriori scavi ed è facile il motivo: la mia ignoranza rispetto alla sua sapienza , conosce i limiti oltre i quali non vado mai tanto quando il/i miei interlocutori hanno minori risorse di me, tanto come in questo contesto ne hanno molti più di me” (rò)
Mi permetto di aggiungere, invece, che non credo sia vera né la tua dichiarazione d’ignoranza né l’investitura del sottoscritto a sapiente. Il linguaggio, anche quando non è poetico, serve anche a mascherarsi nella comunicazione “normale”. E poi quando mai un vero sapiente ha disdegnato di dialogare con un vero ignorante? O viceversa?
Su questo blog e altrove – lo ripeto – siamo nell’ambito di una comunicazione tra “cetomedisti” ( uomini o donne, colti o semicolti: a scelta, tanto non cambia molto la sostanza dei problemi).
E’ una comunicazione vischiosa, a volte diplomatica, a volte insidiosa, a volte aggressiva ( e non è detto che l’aggressività sia sempre quella di chi usa parole chiare, forti o decise…).
Una cosa devo però annotare: appena il dibattito fa emergere contrasti, divergenze, punti di vista che richiederebbero, con vantaggio di tutti secondo me, di essere approfonditi e più chiaramente enunciati, permettendo così di arrivare a degli aut aut e a delle scelte etiche e politiche, s’innestano retromarce, si attenuano i toni, si ripiega in un generico ecumenismo o relativismo. Si preferisce il quieto vivere, la vischiosità del pensiero tipicamente “cetomedista”.
Questa sinceramente la mia opinione da “cetomedista critico”.
E’ molto interessante questa tua riflessione, carissimo Ennio…contiene il nucleo di tutto il tuo modo autentico d’essere “intellettuale” alla ricerca senza fine . In questa , a volte, l’altro può sentirsi usato come specchio , limpido o deformato, ma la sensibilità che nulla c’entra con l’ignoranza o la sapienza, sia da parte tua che dell’altro, alimenta ciò che ormai viene chiamato “comunicazione”….il problema grande grande e soprattutto grave è che non basta comunicare, non è mai bastato né all’ignorante nè al sapiente, né al cetomedista né al suo eventuale, se esiste ancora, opposto….Parlarsi è indispensabile con tutti i registri emotivi ed anche con l’aggressività che hai richiamato in questo tuo ultimo commento. Ma c’è questo ma: sebbene siamo tutti cetomedisti liquidissimamente imbevuti di questo sgretolamento, chi più chi meno consapevole del mondo perduto, qui in questo tuo/nostro spazio forse c’è una maggiore concentrazione di “cetomedisti critici” del mezzo in cui ci troviamo.Media che spesso e volentieri rappresenta quel “ceto medio mediatico” che crede di *comunicare* e addirittura lo identifica al “parlarsi” proprio perché tutto scarica nell’aggressivita pigiata a più non posso sui tasti. Il *parlante” dell’intellettuale autentico a quel mondo perduto dagli intellettuali come Fortini, Scotellaro ( ed altri ancora), parlante così forte e chiaro che ti/ ci condanna a quella rabbia e quel dolore da te così sapinetmente espresso nella lettera ad Arminio, richiede sia a a te che a me che ai nostri simili, culle e scuotimenti, carezze e sferzate che sono state preformattate estranee a questo mezzo in cui ci troviamo, o se ne ritrovi le tracce sono solo surrogati insufficienti . Insifficienti per gli obiettivi di quella *ricerca* interminabile e autentica di cui sei portatore, che ti fa al contempo tramite fra un mondo perduto e un mondo non ritrovato in cui l’altro non è mai abbastanza. O forse no, poiché la tua sapienza, in questo caso come lato dell’esprienza con il mondo “scritto” della parola “parlante”, ti grantisce a volte quel “messaggio nella bottiglia” di cui parlavi post fa con Linguaglossa, un tuo pari nella forza della parola parlante stessa. Ma nel mondo perduto, di cui sai e conservi come una vestale, un essere quale il tuo poteva “parlare” veramente “liquido” e sentire il latte nutriente anche laddove non fosse un tuo pari. La condanna della Storia per i sapienti ad essere isole, era meno tragica e problematica nel peso da sopportare della solitudine. Il noi aveva più identità da condividere e l’aggressività esterna delle condizioni del mondo non aveva ancora conosciuto quell’ambiente paludoso di menzogne, inganni e reality tali per cui adesso è molto piu complicato sopportare il dolore dell’aggrassività di massa del mondo, a partire dalla propria, almeno per me. Per questo ti ho scritto quel grazie di avermi sopportato. Tutto sommato credo che nel mondo perduto fosse più “libera” la possibilità di continuare all’infinito quella ricerca che a te prende così tanto…tanto che se l’infinito esiste è a partire da questa dimensione così finita e tu rendi perfettamente senza antitesi, almeno per me, questa dimensione “parlante”. Tanto che a volte, quando vi leggo, soprattutto nei duetti fra te e Linguaglossa, sento ancor più la mia ignoranza, perché dei due sento la tua solitudine in cui la tua parola, rispetto alla sua, rimane sospesa e nessuno la raccoglie, forse solo apparentemente, perché nel mio ascolto è raccolta come nel mondo perduto non solo fra dispari ma anche fra pari.
Ciao
@ Marcella Corsi
Grazie sia per la segnalazione del legame tra Rocco Scotellaro e Amelia Rosselli, che ignoravo, sia per il link del sito LucaniArt Magazine (http://lucaniart.wordpress.com/2011/01/19/cantilena-di-amelia-rosselli/), dove oltre a leggere la poesia della Rosselli ho scoperto il documentario in sei parti su Scotellaro (http://www.youtube.com/watch?v=-1rf0i0-33Q), che ho appena finito di seguire con grande interesse e un po’ di commozione.
@ rò
Il medium-blog permette qui solo un surrogato della vera, autentica, «interminabile» comunicazione, possibile una volta in un «mondo perduto» persino tra persone socialmente o culturalmente collocate “in basso” e ora non più in questo insopportabile « ambiente paludoso di menzogne, inganni e reality» che ci aggredisce e spinge ad aggredire?
Questa è la parte dolente e sconsolata che afferro dal tuo discorso.
Ora quest’analisi ha dalla sua evidenze empiriche e ragioni fondate. Ma non dice tutto, non ci condanna all’immobilità o ad un continuo atteggiamento difensivo-aggressivo- guardingo, che impedisce di raccogliere ed alimentare proprio quei “messaggi in bottiglia”, quegli spunti di “verità” che possono trovarsi perfino sul blog o sul Web. E che spesso non raccogliamo né alimentiamo proprio perché convinti che «il medium è il messaggio» e nulla è possibile contro la falsa democrazia del Web.
È allora è quasi inevitabile guardare a un «mondo perduto», dove esistevano le condizioni elementari per riconoscersi, parlarsi, capirsi, lottare, amare, etc.
Mi chiedo però quando mai anche in quel «mondo perduto» non si è faticato per cercare di capirsi e non si è dovuto affrontare paure, pregiudizi, superstizioni, fantasmi. O quando mai il linguaggio non sia stato opaco e non abbia costretto quelli che vogliono usarlo per dire verità a un doloroso braccio di ferro linguistico-politico, spesso sanguinoso, con quelli che la vogliono nascondere o manipolarla per conservare e accrescere il loro dominio.
Ho, come detto in altro commento, proprio oggi visto per la prima volta il documentario in sei puntate su Rocco Scotellaro, quello associato al link segnalato da Marcella Corsi. Se potessimo analizzarlo assieme in una sorta di mini-seminario (magari virtuale), avremmo occasione di cogliere anche lì, in quel «mondo perduto» lontanissimo da quello “cetomedista” d’oggi, la presenza di menzogne, inganni, approssimazioni, che sopraffecero anche il povero Rocco Scotellaro, finito come si sa in carcere e solo da morto “santificato”.
Insomma, i condizionamenti ci sono, oggi più raffinati di ieri, ma, non lasciamoci intimidire e soprattutto non rinunciamo a ragionare, dire verità, “fare gruppo” anche su un blog.