Alfonso Guida
Da “Il dono dell’occhio”

Egon Schiele, Giovane

Egon Schiele, Giovane

In Appendice la recensione e due foto di Giuseppina Di Leo

Le mani di Vanni

Sei giovane. Questo posso capirlo
toccando le tue mani. Le dita aspre,
rozze, dure, non si plasmano al fiore
visto in controluce, non sanno quale
roccia conservare in fondo al sottile
profumo che tramandano. Ieri gonfie
per l’ape che le ha straziate, oggi dolci
per la piuma che le ha alleggerite. Amo
le tue mani, le vene pesanti. Il dio
che invochi non dà pace al turbamento
che le eccita sapendo che altro è il loro
destino, la fragrante, luminosa
nostalgia che dentro sta come il treno
nel suo vagone più lontano. Quando
mi afferri, ne diventi presto padre.
Le pietre non scalfiscono il sangue che
le nutre. Mani di colore scuro,
vivo, mani di sterpaglia e brughiera
che non scelgono il tronco e il fiore, il fiume,
le acque. Mani che scavano le terre,
le grotte, il fango. Mani che vorrebbero
trarre tesori da ogni sete. Mani
che un giorno dissero alle mie guardandone
le ombre in fiamme: come siete invecchiate.

San Mauro Forte, settembre 2010

* * *

Sul ciglio intriso di guazza, il sole acre,
fuoco del primo settembre. La nebbia
si riversa sul dorso del gregge che
lento salta in cima alla pianura. Si
chiuse il baratro, un giorno. Quante rocce
spaventate ebbero modo di alzarsi
con gioia dal cielo di iuta. Eppure io
sprofondavo, nel livore materno
di un raggio. A mezza montagna, la nube
si annodava. Ma lo sguardo terreno
del sole cadde sul mio cranio. Avevo
le tempie rotte. Senza sangue. Poi mi
feci una grotta di ginepro e sulla.
Tornai al livore materno. Dell’alba.
Perché tutto crolla e quando crolla si
dischiude il vuoto? L’acqua notturna non
gela il pianto ma induce a paventare
le macerie del bosco. Un lume d’olio
penetra la fronte, si allarga dietro
la fontana del piazzale. La mandria
dei tuoni. Non senti di vallare quel
rumore di erbe intorno ai cani, i cani
che mangiano ossa di cavalli uccisi
da un carbonaio sui monti? C’è polvere
nel fuscello che mia madre ha posato
sulla tomba. Si scompone qualunque
certezza. Si rifà la speranza che
non teme, sotto tiro di presagi,
l’attesa, la memoria dell’attesa.

* * *
Lo stagno specchia se stesso. E il tuo sguardo
di gelso. A toccarlo macchio le dita
d’inchiostro. Lavo con tre once di neve
la mia coperta di lana. Sui valichi,
dopo l’aurora. Spegni il Carro, a fiato
deciso. Le colline arse. Attraverso
millenni d’altra luce invereconda.
Nel pomeriggio creste e lime. Creste
di luna frammentaria. Lime azzurre
d’ombra gelida e spiumata. Poi lento
s’affaccia l’altipiano con le vele
rosse intorno alle barche sconfinate
di questa solitudine. Guardo le
polle, i lavici torrenti, tocco con
le unghie il mento, il mento del sasso, il corpo.
Mi aspetta la notte. Ogni cosa attende.
Sui pali scarni del bar cola resina
di vecchio cipresso. Lo stagno specchia
se stesso e il tuo sguardo. Ne resta impressa
la soglia, l’uscio del silenzio antico
dove gli oggetti corali, al nitore
dei carsici, alpestri sussurri, ghiacciano
l’ansia dei tuoi occhi, ripidi e spigati.
Piango usando le tue lacrime tonde.
La tua prigione è così dolce. E al margine
sento la terra come si trattiene,
come trattiene la sua arca alle fresche
sorgenti. Piango usando le tue lacrime.
Ma il pianto dei larici è un lutto che ora
pare festeggiarmi. Arcana irrealtà del
Vero, io, da tronco a tronco, rasento quel
bosco fitto e leggero. Luce, lava
pure le mie ombre. Non sai che Jonio puro,
temerario e vinoso ora sorregge,
nel punto più alto del tuo febbrile,
disinganno, Torremozza bruciante
con le finestre accese e il semprevivo
che dorme sotto le panchine. Tutto
l’ospedale si alza nel prato viola
di una brughiera, sacramentale urna
di bora, montagna che a sé offre culla
di vischio, culla costruita coi pezzi
dell’ascia che ieri mi trafugò il cranio
dalla nuca, l’occhio raso dell’erba.

*
Il colore dello Jonio è strano. È cera,
pece, deserta finzione celeste
dell’acqua. Passo il tempo su una sedia
di paglia. Il riso sveste umanamente
la notte. E il giorno fiammeggia esiliando
le cime nei cavalcavia grigiastri
dei primi lidi. Giganteschi abeti
formano grotte consacrate, grotte
di stagno e piombo dove il soccorrevole
miasma dell’urlo viene (se altro è il nostro
rinascimento) notevolmente arso,
spento, attutito. Ogni notte le luci
del corridoio festeggiano rime
luttuose. Ogni strada c’inghiotte. Qualsiasi
strada c’inghiotte. La terra ascende quel
buio di siepe. Stanotte è venuto a
trovarmi il signore che ieri ci trasse
fuori dell’oceano errante che sboccia
nella voce. A volte bastano quattro
medicine e il fiorire acrimonioso
di due nenie che il martirio rispolvera,
fragrante e sperso, nell’occhio del muro.

* * *
Sai trovare le lettere incompiute?
Questa tormenta di crode. Un gran volo
di biciclette. Un cielo tutto calmo.
Mattino d’alleluia, e il suono avulso
del cavallo. Le stalle rosse cadono
sui tigli. Allora accordi le chitarre.
Questo tinnulo deserto c’invoca.
Sono le corse verticali dopo
la smania dolciastra all’orizzonte
che una pietra illividisce, ravviva
senza piaghe. Oh tu preso, accenni un giovane
saluto. Perché, pregando le stelle,
ci si commuove? Fiume lento lento
col cavallo portami alla foce. Poi
non c’è altro. Solo il colore, le fughe.

* * *
Salire dallo Jonio per scalee d’oro.
Salire fino ai margini spioventi
di una pietra. Si spera quasi sempre
tornando in guardia d’attesa. Trabocca
negli orti un solicello che, a rottami
di afrodite in cattura, germina nel
cespo d’alloro, nei ciuffi a scompiglio
di cervellaria e mentastro. L’intera
spianata s’incolonna. Autunno è linfa
negra, è seme biondo di pioggia. Adunche
vene templari. I globi accesi, i globi
chiusi nei ghiacci musivi dei colli.
Misuro in leggerezza e tepore ogni
lingua di lebbra che qui entrò per sciogliere
gli spazi perenni di un cuore troppo
salubre. È un mattino. E lenza e tramaglio
fanno già pescatore, fanno terra
sacra al bosco di Mercurio. Ah quei peli
sull’orlo dei polsi, quei velli a macchia
d’incenso. Dov’è la ferocia inerte
dei cori? E l’efebica luce senza
dono dell’insonnia? Un po’ più oltre sorge
Torremozza dove cerco ogni volta,
perversione di un linguaggio che a stento
risana, la tua maschera guarita.

* * *
La tenera esistenza di una foglia
gronda di nebbie disciolte. È un continuo
trasalire. Ma sfacendosi il muto
viaggio specchia se stesso nel tuo libro
più opaco. Cripta in cui dolorano le
chiare vertigini del cielo. Eppure
lontano, superato il velo, morde
l’insicuro, flessuoso giunco, morde
quel trascolorare di nodi rotti
dall’arso gelo del nostro abbandono.
Perché, radici, nascondete all’uomo il
vostro cielo? Perché, votate al buio,
conoscete voi solo il mistero del
fiore, l’incenerirsi del frutto? Ogni
frammento di zolla, ogni dolce eco di
primavera conserva sotto il grembo
d’una soleggiata collina un caldo
segreto. Quali origini s’inchiodano al
frutto? Quali chiodi avranno pietà
del tuo muro? Così mi riapro. E queste
certezze, solo queste certezze mi
resteranno. Una domanda, il suo secolo.

* * *
Torremozza, notte

Ma il vento piega l’erba sul nome dei
morti. Ma il vento piega le pietre sui
ricordi. Subitanea fronda che sciogli
l’oscura pazienza dell’acqua, annega.
Lascia che io cada nel remeggio scabro
dell’eliotropio. Chi si apra un rimorso
greve. Perdo le foglie, il catino in cui
raccolgo il freddo piovano. Silente,
monotono sangue dove a piombo mi
catturano seguendo il tempo marcio
del vuoto. Il giardino è deserto. Resta il
bar, col suo cactus giallo. Abisso, vattene
col primo uccello che in grembo porta ogni
volere. Quando varco le scale mi
tradisce perfino la morte. Presto
giungono menzogne. Supereranno il
mio cadavere. Come fanno loro,
menzogne caute, a nutrirsi di foglie?

(Ospedale psichiatrico, Policoro, settembre 2010)

*
Torremozza, sera

Si disfece l’orlo. L’acqua mutevole
guardava il mio pigiama. Stavo dietro
la rete del cancello ma sentivo
le barche ioniche solcare il mio petto.
Stavo fermo nell’abbraccio. *È crudele il
ricorso, è crudele la memoria.* Dico
spesso all’epopea del vento il mio gelido
rosario. Ore imprigionate. Mi sono
presto intessuto di brividi. Crebbero
le voci. Il canneto lacerò il segno
del mio passo. Vidi la tigre. Vidi
tante belve. Erano chiare. E guardavano
dal folto l’orizzonte che a est il tramonto
rendeva inerte. Andai verso le mie ombre.
Questa nuova solitudine vuole
che io sia suo per sempre. Compresi il vortice.

*
Torremozza, pomeriggio tardo

Quando i violini cesseranno andremo
lungo la spiaggia a bagnarci la fronte.
Ci sarà un gran sole. E le foglie cupe
già volteggiano all’ingresso di Venere
nel mandorleto argentato. Facciamo
tutto il viale. Approntiamoci alle stelle.
La sabbia morta, le ginestre morte,
le barche morte. Anche noi siamo morti.
Vedi, Carlo, se ti tocco non senti
dolore. Questo vuol dire che anche tu
sei sparito. Un calloso nubifragio
farà affondare le stalle infette del
lido. Avremo criniere a protezione.
Gli ombrelli li abbiamo rotti uccidendo
le mosche. Giochiamo a inseguirci. Perdo
gli zoccoli se corro. Guarda il cielo.
Si fa pieno di ali e chiome il battente
del paradiso. Il campo di bocce ora
non possiamo vederlo. Anche lui è morto.

(Ospedale psichiatrico, Policoro, settembre 2010)

*
Torremozza, pomeriggio primo

La tua mano nei miei lunghi capelli
fiorisce. Abbiamo paura del silenzio.
Porta valanghe. E queste medicine
si sono sciolte come liquirizia
nel pattume d’argento in fondo al viale.
È strano: ma nel pattume ci sono
grandi cose sgargianti. Un fumo lieve
spegne le ansie. Le pareti anneriscono
lo sguardo. Accendi le tue dita, Rosa.
Basta una pietra e ne nasce un gran fuoco.
Bruciamoci la testa. Perché pungono
l’estremo del cranio? Noi vorremmo che
tutta questa gioia penzolasse. Ora
gli orli bianchi del cielo. Abbiamo paura
di Dio. Un bel nome così lo metto a mio
figlio. Nascerà sapiente. Ma l’albero
che abbiamo visto crescere nel pane
sembra discorde. Potremmo fuggire.
Novasiri. Laggiù, i monarchi di ogni
rumorosa sete ci diranno: tu
sarai il travetto, la ruggine e il chiodo.
Tu le braccia del pavimento che, è ovvio,
sta in alto. In chiesa Don Piero, sotto il
nostro muso sporco di briciole di
grano, parlerà del veleno che unse
l’occhio. E il tempo. E il ciborio di cristallo.

(Ospedale psichiatrico, Policoro, settembre 2010)

*
Torremozza, mattino tardo

Ci sono legni sepolti in giardino.
Le statue chiudono a zonzo il cammino
di ogni luce. La luce si converte
dove nulla scompare. Alle spalle quel
turbine, quel soffio, il dritto, astuto
mancamento. L’attacco dell’Egeo qui
si ramifica. È nel tempo che vedi
la tua sorte sfilacciarsi da ogni fibra
di rovere e zinco. La voce stride.
Ritmica parvenza di chiuse porte.
Tu, spettralità immanente. Rosa, il tuo
pianto è freddo. A ulteriore bivacco ce
ne andremo. L’estate spaventa. Guarda
questa bufera di unghie. È un lamento di
cutrettole. È l’ansito eterno. È ciò
che abbiamo veduto morire sotto
l’asfalto. Nostre sorde volpi. Quante
fra gli abeti. Sostiamo alle vetrate.
C’è la slitta. Il campanello risuona.
Carlo così si diverte. Rapisce
lampade, volti, bottiglie. La mia ombra
chiede una morte. Una morte che sorge
nel ferro dei tavoli, in fondo ai bianchi
letti pesanti. Il simbolo di questa
passeggiata è un pegno. Immoto e fuori mi
trovo. Qualcuno ride. Del nostro attimo,
trasceso all’impotenza se Dio è un luogo.
San Mauro Forte, settembre 2010

*
Torremozza, mattino primo

Sgrani gli occhi, Rosa alpina, Rosa
bruciata. Stringi più forte il tuo corpo.
Saresti un ragazzo malato e, dunque,
senza ciglia. A Torremozza vedremo
le osterie illuminate per la festa
dei morti. Carte gialle. Il tuo scrivano
rompe la ferrea luce incantata. Ora
l’alba è in rivolta. Andiamo. Questa nostra
nausea stupita. Tutte le trombette
di Natale. Non danno vino né unte
frittelle. Conta quanti chiodi porta,
quel forestiero, sotto le scarpe. Ore
di visite. Ore di alti necrologi.
Qualunque volto batte contro il nostro.
Radio verdolina, cosa offri in coro?
La bestemmia del ghiacciaio. Il pregare
del velluto che scende giù dal cielo.
Siamo in festa, Rosa bruciata. Credo
tu abbia ragione: sfregiarci, ingoiarci.
Ci stanno inghiottendo le maschere dei
salici. Vedi quante ce ne sono
confitte nei rami. Oh sonnolento, cauto
ritornello di nuvole. Quaggiù chi
risponde si illividisce. Fioriture,
fioriture. Varchiamo i mercati. E poi
poterlo fare, noi che siamo chiusi
nel muro, nel cancello, nel tuo forno
che quella volta non ha funzionato.
Ne sento le vampe. E la sigaretta
sciacqua le palpebre viola. Oh la stanza
pusillanime, arretrata, riottosa.
Vorresti errare. Blocco di ghiaccio. Opera
mortale. Scava, scava, scava, scava.
Le tue mani rosse, la mia faccia ocra.
Lo Jonio pettina l’aurora, urlano per
farci stare meglio. Vuoti rami. Su
vuoti rami verdi elenchiamo i nostri
quadri pastosi, elenchiamo i tributi.
Ma l’illusione sospende le croci.

***

Costruzione del nodo

a Rosa Polidoro

Ti porto le azalee dei ciechi, Rosa.
Ti cerco dietro i cancelli ma il volto
bruciato appare solo a tratti: È un golfo
di nomi la tua voce. È un silenzio che
la casa vede afflosciarsi in mezzo alle
tende. I loggiati spenti. Sarà stato
verso il tramonto. Infilare la testa
nel forno. Irreale fiammifero che ordina
presto la sua notte. Fuggi anche il breve
santuario di Stigliano. Fuggi l’onda
grigia del pianto e, ritraendosi, anche la
pietra tentò di svenire. L’odore
del gas. Com’è buono quando offre salme
di nebbia. Mai sapremo ciò che in fondo
vogliamo dire. Ma una cosa è certa:
sfracellarsi. Già specchiarsi nell’uovo
di lana. Già restare chiusi, come
giardini sfollati, nell’ematoma
dove un cielo assorto sfugge a una buia
corazza che, nel tuo caso, era un dolce
pigiamino rosa. Gli occhi sporgenti,
le guance irrise come se ogni varco
di miseria fosse stato il nostro. Ma
piegarsi in così tanto fumo. E accendersi
la morte prim’ancora che il tabacco
gelido spiumato del primo giorno
di sequestro. Poterti rivedere
proprio ora che sto curvando il maldestro
labirinto, proprio ora che Orfeo è uscito
dagli inferi calmi e quieti del sonno.
Resti un ricordo fuggitivo, quasi
come quel bambino tedesco o ceco
visto sulla spiaggia del Lido, un secolo
fa, a Venezia. Ne ho letto il rendiconto.
Resteremo adolescenti nel corpo
sporco del fiato. È naturale. Siamo
sporchi perché l’ozioso dramma di ogni
malattia rende corruttibile anche
l’essere stati verticali e osceni al
punto giusto. Il dagli all’untore. Il fosco
siparietto sudaticcio. Il teatrale
compimento di ogni materna azalea.
Te li compro. Purché io torni bambino.
Purché tu infili nuovamente il cranio
nel forno. È una preghiera inaccettabile.
Resta il dubbio se è liquido l’infarto.
Se poi avremo tempo di provare anche
senza ritorno le follie del cappio.

(San Mauro Forte, settembre 2010)

* Le parole tra gli asterischi sono da intendersi scritte in corsivo.

 

 

APPENDICE

KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA

* Recensione di Giuseppina Di Leo

Nella prefazione al volume Il dono dell’occhio di Alfonso Guida (San Mauro Forte, 1973) Maria Grazia Calandrone esprime con parole di affetto il senso della sua amicizia con il poeta: «Ora Alfonso si è fatto uomo, ha preso il posto del padre. E ha smesso la pena esclusiva per i propri fantasmi, ha liberato l’occhio. Tutta questa poesia è stata compiuta nel solo mese di settembre: adesso. Ancora oggi rifiuta di imparare a usare il computer e costringe i suoi lettori ad affrontare certi suoi quadernetti in verità molto ordinati. Non dico questo per folklore ma perché le cose della sua vita sono gli oggetti poveri e profondi della sua poesia.»

Alfonso Guida ama la vita fino a raschiarne il fondo. Con la sua poesia ogni essere (uomo, animale o pianta) viene restituito ad un senso primordiale, di origine e fine. Gli elementi della natura offrono chiavi di lettura di una realtà a volte ostica, a volte comprensibile solo attraverso la loro enumerazione, un esercizio lento, teso a decifrare l’epifania di un evento percettibile appena. Allora l’occhio del poeta s’insinua tra le pieghe della terra scavando tra radici di alberi o nei reconditi accessi del vento. E la terra, che gioca al suono dei nostri passi, è un essere vivente di cui è possibile avvertirne l’alito, fino a lasciarsi sedurre: «Giunsi, / due volte alla tua bocca, quasi errando. / Perché in fondo era vero: attraversavo il / tuo odore di olio e frumento, in silenzio» (L’insonnia, il pomeriggio).

Se la morte è un richiamo costante, altrettanto luttuosa è l’attesa: il dolore che il poeta guarda e ascolta non partecipa del ‘suo’ dolore, anzi lo separa dalla vita con un taglio preciso, relegandolo in un ospedale psichiatrico. Ma il poeta non cerca riparo alla sua nostalgia, anche se qualcosa dentro di sé lo porta a  dire: «Gesù, guariscimi / da questa violenta nostalgia che ora / mi persegue, mi addita, mi perseguita…» (Terra che al primo cielo), nella ricerca di un ‘dove’ che coincide con il luogo della preghiera, la Gerusalemme ancora da raggiungere.

C’è poi il mare, lo Jonio, così vicino eppure lontano, come può esserlo una speranza: «Salire dallo Jonio per scalee d’oro. / Salire fino ai margini spioventi / di una pietra. Si spera quasi sempre / tornando in guardia d’attesa. […] Un po’ più oltre sorge / Torremozza dove cerco ogni volta, / perversione di un linguaggio che a stento / risana, la tua maschera guarita» (Salire dallo Jonio).

Il mare e Torremozza sono due componenti della vita del poeta: l’attesa e la malattia, la guarigione e la voglia di rinascere.

Il viaggio è una certezza spaurita di ritrovarsi più veri, a patto però di perdersi: «… Si è più veri nel deserto. …» (Così ai bivi). È il limite severo e intransigente di una verità dura come una prigione da sopportare, un trasalire del cuore che non ha lasciato il corpo, è l’occhio che guarda fin dove la vita si nasconde. E tuttavia, in tanto dolore nasce la sua poesia. Una poesia in cui manca quasi del tutto un ‘io’, c’è piuttosto una seconda persona, un ‘tu’, in una sorta di estraniamento. Ma non c’è liberazione, a volte un io dolorante e stanco si svela riflesso nelle molteplici domande (Le urla atterrite) e il poeta semmai attende che si compia la metamorfosi distruttrice che lo possiederà (La Tirannide); nel frattempo, prima che ciò avvenga, c’è tempo per osservare e indagare ogni essere avendo come sola compagna la poesia. Nella dimensione del non-io, l’io poetico è il mondo esterno che possiede il dono della parola con la quale giustamente il poeta può interrogare le cose del mondo (gli uccelli o i fiori) lasciando che esse si esprimano, succede allora che un suono o un albero spoglio hanno pari diritto di parola.

Non manca il ricordo, spesso avvertito come un richiamo verso un tempo presente da serbare nella memoria (Dimenticare ogni speranza),  che gli fa dire un nitido *amo i viali*, come a voler racchiudere in esso tutto il tempo.

Il verso si scioglie passando di voce in voce come da sogno a corpo fluendo in un paesaggio quasi scuro, perso in «sassi fondi». Il gioco di consonanze, il *calembour*, lo scarto di lettera non sono giochi verbali: la parola non si presta ad essere un indovinello. Qui tutto è proprio come viene detto: il muto tace, mentre il «suono del burro / che frigge nel mio passo», non intende richiamare alcun suono di tamburo. Ciascuna parola è bastante per se stessa, in un non-senso apparente che scende fino a «rovistare / le fosse, le fosse che la terra apre / tra le robinie…» (Qui la luce). L’immagine del baratro è un tornare alle origini che richiama il grembo materno,  un passaggio che si direbbe obbligato verso una vita nuova, quanto a volte indesiderata  (Sul ciglio intriso di guazza).

Torremozza è il non-luogo per eccellenza. Ripetuto fino all’eccesso, fino all’annientamento della stessa parola nel periplo di un lasso di tempo smisuratamente scandito nel suo percorso di ore imprigionate. La lunga successione delle poesie dedicate a questo non- luogo si apre davanti ad un cimitero dove pure sono vere le tombe che il vento tocca e schernisce per oscurarne i nomi nei suoi giochi con l’erba o in quello che ne «piega le pietre». Torremozza è un luogo orribile, che non lascia scampo. Bastano due versi per comprendere: «… Questa nuova solitudine vuole / che io sia suo per sempre. Compresi il vortice.» (Torremozza, sera), due versi feroci e senza rimedio; ma non sono gli unici: «… La sabbia morta, le ginestre morte, / le barche morte. Anche noi siamo morti. / Vedi, Carlo, se ti tocco non senti / dolore. Questo vuol dire che anche tu / sei sparito. […] Guarda il cielo. / Si fa pieno di ali e chiome il battente del paradiso. Il campo di bocce ora / non possiamo vederlo. Anche lui è morto.» (Torremozza, pomeriggio tardo).

Una volta attuata  la condizione di annientamento, prende forma un dolore disumanante per restituire con le parole, se solo fosse possibile, la dolcezza che è mancata in vita all’amica Rosa Polidoro, morta allo stesso modo di Sylvia Plath.

Tante le domande, almeno quante le poesie, dietro un’unica certezza:* Dio s’impara in silenzio*.

Giuseppina Di Leo

KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA

* La recensione verrà inserita in uno dei prossimi numeri di L’arrivista – Quaderni democratici, di Ivan Pozzoni.

3 commenti

Archiviato in RICERCHE

3 risposte a “Alfonso Guida
Da “Il dono dell’occhio”

  1. emilia banfi

    Grazie Giuseppina per queste magnifiche poesie ricche di sensazioni dove la vita nasce lotta muore in una natura maestra e dura che insegna a vivere e a sopravvivere. Grazie anche per la recensione che rivela anche la passione per questo poeta. Infine grazie ad Ennio per questa scelta che ancora una volta ci spiega quanto non facile sia il fare POESIA.

  2. Via via che proseguivo nella lettura mi rendevo conto di farlo sempre più volentieri. Alfonso Guida non ci offre solo una testimonianza umana, di disagio e di vita, ma lo fa in modo struggente, con onestà e intelligenza ponendosi domande, notando, e scrivendo poesia in modo tale che andrà certamente salendo nel linguaggio, già ora se ne colgono i segnali. Ma è bello anche quando scrive “Facciamo tutto il viale”, o ” tuttew le trombette di Natale”, o in questi versi che forse dicono ancora meglio della sua sensibilità:
    “Già restare chiusi, come
    giardini sfollati, nell’ematoma
    dove un cielo assorto sfugge a una buia
    corazza che, nel tuo caso, era un dolce
    pigiamino rosa.”
    Trovo anche commoventi e bellissimi i frequenti riferimenti alla natura, credo che le poesie di Luigi Manzi dovrebbero piacergli.
    Grazie a Giuseppina Di Leo per averlo presentato, mi sento perfettamente in sintonia con questa scelta.

    • Annamaria Locatelli

      …la bellisima poesia di Alfonso Guida non é proprio quella di un il sopravvissuto, ma di un naufrago in attesa di soccorsi, vede intorno a sè i resti di un mondo scompigliato, che cerca faticosamente di ricucire; non ci spera molto. Abbandona l'”io” perchè sarebbe troppo doloroso vedere da dentro l’orrore del suo frazionamento, della sua solitudine, e cerca scampo nel “tu” a cui addita i relitti di quella che un tempo era la sua nave vagare nell’oceano…qui le emozioni di frammentati ricordi sono fortissime e devastanti, ma l’occhio nel caos salva immagini dolci e luminose: le vele rosse, il pigiamino rosa, le scalee d’oro dello Ionio…l’occhio che si rieduca alle cose, dopo un trauma spaventoso. La recensione di G. De Leo coglie perfettamente il nucleo della poesia di A. Guida, inoltre mi sono piaciute le due fotografie floreali, per la loro nitidezza, come si presenta l’occhio del poeta

Scrivi una risposta a Annamaria Locatelli Cancella risposta