Ennio Abate
Scrap-book dal Web (21-24 giugno 2013)

scrap mondrian2Camon – La Grassa – Luperini –  Giannuli – Butler – Marchese

21 giugno 2013/ Ferdinando Camon: ricordo di Andrea Zanzotto

http://www.ferdinandocamon.it/articolo_2011_10_18_AddioZanzotto.htm

“Tribuna di Treviso” e giornali collegati 19 ottobre 2011

È morto a 90 anni, e fu dunque esattamente 45 anni fa che, dalla stazione di Padova, mi telefonò trafelato: io corsi in auto, preoccupato, lui si aggirava per la sala d’attesa nervoso, e mi spiegò: “Quarantacinque non li aspetto più”. Era io giorno del suo 45° compleanno, e questo lo angosciava. Temeva il tempo. La morte. La fine. Il distacco. L’allontanamento. La velocità. La frase che riassume e spiega le sue molteplici paure, la pronunciò in un’intervista, per  dire come mai non era andato a  ritirare un premio, un grosso premio, in Sud Italia. Aveva preso il treno, ma a Firenze fu bloccato dall’angoscia. “Non andrebbe in aereo?” gli chiesero. “Mai”. “E come andrebbe?”, “Forse… forse in mongolfiera”. Capisco perché: la mongolfiera è lenta, non ha motore, è uno spirito volante, passa sul mondo come una nuvola: è la natura che ti trasporta. La natura: era la sua ossessione, il suo culto, l’alfa e l’omega della sua poesia. Andrea Zanzotto è il nostro poeta più universale, un poeta così grande che la nostra regione non lo merita. Quel che lui vedeva intorno a sé (il dolcissimo paesaggio collinare trevigiano, il “muscolo” del Piave, gli ossari, i vigneti…) diventava simbolo che spiega un’epoca, una condizione, una civiltà. Non è un poeta sperimentale, come spesso si dice. Il suo movente non era la lingua. Era la condizione umana, che sta alla lingua come il “big bang” sta al mondo. E già che ci siamo, lui metteva in dubbio che l’origine di tutto sia stato un “big bang”, ipotizzava che fosse meglio parlare di “big flash”. La differenza tra il primo e il secondo è che il secondo si offre alla contemplazione, quindi all’estasi. L’originario assoluto, ciò che è “proto” e che è “Ur”, non è un tuono che arriva dall’infinito e passa e non c’è più, ma è un lampo che acceca e sparge barlumi nelle infinità del cosmo: la poesia è la ricerca di quei barlumi, delle loro tracce, dei loro significati. “Ding” in tedesco vuol dire “cosa”. Zanzotto ha un verso, che piaceva molto a Giovanni Giudici, che dice: “Ding Ding: cosa, chiami?”. Le cose chiamano perché vogliono la nostra attenzione, hanno qualcosa da dirci, su ciò che siamo, che fu prima di noi e che sarà dopo. Ogni cosa in cui c’imbattiamo è simbolo di qualcosa che la trascende. La poesia è la rivelazione del nucleo metafisico che sta in ciò che vediamo e che sentiamo: a suo modo, Zanzotto è un poeta “teista”, se non vogliamo dire credente. Straziato fra la certezza di questa rivelazione, e la difficoltà di coglierla e consegnarla (la difficoltà di “dire”), Zanzotto è un poeta dell’impotenza, quindi della sofferenza e della malattia: lo si è spesso spacciato per poeta della psicanalisi, in realtà è il poeta della malattia di cui si occupa l’analisi (la malattia della lingua, per cui la lingua non riesce a dire). Questa malattia va sotto il nome ambiguo di “nevrosi”. La nevrosi non è malattia, ma fonte di malattie. E il nevrotico Zanzotto è stato malato per tutta la vita, di quel disagio psicologico che fa temere la presenza di tutte le malattie, ognuna confluente nelle altre. Al cuore. Al pancreas. All’intestino. Alle gambe. Alla gola. Una volta venne a casa mia, trovò in frigo tre fiale costosissime, di un cortisonico, che mi erano state prescritte dal prof. Sala, famoso otorino di Padova, per una interminabile infiammazione alla gola, e mi chiese se poteva prenderle. “Ma hai male alla gola?”, “C’è sempre qualche infiammazione in giro per l’organismo”. La mattina dopo mi telefona: se n’era fatta una. “Risultato?”, “Mi è cresciuta l’ansia”. L’ansia è la paura senza oggetto, se scopri l’oggetto l’ansia regredisce. Farsi un’iniezione senza sapere di avere la malattia per cui l’iniezione è pensata, vuol dire sparare in aria, non sul nemico. Una volta andai a prenderlo con l’auto per portarlo a un incontro. Dovevamo fare dieci chilometri, ci mettemmo due ore. Ogni chilometro voleva fermarsi, perché gli si “infogavano le gambe”, che è un’espressione che non significa niente, ma allude a tutto. Lui trovò il suo “ubi consistam” non nella (in una, in qualche) malattia ma nel “sentirsi malato”. Se c’è un “dolore di esistere” fu il suo, per tutta la vita. Esistere è una condizione infelice. “Esistere” vuol dire “star fuori, star lontano”. Lontano dall’essere. Se Zanzotto fosse stato un mistico (a modo suo, lo è stato), si potrebbe sentire il suo dolore di esistere come scaturito da una colpa di esistere, quindi come un’espiazione. Ma se avesse raggiunto questa posizione, avrebbe risolto il suo problema, perché sarebbe confluito in qualche religione: in realtà la sua angoscia risale a monte di ogni religione e di ogni “Dio”, storicamente inteso. Tentò anche l’analisi, a più riprese. Una prima volta quand’era “in età”, ma fece poche sedute, poi abbandonò. Veramente lui non credeva di abbandonare, credeva di aver finito. Dopo pochi mesi. Non sono il suo analista, e rischio molto tentando un’interpretazione: era convinto di poter avviare l’autoanalisi, che è, come si sa, l’unico modo in cui l’analisi finisce. Ma l’autoanalisi non è una condizione culturale, e non la puoi fare quando hai capito qualche meccanismo; è una condizione emozionale, e la puoi fare solo dopo aver raggiunto una tua catarsi. Così più tardi, alla fine della vita, roso dall’angoscia giorno e notte (non dormiva mai), ritornò in analisi, non so con quale esito. Forse in lui agiva il terrore che l’analisi, facendo regredire la nevrosi, facesse regredire anche l’humus da cui nasce la poesia. Poesia e malattia sono la stessa cosa. Molti poeti hanno questo terrore. Va con questo terrore la convinzione che la poesia sia figlia dei mostri, e che combattendo i mostri si danneggi la poesia. E’ un terrore ingenuo, ma fa parte del sistema che mantiene la nevrosi. Chiuso in questo sistema, Zanzotto usava la lingua non per dire, non per modificare, non per cambiare (se stesso o il mondo, che sono un’unica cosa), ma per confermare. E’ il poeta dell’immobilità, della stasi. In un’epoca di aerei supersonici, è il poeta della lentezza.  Tutto ciò che è naturale è buono e benefico, ciò che è artificiale è cattivo e dannoso. Zanzotto è il poeta della nostalgia. Del dialetto, del “petel”, delle stalle, del “filò”. Del paesaggio arcaico. Delle stelle cadenti. Del fiume, della neve (“alla, della perfetta”). Del lume a petrolio, che è stato soppiantato dalla luce elettrica, che vuol dire anche Vajont. Dell’eternità, non del tempo. Delle domande esistenziali, non sociali. L’esistenza sta-fuori e va verso il niente. Appena il tempo di cogliere i barlumi sparsi dal “big flash”: il flash continua, e noi siamo spariti.

22 giugno 2013/ Gianfranco La Grassa: Ci stanno mentendo su tutta la linea e ingannando sempre con l’economia, e la finanza in primis. Il problema è politico al 100%.

http://www.conflittiestrategie.it/fatterelli-ironicamente-di-glg-21-giugno-13

E allora perché si parla di attenuazione della crisi negli Usa, perché si cerca di enfatizzare la “bravura” dei decisori in questo paese (e, un po’ sottotono, anche di quella dei giapponesi pur essi tesi a iniettare liquidità nel sistema) nel mentre si è severi verso la UE, ma soprattutto verso l’iniqua Germania che la tiene a stecchetto con la dannosa austerità? Intanto non scordiamoci che questi stessi, che adesso fanno i “larghi di manica”, ci hanno rotto i…. timpani fino a pochissimo tempo fa con la solfa del debito pubblico, del deficit, dei conti in disordine, della necessità di tirare la cinghia perché siamo stati per anni e anni “cicale” e non “formiche”. I famosi dati dicevano il contrario: il risparmio delle famiglie italiane è stato sempre fra i più alti del mondo e solo negli ultimi anni, quelli dell’austerità, è cominciato a diminuire perché intaccato da necessità impellenti non più soddisfatte da un diminuito reddito personale. Questo fatto dimostra di per se stesso quanto mentitori e imbroglioni siano coloro che oggi straparlano di economia, di ripresa negli Usa, della crisi nella UE, della cattiveria germanica, ecc.

Il “mistero” si svela adesso con l’enfasi posta sulla creazione di una più stretta unione economica tra Usa e Ue, basata sul “libero scambio”. Di grazia, finora che cosa c’è stato, il protezionismo doganale? La scelta è tutta politica, soprattutto dopo il parziale fallimento, comunque una certa impasse, delle operazioni in nordafrica, in medioriente, ecc. E’ necessario che almeno la UE diventi un blocco monolitico con gli Usa (in totale spadroneggiare strategico nel nostro continente) per meglio opporsi alla Russia, che sta sistemando qualcosa nella sua situazione d’insieme; sia in quella economica sia in quella della solidità politica (non sono in grado di emettere giudizi sul problema della “struttura” sociale). Ecco allora che gli Usa – considerati il centro scatenante della crisi del 2008, interpretata come al solito in senso finanziario, cioè dovuta al problema dei subprime, dei titoli spazzatura, ecc.; si riesce infine a capire la dannosità e la subdola malafede di tutti i critici anti-statunitensi e del capitalismo in genere che sputano solo sulla dannosità degli apparati finanziari? – sono adesso trattati da paese guida nella soluzione o almeno nell’alleggerimento di detta crisi; nel mentre le istituzioni europee (a partire dalla BCE retta dal fedele “maggiordomo” dei predominanti d’oltreatlantico) fanno a gara per aggravarla e far sperare nell’unione stretta con quel paese.

Addirittura, si è straparlato (che fine ha fatto, poiché mi sembra passato di moda!) di un simil-piano Marshall di carattere finanziario (e ti pareva!). Buffoni; anzi peggio, svenditori del nostro continente, ecco il motivo di questa pantomima giocata sempre sul piano economico-finanziario, ma che nasconde ben altri intenti e propositi politici. E dato che ci sono, avanzo anche l’ipotesi che l’intenzione (quasi presa, ma non ancora decisa definitivamente) di accrescere la fornitura d’armi (e non solo) ai ribelli siriani faccia parte di un gioco per cercare l’uscita dalle difficoltà create dalla neostrategia del caos. Intanto, però, bisogna cristallizzare l’Europa in senso filo statunitense. Non mi perito ancora a valutare l’atteggiamento tedesco; non è facile decidersi in merito, pur se le battute dissonanti tra Obama e Merkel all’ultimo vertice G8 devono tenere desta la nostra attenzione. Sempre più chiara diventa invece la complicità (per viltà) del Berlusconi con le scelte della “sinistra” dei venduti (che a questo punto va presa nel suo insieme malgrado qualcuno faccia finta di differenziarsi; una presa in giro visto che il Berlusca continua ad essere bersaglio “immobile” della magistratura). Ci stanno mentendo su tutta la linea e ingannando sempre con l’economia, e la finanza in primis. Il problema è politico al 100%. Il multipolarismo comincia ad incidere.

22 giugno 2013 / Intervista a Romano Luperini: sei questioni

http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-dibattito-e-noi/interpretazioni/150-l%E2%80%99uso-della-critica-intervista-a-romano-luperini.html

Autobiografia e ‘68

Non direi che il 1968 sia stato il culmine della mia formazione culturale e critica che si completerà soprattutto negli anni settanta e ottanta, con la scoperta della psicoanalisi che allora ignoravo e la critica prima ai principi dello strutturalismo, poi a quelli della decostruzione e del “pensiero debole”. Certo subivo già la influenza dei miei due maestri antiaccademici, Timpanaro e Fortini. Il 1968 fu invece decisivo per la mia formazione politica. Per dodici anni, dal 1968 al 1980, la mia attività principale fu quella dell’agitatore e poi del dirigente politico. Oggi non sono un “pentito”. Vedo tutti i limiti di quegli anni e penso che il 1968 sia stato innovatore per molti aspetti (qualsiasi movimento di lotta e qualsiasi cambiamento importante del costume gli sono stati debitori nel quarantennio successivo), ma anche attardato sul piano politico: a livello teorico, i leader del 68 erano tutti eredi della III Internazionale (Lenin, Mao, Ho-chi-Minh, persino, alcuni, Stalin) o delle sue frange marginali ed eretiche. E tuttavia il ’68 fu un tentativo radicale di cambiare la vita, di praticare forme di esistenza comunitaria, di vivere nella pratica quotidiana lo stesso progetto comunista. 

La figura dell’intellettuale legislatore

 D’altronde quel modello era in crisi già alla fine degli anni Settanta, come Fortini capì appunto allora: Sciascia e poi Eco sono già figure diverse, esprimono piuttosto una forma di “americanizzazione” del dissenso, e cioè una testimonianza del tutto individuale ormai scissa da un movimento sociale di lotta e autorizzata solo da private scelte etiche e/o culturali. 

Fortini e Sanguineti sono invece rimasti fedeli a un modello che si stava esaurendo. Il più giovane dei due, Sanguineti, ha continuato a parlare di lotta di classe, di avanguardia e di sabotaggio della letteratura sino al momento della morte avvenuta pochi anni fa. In mezzo a tanti disinvolti voltagabbana che abitano il mondo della cultura, sia reso loro l’onore che meritano. Però essere intellettuali oggi, continuare a impegnarsi all’interno delle contraddizioni attuali, comporta la ricerca di strade nuove. Non c’è spazio qui per dimostrarlo come sarebbe necessario. Ma su questo punto rimando a un mio libro di saggi che uscirà in autunno presso l’editore Quodlibet e che si intitola La condizione intellettuale e la critica letteraria.

 Crisi dell’italianistica

Altre discipline umanistiche, come la storia e la filosofia, hanno saputo rinnovarsi, l’italianistica no: è rimasta abbarbicata a un modo erudito, accademico, microfilologico di leggere la tradizione. Anche la letteratura inglese in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ha conosciuto un momento di crisi, ma ha resistito grazie a profondi rinnovamenti riguardanti il canone e i modi di approccio al testo (i cultural studies e il neostoricismo, pur discutibili in alcuni assunti, sono andati in questa direzione). Penso che senza una visione comparatistica ed europea del canone nazionale, senza un rinnovamento della critica in senso antropologico e, con qualche prudenza, tematico, senza una apertura alla teoria della letteratura, l’italianistica sia destinata a perdere la sua centralità e a ridursi, nella società e nell’insegnamento, a un rango marginale.

La letteratura nella scuola d’oggi

Anche nelle scuole medie superiori non è più pensabile uno studio della storia letteraria con tutti i suoi snodi, i suoi movimenti, i suoi medaglioni. Bisognerà rivedere radicalmente il tradizionale metodo storicistico, puntare sulla lettura di pochi classici e rivedere il canone scolastico. Nel Seicento, per esempio, basterà Galileo, nel Settecento Goldoni. Non ha più senso, nel mondo di oggi, conoscere Parini o Alfieri, che non hanno visibilità europea, e ignorare invece Sterne, Goethe o Rousseau, conoscere Carducci ma non aver mai assistito a un dramma di Shakespeare.

Sul saggio

 Il saggio è un genere letterario: si basa sulla forza dello stile, sulla intelligenza della osservazione e sulla cultura personale dell’autore. Non sulla sistematicità e sulla oggettività “scientifica”. È un prodotto originale, impossibile senza un lavoro artigianale sul linguaggio, e senza una volontà suasoria. Presuppone una società civile, un dialogo allargato, un interscambio culturale. Oggi è ormai sostituito dall’intrattenimento giornalistico e dallo studio accademico. Il primo si rivolge alla massa indistinta, il secondo a una cerchia limitata di “esperti”. Sono agli inizi forme nuove, talora interessanti, di comunicazione attraverso internet (blog, riviste on line ecc.). Probabilmente sta nascendo un modo nuovo di fare critica, di riflettere in pubblico ecc, ma non si tratta di saggistica come l’abbiamo conosciuta nel corso del Novecento (anzi, per ora, prevale un approccio egolatrico ed esclamativo, impressionistico e narcisistico).

23 giugno 2013/  Aldo Giannuli: Spiati con la scusa del terrorismo e della lotta agli evasori fiscali

http://www.aldogiannuli.it/2013/06/il-caso-snowden-ed-i-suoi-insegnamenti/#more-2923

Da circa venti anni sono andate crescendo nuove tecnologie che permettono di raccogliere e stoccare a tempo indeterminato immense masse di informazioni, che sono riproducibili in pochi secondi con procedure semplici e poco dispendiose.  Qualche tempo fa ho fatto un piccolo esperimento, raccogliendo, per un anno, tutti gli scontrini di spese, ricevute Bancomat e carte di credito, operazioni bancarie, domande ad enti pubblici, accertamenti sanitari, pratiche fiscali ecc. ho anche contato tutte le mail e gli sms che ho mandato ecc. ed ho scoperto di aver emesso una informazione almeno 1 volta ogni 13 minuti secondi, compresa la notte (tenendo conto delle molteplici informazioni contenute, ad esempio, in un semplice scontrino del supermercato). E questo senza tener conto delle informazioni continuamente trasmesse dal cellulare, dall’Ipad ecc., che localizzano in ogni momento dove siamo e dicono i contenuti dei messaggi che scambiamo e con chi.

Tutte queste informazioni sono rigorosamente registrate presso qualche server che, in teoria, dovrebbe distruggerle dopo 5 anni, ma nessuno può controllarlo. Peraltro, il server può anche distruggerle, ma se qualcuno se ne è impossessato apertamente e legalmente o meno e le ha copiate, noi non lo sappiamo ed esse possono sopravvivere per sempre.

Al fine di raccogliere notizie su una persona, è come se, per osservare un qualsiasi organismo, fossimo passati dalla lente di ingrandimento al microscopio elettronico. E tutto questo, per di più a costi irrisori, almeno per quanto riguarda la riproduzione e l’immagazzinamento dei dati: sembra che il sistema Boundless  (alla base di questo “scandalo”) abbia la capacità di acquisire 3 miliardi di pieces of intelligence al mese e nel solo mese di marzo, i sistemi  americani collegati a Boundless hanno incamerato qualcosa come 97 miliardi di pieces of intelligence evidentemente attinti anche allo stock precedente. Il tutto a costi assolutamente stracciati. A tutelare la privacy dei cittadini dovrebbe provvedere la legge,  imponendo certe regole di comportamento per i gestori e penalizzando chi cercasse di impossessarsene. Ma queste regole non hanno alcuna efficacia nei confronti dei servizi di informazione e sicurezza, il cui compito, appunto, è quello di raccogliere informazioni anche con procedure illegali: diversamente non ci sarebbe ragione di opporre il segreto di Stato alla magistratura. Dunque, abbiamo un soggetto che ha l’interesse, i mezzi ed il modo di ottenere tutte le informazioni che crede dai server. Anche perché, l’opportuna emergenza antiterroristica ha fornito i mezzi legali per poterlo fare. E questo non è stato fatto solo negli Usa: il governo Monti ha autorizzato i servizi italiani a fare cose del genere in nome della lotta all’evasione fiscale. C’è sempre una emergenza  in nome della quale poter fare quello che più fa comodo. Quella massa di informazioni, debitamente trattate con dei programmi informatici di potenza adeguata consente di: spiare gli altri paesi per realizzare un fortissimo vantaggio politico e militare, osservare e condizionare il gioco in borsa, prevedere le tendenze del mercato, essere preavvertiti dei sommovimenti sociali in arrivo, identificare ed isolare le aree di opposizione sgradite, cedere grandi quantità di informazioni di interesse commerciale ad imprese economiche in cambio di adeguati compensi monetari, turbare gare d’appalto, condizionare gli equilibri fra le valute eccetera eccetera. Insomma si possono fare un mucchio di cose rispetto alle quali la lotta all’evasione fiscale o al terrorismo sono l’ultimo pensiero.

24 giugno 2013/ Judith Butler: La complicità del soggetto con il potere

http://www.leparoleelecose.it/?p=11006

Esce in questi giorni la traduzione italiana di The Psychic Life of Power : Theories in Subjection di Judith Butler (La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di Federico Zappino, Mimesis 2013)

0gni soggetto è sempre compromesso con il potere che lo assoggetta. Questo circolo virtuoso di collaborazione, spesso inconsapevole, si crea nella contiguità e nella mutua reciprocità tra universo psichico individuale e universo della cultura condivisa. Universi che creano una dimensione comune, senza soluzione di continuità. 

È opinione condivisa che il potere crei le persone in senso letterale. Foucault collega il carattere formativo, o creativo, del potere ai regimi regolatori e disciplinari: in Sorvegliare e punire, ad esempio, egli illustra in che modo la regolamentazione del crimine generi una categoria di criminali che la carcerazione modella poi fisicamente nei gesti e nel modo di porsi. Come intendere, tuttavia, questa concezione di produzione e di modellamento? Propongo in questo senso di non intendere questa dimensione formativa del potere né in senso meccanicistico, né in senso comportamentistico. Non sempre infatti il potere crea “avendo in mente” un obiettivo, o per meglio dire, la sua attività creativa spesso eccede, o addirittura modifica, gli obiettivi in funzione dei quali crea

Il tentativo di portare alla luce l’effettiva esistenza di abusi del potere, e non invece la creazione o fantasia del soggetto, conduce di frequente a collocare il potere nettamente al di fuori del soggetto, come se fosse qualcosa di imposto contro la sua volontà. Tuttavia, se la creazione stessa del soggetto, e dunque anche la creazione di quella volontà, rappresentano le conseguenze di una subordinazione primaria, allora appare invitabile la vulnerabilità del soggetto rispetto a un potere non di sua fattura. Questa vulnerabilità identifica il soggetto in quanto essere suscettibile di abuso. Per opporsi agli abusi del potere (che non significa opporsi al potere stesso), una saggia mossa potrebbe consistere nel tentare di indagare sulla natura della nostra vulnerabilità rispetto a tali abusi. Che i soggetti siano fondamentalmente vulnerabili, infatti, non può giustificare gli abusi che essi subiscono. Tutt’altro: evidenzia semmai maggiormente l’importanza di questa vulnerabilità.

E dunque, perché il soggetto può subire un abuso? Perché è vulnerabile alla sottomissione in virtù della sua stessa formazione? Obbligato a cercare conferma della sua stessa esistenza in categorie, definizioni e nomi creati da altri, il soggetto cerca tracce della sua esistenza al di fuori di se stesso, in un discorso che è, contemporaneamente, dominante e indifferente. Le categorie sociali rappresentano un segno di sottomissione, così come di esistenza.

24 giu 2013/ Franco Marchese: Tablet al posto dei libri?

http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/la-scuola-e-noi/scuola-e-universita/151-il-grigio-e-il-nero-paradisi-digitali-e-inferni-quotidiani.html

Se le cose stanno così, assecondare un processo che presenta molti elementi incogniti, o – detto più esplicitamente – di rischio, è una vittoria da sbandierare («Libri cartacei addio») o un caso lampante di “intelligenza con il nemico”? Intelligenza con il nemico, sia ben chiaro a scanso di facili accuse, tra molte virgolette. Non sarebbe molto più ragionevole, piuttosto che cavalcare la tigre informatica (e se questa tigre si rivelasse, per il più sornione dei paradossi, di carta?), cercare di governare i cambiamenti, mediare tra antico e nuovo, assumendo da ciascuno di essi quanto di meglio possano dare senza procedere a demonizzazioni sommarie che oltre tutto hanno motivazioni risibili (si rilegga l’explicit del comunicato del MIUR, da cui si evince che la funzione della scuola è, nella migliore delle ipotesi, quella di migliorare «il livello delle competenze digitali dell’intera popolazione italiana», nella peggiore, quella di alleggerire gli zaini degli studenti: un programma entusiasmante, non c’è che dire, capace di riscaldare i cuori di tutti i docenti). Forse i nostri studenti hanno bisogno di più carta e meno computer (quelli, grazie al dio dell’informatica, fuori dalle aule impazzano); forse la scuola, senza parlare la lingua dei morti, deve assumere come compito primario quello della salvaguardia della complessità e della profondità, ponendo un argine al folle volo orizzontale che il web consente, autorizza e santifica. Un mondo semplificato è un mondo povero, in cui forse sarà più facile pagare on line una multa, ma infinitamente più difficile gestire le criticità. La crociata semplificatoria non è neutra: ha come esito una società rimbambi(ni)ta in cui, mentre tutti discettano di tutto – dall’economia, alle architetture istituzionali, alla malacologia – senza avere i requisiti minimi per farlo, pochissimi nel rumore di fondo generato da questo incessante parlottio, silenziosamente esercitano un potere che trasforma i cittadini in sudditi “semplificati” e contenti. “Semplificati” e anestetizzati.

 

129 commenti

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129 risposte a “Ennio Abate
Scrap-book dal Web (21-24 giugno 2013)

  1. Giorgio Linguaglossa

    Zanzotto è il più grande poeta italiano del Novecento se chiudiamo la poesia del Novecento nella griglia della poesia dell’impotenza del significante; di qui la parentela (filologica, semantica e filosofica) tra il significante e il sintomo in psicanalisi: ecco perché il significante è in perenne instabilità e movimento, perché è affine e corrispondente al sintomo, anche esso è in perenne instabilità e movimento; la stessa sindrome di ansia esasperata di cui era affetto Zanzotto era anche la condizione ideale per il sorgere e lo sviluppo della sua poesia (ma ne è stato anche il suo maggior limite), la quale si costruisce come un castello di carte nell’atmosfera della sillabazione emotiva ed emozionale alla ricerca della stabilità delle “cose” (das Ding). Ma la poesia di Zanzotto è stata condannata a non raggiungere mai la Cosa (das Ding); è una poesia dell’impotenza semantica a porci nelle condizioni di non attingere mai le Cose. Il problema, complesso e frastagliato, e ha investito tutta la cultura dello sperimentalismo e del tardo Moderno. Adesso, finalmente, ci si è liberati della poesia di Zanzotto, la quale sarà studiata e notomizzata dai glottologi e dai filologi. Dico “finalmente” perché è necessario andare oltre Zanzotto, è necessario invertire la rotta: esattamente al contrario: DALLA COSA ALLA PAROLA e non dalla parola alla cosa. È questo il punto, credo. Ricominciare daccapo con i termini del problema del tutto rovesciati. Nella cultura dello sperimentalismo quell’equazione (Zanzotto=poesia del significante) non era risolvibile; nella cultura del post-sperimentalismo, o del Dopo il Moderno, occorre ribaltare i termini matematici e filosofici del problema.

  2. ro

    Visto che il piatto piange, raccolgo in questo contesto di “gruppo” ( di gruppo di ricche letture) , l’invito fatto da Ennio nel suo ultimo commento. Mi esprimo per prima (e ultima fra dispari) nella speranza che altri (tecnicamente e non più “poeti” di me) si facciano avanti…

    come fare “gruppo” di fronte a un “gruppo” così assortito di letture?
    preferisco farmi questa domanda , rispetto a quella solo momentaneamente sospesa , sul “miniseminario” lanciato da Ennio in occasione dei video proposti da M.Corsi attorno a Scotellaro.

    La preferenza verso questa domanda preliminare è data dalll’ascolto di un certo tipo di silenzio, che si verifica ogni qualvolta è richiesto al lettore ( poeta o meno) di questo spazio una marcia poetica politica in più rispetto ala contemplazione o alla interlocuzione sui testi.

    Il silenzio che avanza ogni volta che non si appalesi la proposta strictu sensu poetica, è qualcosa di cui vale la pena “parlare”? A che pro? per seminare qualche vago senso di gruppo? Per affrontare il dolore di un mondo perduto?
    Conoscere fino al penultimo frammento (ultimo sarebbe troppo definitivo per il senso autentico della ricerca) il fine ultimo di chi ha ottenuto il vantaggio di questa perdita, forse, ricostruisce un vago senso di gruppo fra pari e dispari. Del mondo perduto c’è sicuramente chi vi si è aggrappato con il linguaggio e i suoi limiti descritto da Linguaglossa per Zanzotto, tanto come c’è chi crede che il modello unico del progresso lo abbia sostituito egregiamente, ancora cieco della storia e di ogni truffa sulla liberazione (vedi aktra lettura proporsta da Ennio con La Grassa).

    In realtà il pensiero unico imperiale, che tocca e monopolizza anche il linguaggio (non) parlante poetico, è sempre piu vischioso, in quanto anch’esso molto liquido per penetrare i segmenti/ceti tanto che siano di destra , sinistra o alternativi.

    la conoscenza del mondo perduto e del (non) mondo attuale, permette di comprendere il monopolio culturale con cui l’impero ha realizzato le sue false promesse di liberazione… fino a che i suoi sudditi, fra cui per primi i poeti, non si riapproprieranno della sovranità della propria storia, in ogni sua lacrima, sarà dura distinguere per loro la farsa di una rivoluzione (s)colorata da una vera…credo che per il desiderio di Ennio sul fare gruppo, sia essenziale il desiderio piu generale e anche molto semplice (da cui hanno infatti ben sradicato ogni uomo) di ritrovarsi insieme uscendo da un formato unico (e tuttavia multiforme, quindi piu insidioso, ad hoc studiato dall’impero per confondere e mettere nel caos ottenendo il massimo dai diversi segmenti di mercato). Quanto può reggere un format per cui al posto del letto della madre, su cui Scotellaro urla di essere portato, è stato messo il vuoto, riempito di canucci di plastica… pupazzi che ti vendono di tutto , rigorosamente “senza limiti”…come l’impero.

  3. ro

    ps per Ennio
    accolgo con piacere il tuo invito sul miniseminario. Questo spazio , rispetto ad altri, non mi dà la brutta sensazione del virtuale reality mondo.

  4. emilia banfi

    Certo i pensieri e le parole di Rò ed Ennio fanno pensare e riflettere, ma non è che pensare troppo può anche deformare quella parte a volte molto semplice del senso della vita?

  5. Ennio Abate

    @ Banfi

    Riemerge nelle parole di Emilia il pregiudizio antintellettualistico e antifilosofico. Ma davvero oggi pensiamo troppo? E siamo – noi che parliamo su questo blog – nelle condizioni materiali per godere di questo “lusso” che una volta si potevano permettere solo gli aristocratici?
    Io mi porrei piuttosto un altro problema: se pensiamo bene, se cioè non confondiamo il pensare con operazioni ( elucubrazioni, affabulazioni) che sono un surrogato scadente del pensare.
    E poi ,maliziosamente, visto che Emilia fa spesso l’elogio dell’amore e dell’amare, le chiederei: non è che amare troppo può anche deformare quella parte a volte molto semplice del senso della vita? (Ammesso e non concesso che il senso della vita a volte sia semplice…).

    @ ro

    Il miniseminario (virtuale, cioè tramite posta elettronica, perché ritengo improbabile che si possa formare un gruppo che si riunisca fisicamente in una città; e che non può svolgersi sul blog) su Rocco Scotellaro (e il senso che può avere la sua figura e quel “mondo remoto” per i cetomedisti d’oggi) potrebbe avvenire in questi termini:
    1. le persone interessate danno la loro adesione scrivendomi a:
    moltinpoesia@gmail.com;
    2. ci coordiniamo in un gruppo di lavoro che si scambia le sue riflessioni partendo dal documentario su Scotellaro (al link indicato);
    3. la sintesi di letture e ricerche varie verrà pubblicata al momento opportuno in un post.

  6. ro

    @Ennio
    ok, perfetto, ti farò avere, via mail, le mie riflessioni.

    @Emy
    Emy cara, non stavo parlando solo con Ennio, spero. Non dico questo per darmi importanza rivolta a più interlocutori. Mi spiace inoltre negare , solo per una parte, ciò che hai definito come “pensare”. Non neglo che occorra pensare, ma il desiderio a cui mi riferivo stamane (che credo sia anche un desiderio poetico) è relativo a un verbo di “azione” preliminare al pensare, ed è il conoscere e il conosci te stesso. Non credo che sia mai troppo come anche il successivo pensare, che forse se diventa tale è saper pensare, in cui la quantità , poco o troppo et cetera, non ha rilievo. Conosci te stesso significa sapere da dove si è arrivati, dove si è o non si è, dove si sta andando e anche dove no. Conosci te stesso corre parallelto fra la biografia del singolo o individuale, e quella più ampia, più plurale…la storia nella Storia ( o nella/e sua negazione). Questo puzzle, – fatto di passato “remotissimo”, “imperfettissimo” presente e anteriore, troppo anteriore futuro – è infinito e infinito desiderio di “conosci te stesso”.

  7. emilia banfi

    Si ama . Non si ama troppo. Spesso il pensiero deforma tutto anche l’amore. Nell’attimo sta il segreto di ogni pensiero. Rivelarlo è spesso impossibile perché difficile troppo difficile è cogliere l’attimo quando il troppo pensiero non gli lascia quel piccolo prezioso spazio in cui quell’attimo dà prova della sua esistenza.Pensare non deve essere un lusso ma una necessità , pensare troppo lo trovo assolutamente inutile e dannoso in quanto porta quasi sempre fuori dalla strada che si voleva percorrere.

    In un battere d’occhi
    ho visto una vita
    fuggire da una porta
    chiusa.

  8. ro

    Credo sia interessante per un lettore e (forse, quindi?, anche?) per un poeta, sentire l’aria (vento? bora? ghibli?etc ) che muove o ristagna, smuove o commuove, dentro questa pagina/proposta di letture. Si genera in pratica, perlomeno ai miei occhi, uno specchio che diventa un labirinto di specchi. Ho già provato questa sensazione infinite volte. Non intendo qui, qui anche, bensì in mezzo alla “realtà” (e soprattutto da quando e) laddove , una volta bombardata con stragi e terrorismo, hanno ottenuto quanto di più prezioso aveva l’uomo, l’essere animale politico pensante, sia fra gli ultimi come me, sia fra i pensatori d’élite.

    Ci si lamenta dalle varie parti delle persone invisibili, comuni, di tutti i giorni, che la politica sarebbe morta . Tutto sarebbe per colpa della “casta”. Tant’è che ce l’hanno sigillato per bene, dall’alto della cultura di un certo (pseudo)impegno, i vari Stella e Rizzo e ogni loro emulo/simile, o i vari urlatori dalla lega a grillo, da roma ladrona a tutti a casa. Ma in realtà, la politica, per primo, è morta dentro ognuno di noi. il funerale definitivo risale alla fine degli anni ’70 . Il piombo di quegli anni non è stato tanto quello di certi proiettili e di certi morti, ma di altri ben più mortali su una moltitudine sconfinata di corpi ridotti a lumicini( viventi e pensanti quel tanto che basta per farli consumare meglio) . La politica per un’ignorante come me e un po’ allergica ai riti di massa, non era le piazze o le bandiere, ma ad esempio era il perché poteva vivere un fiore che amavo ed amo e, quindi, soprattutto perché e da chi (compresa me senza conoscermi) poteva essere ucciso.

    Il fiore andava e va da quello della spiga di certi campi, all’altro degli spazi infinti del pensiero e del comportamento. La strettissima relazione fra poetica e politica, nella sua più radicale fr_agilità di tutti i giorni e di ogni istante, è così indispensabile all’amare così caro , credo non solo ad Emy, che viene tradito ogni volta che si sventola come una bandiera, affermato a parole, e al contempo negato all’altro . Diventa una farsa grottesca come il popolo dell’amore dei vari silviuncoli, statuette, idoli, simulacri e simulazioni di scarsa virtù e molto virtuali.

    Facendo un esempio pratico sulle cose d’amore, se ognuno di noi amasse Ennio Abate con le stesse parole usate da Emy per l’amore, la prima domanda , ogni qualvolta Ennio propone una lettura , ancorché espressa ad alta voce, dovrebbe risuonare dentro più o meno così: perché Ennio, proprio lui in sua propria carne ossa e sangue, vuole condividere questo/i testo/i? Cosa significano per lui ? cosa per me? quale la relazione, compresa quella eventuale d’amore, fra la stessa sponda o le due sponde dello stesso fiume o di due distinti? quale l’amore minimo all’altro da me, nelle divergenze o nelle convergenze?etc etc

    Ognuno invece può pensare al suo concetto d’amore e l'”oggetto” (e il sò-getto d’)amore, e il desiderio di amare, cambiare di testa in testa e di cuore in cuore. Così è stato sventrato il ponte e la riva di quel fiume, che fino a pochi istanti fa, era la Storia dentro cui le storie (di ogni vivente dall’inizio dell’essere pensante a quell’istante) . Una volta frantumato l’io , in ogni sua produttiva contraddizione (produttiva solo per “il sistema”, dove l’istituzione amore ha sempre fatto piu comodo come per ogni sistema religioso, molto poco sacro com’ è invece il sistema fiore) ognuno può rivendicare, con violenza o subdola dolcezza, il suo bisogno d’amare, e dunque di essere amato, affermando e negando (a sé come all’altro) l’amore stesso in un solo istante, movimento o tempo; in questo, e solo in questo, perfettamente coerente al (non) tempo e al (non) spazio a lui concesso dal sistema, in cui si ritaglia un orticello con un fiore tutto per lei o per lui, dove poter credere che “il sistema” non possa mai arrivare. In realtà vi era già arrivato dal momento in cui decise di concedergli l’illusione di una scelta d’amore per controllarlo meglio e soprattutto renderlo emissario o tramite di contagio, portatore attivo di un contagio d’amore lontano eoni luce da quel fiume delle storie nella Storia così prosciugato.

  9. emilia banfi

    Cara Rò a tutti è anche concesso di poter non amare. Non c’è problema.

    • ro

      Da quel funerale, mia cara Emy, è stata meglio strutturata e organizzata, l’incomunicabilità totale, oltre e ben oltre le commedie di ionesco…Tu parli da una sponda di un amore sul quale ti parlo, ma il mio non ti raggiunge e il tuo non raggiunge me. Sia la mia scelta d’amore che la tua si annullano, così come trallallero trallalà è morta la Storia. Il problema c’è così tanto, ma così tanto che è meglio dire non esista.

      un abbraccio più reale e più forte del solito.

  10. emilia banfi

    Rò è tutto sempre con o senza amore. Perché è così che l’essere umano ragiona. L’amore esiste perché esiste il non amore. L’amore è la conseguenza del non amore? Direi proprio di sì. Ancora oggi è così. Lo possiamo ignorare ma è così. Contraccambio l’abbraccione, Emy

    • ro

      cara Emy, sempre nell’immanenza e permamenza di quest’abbraccio, fatti dire brutalmente per amore e con amore , che anche l’amore diventa fuori tema o un alibi o uno scudo, e quindi quanto e come tu abbia eluso gli altrettanti temi d’amore contenuti nel gruppo di queste letture che non sono state proposte da un automa per altri automi, e anche se Ennio lo fosse, sarebbe ancora possibile tutto quell’amore, Kubrick docet, di intelligenza aritificiale.

      L’amore che in questo caso concreto mi raggiunge in te, è quello di essere stata l’unica e sola a rompere il silenzio dei ghiacciai o dei deserti, che sempre avvolge certi temi (quando qui come altrove, l’Ennio di turno li lancia o li rilancia). Hai fatto capolino come il verso di una nuvola, o un animale, e hai rotto il silenzio del cielo e della terra, e degli uomini.

  11. emilia banfi

    AIUTOOOO! Davverooo?

  12. Ennio Abate

    1.
    Si ama . Non si ama troppo. Spesso il pensiero deforma tutto anche l’amore. Nell’attimo sta il segreto di ogni pensiero. Rivelarlo è spesso impossibile perché difficile troppo difficile è cogliere l’attimo quando il troppo pensiero non gli lascia quel piccolo prezioso spazio in cui quell’attimo dà prova della sua esistenza.Pensare non deve essere un lusso ma una necessità , pensare troppo lo trovo assolutamente inutile e dannoso in quanto porta quasi sempre fuori dalla strada che si voleva percorrere.
    In un battere d’occhi
    ho visto una vita
    fuggire da una porta
    chiusa.
    (Emilia Banfi)

    2.

    DEL PENSIERO

    Me-ti insegnava: Il pensiero è un comportamento dell’uomo verso gli uomini. Della restante natura si occupa assai meno, perché ad essa l’uomo giunge sempre passando attraverso l’uomo. Per tutti i ipensieri bisogno quindi cercare gli uomini a cui arrivano e da cui dipartono, solo allora si capisce la loro efficacia.

    ( B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte, pag. 16, Einauidi, Torino 1970)

    3.

    IL GRANDE ORDINE E L’AMORE

    Jü disse a Me-ti: Gli adepti Grande Ordine [il comunismo, nota mia] vogliono abolire l’amore. Me-ti disse: Non mi risulta niente di simile. So soltanto che i nemici del del Grande Ordine l’hanno già quasi abilito. Dove c’è ancora il Grande Disordine [il capitalismo e oggi bisognerrbe dire dappertutto rispetto ai tempi di Brecht, nota mia] getta gli amanti nelle più spaventose difficoltà, li rovina.

    ( B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte, pag. 172, Einauidi, Torino 1970)

    4.

    Si pensa. Non si pensa mai troppo. Decisivo è capire se si pensa male o bene. Spesso sia i cattivi pensieri che i cattivi amori deformano tutto. Nell’attimo ci può essere un buon pensiero o un buon amore. Ma nell’attimo ci possono essere anche la banalità, il delirio, la sciocchezza. E poi noi siamo sempre una collana di attimi, che formano un tempo (esistenziale, storico).
    Una volta Dante parlò sinceramente e senza contraddirsi d’*intelletto d’amore*. Da tempo (sarebbe il caso di stabilire la data “periodizzante”. Forse dalla rivoluzione industriale o dal romanticismo…) poeti, poetesse o noi viventi in genere non possiamo più parlare come lui (e dunque essere insieme intellettuali e amorosi).
    Qualcosa si è rotto, è stato sconvolto. Ed è arduo, forse impossibile ricomporlo, vista la piega tremenda che la storia del mondo continua ad avere.
    Questa, sì, è la porta che si è chiusa.
    E questo oggi non dobbiamo nasconderci: che è diventato sempre più difficile, forse impossibile pensare e amare. O fare poesia.
    Allora fortissima è la tentazione di rifugiarsi nel simil-pensiero, nel simil-amore, nella simil-poesia: tutti surrogati, ben confezionati e imposti in mille modi seduttivi ma falsi. Che non soddisfano mai i veri bisogni d’amore, di pensiero, di poesia.
    Cedere ai surrogati o all’attimo (che è un surrogato del tempo e della storia): questo sì è andare fuori strada. Perchè in nessun batter d’occhio si riuscirà a vedere su cosa la porta si è chiusa né si capirà mai come riaprirla.
    E allora? «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole» (G. Linguaglossa, Dopo il Novecento, p. 12, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2013)?

  13. emilia banfi

    E invece sì, noi siamo una collana di attimi che a nulla servono se non li infiliamo uno ad uno . La grande opera alla fine sarà la collana- Il pensiero il suo resistente filo. Il fermaglio la nostra morte.

    Quando tutto sarà compiuto
    resterà di noi una collana
    di pietre che qualcuno
    lascerà dimenticate
    erano solo attimi
    preziosi per chi vorrà
    conservarli,

  14. Lascerei volentieri il mio commento se non pensassi di trovarmi davanti ad una baraonda. Si parte dalla psicosi di Zanzotto e passando dall’economia si arriva all’amore. E senza, a mio avviso, aver incontrato una frase davvero illuminante tra le tesi avanzate, insomma non una sola risposta alle domande (che mancano). Qualche scoglio qui e là, come il trovare se stessi nella storia che trovo assai discutibile perché presuppone che la ricerca debba essere estroversa, insomma credi davvero Rò di poter trovare te stessa fuori di te? Al massimo imparerai qualcosa dal tuo essere reattivo, rispondendo alla domanda: ma che ci faccio qui?
    Quanto all’amore, faccio mia la frase di una bravissima terapista che mi disse: al massimo possiamo sperimentare le nostre chiusure all’amore. Partiamo da lì.

  15. emilia banfi

    Mayoor illuminaci!

  16. Ennio Abate

    @ Mayoor

    Lo scrap-book è solo una pallida immagine della baraonda del mondo.
    Una piccola sfida, un allenamento per uscire dalle “nostre chiusure all’amore”. Guardiamo in faccia la Medusa e poi misuriamo quanto amore o pensiero ci resteranno…

    • Pensiero e amore non dipendono dalla medusa. Il pensiero poi fa parte dei sensi, è il sesto senso, quello che porta a comunicare. Appartiene alla maggior parte degli esseri viventi. E l’amore è l’aria che respiriamo. C’è un solo sentimento che chiude all’amore: è la rabbia. Si può stare con la rabbia, eccome, e con tutte le ragioni, ma il prezzo che si paga è la paralisi per mancanza di nutrimento. Per vincere la medusa bisogna chiudere gli occhi, lo sanno tutti. E procedere nell’intento ad ogni costo. Anche questo modo di procedere ha una sua storia, vedi le comuni negli anni 60, poi i centri sociali, e oggi le piazze di Barcellona e di Istambul, forme aggregative di ogni genere portano le persone a riconoscersi. Poi tutto salta, tutto si ripropone. Non siamo ancora in grado di valutare il 900 appena concluso, ancora non sappiamo cosa abbia portato evolutivamente all’umanità, nel bene o nel male, se abbia distrutto qualcosa e cosa, quindi non sappiamo cosa di buono ci abbia consegnato per poterci lavorare. A cosa porterà l’indebolirsi del pensiero? Forse al pensiero frammentato, specialistico, che è pur sempre in alternativa al pensiero massificato, alla globalizzazione delle arti e dei mestieri. I tuttologhi rinascimentali, i grandi intellettuali, sono alberi antichi ma si stanno maccanizzando. In gioco c’è la gestione della conoscenza, che da privata si fa pubblica e questo porta al suo inevitabile abbassamento. Non sono un intelletuale, penso ancora a Lyotard, oltre non sono andato. E Lowen per la psicanalisi, ma in questi due pensatori leggo le premesse al nuovo secolo. Non solo mente, ma mente e corpo, non solo sapienza ma conoscenza, esperienza. Sono dell’idea che la medusa si specchierà in se stessa, in ciò che ha creato.

  17. ro

    @Mayoor
    da una parte mi costringi a puntualizzare, o a rendermi conto, che mi devo esprimere proprio male, molto molto male per non aver dato nemmeno pallida idea di ciò che “dentro” me, scrivendo volevo portare “fuori” di me. Inoltre , il conosci te stesso, che lavora ovviamente “dentro”, tanto come biografia individuale, che plurale, non implica guru o terapeuti, per saper sopportare con la sola propria forza interiore la tragedia della Storia . In conclusione, anche dal tuo intervento, di cui comunque ti ringrazio, sento la rapina tragica, effettuata dalla seconda metà del novecento, all’animale pensante, che non ha più nemmeno una traccia dell’animale politico con cui almeno filosoficamente era nato. Tuttavia non sono così dotta per potermi fare un controcanto nitido, sul piano squisitamente antropologico, tale per cui l’uomo , forse, è nato e morirà asociale e apolitico, contrariamente ai lupi o alle tigri (che ha dovuto infatti progressivamente demonizzare).

  18. emilia banfi

    Spesso la semplicità di pensiero, viene confusa con mancanza di cultura o peggio di conoscenza. Ebbene giacchè cultura e conoscenza rendono l’uomo migliore perché dimenticare la semplicità? Newton diceva che la verità si trova sempre nella semplicità mai nella confusione . Si possono dire grandi cose semplicemente, ma pare che il linguaggio spesso serva per non farsi capire, soprattutto quando non amiamo ciò che facciamo. Guardiamo negli occhi di chi non comprende ciò che diciamo , lì troveremo la chiave della conoscenza e non la mistificazione dell’intellettualità o di certa filosofia che non risolve i problemi , o meglio , prima di risolverli li complica per poi non poterli risolvere. L’oggi è pieno di questi esempi.

  19. Ennio Abate

    Sullo Zanzotto di Camon.

    Con lo sguardo affettuoso dell’amico e del conterraneo nel suo ritratto di Zanzotto Camon dà risalto
    al nucleo simbolista del poeta Zanzotto: « Ogni cosa in cui c’imbattiamo è simbolo di qualcosa che la trascende. La poesia è la rivelazione del nucleo metafisico che sta in ciò che vediamo e che sentiamo». Tutte le sue nevrosi, le sue “malattie”, qui aneddoticamente e anche ironicamente riferite, altro non sarebbero che le manifestazioni esterne di un uomo – bisognerebbe dire di uno pseudo-mistico – «straziato fra la certezza di questa rivelazione, e la difficoltà di coglierla e consegnarla (la difficoltà di “dire”)». Camon, mi pare, in queste tematiche parareligiose pare che ci sguazzi. E tende a farne una figura che va al di là della religione («la sua angoscia risale a monte di ogni religione e di ogni “Dio”»), disdegnando la vulgata laicizzante di uno Zanzotto «poeta della psicoanalisi» e accogliendo in pieno un’altra vulgata: quella di origine romantica, fondata sulla identità (o quasi) di poesia e malattia o follia («Poesia e malattia sono la stessa cosa»).
    Eccolo allora insistere su una sorta di funzione “sterilizzante” dell’analisi. Per cui, in modi che non vengono spiegati né documentati, essa farebbe « regredire anche l’humus da cui nasce la poesia».
    Camon offre proprio un bell’esempio di come la poesia possa venir sottomessa alle mitologie romantiche o orfiche, quando riecheggia – senza contraddire, senza precisare se condivide anche lui – «la convinzione che la poesia sia figlia dei mostri, e che combattendo i mostri si danneggi la poesia». Povera poesia, sempre ricacciata nelle tenebre e in braccio ai mostri!
    E direi anche: povero Zanzotto! Perché è ridotto al poeta «dell’immobilità, della stasi», «della lentezza», «della nostalgia», «dell’eternità». Non che questi tratti gli manchino. Ma sono gli unici? Ed isolarli in questo modo non significa cancellare l’opera, molto più complessa, e fermarsi alla biografia? Trascurando, dopotutto, che l’opera può nascere solo da una lotta riuscita contro la nevrosi.

    P.s.1

    Nel n. 0 di POLISCRITTURE (leggibile qui: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/POLISCRITTURE_0.pdf) apparve un saggio di Loredana Magazzeni su Alda Merini. Anche in quell’occasione ebbi modo di contestare questa tendenza a ridurre la poesia a nevrosi o malattia o follia. Riporto questo passaggio:

    «E in un altro ancora: «Il manicomio in particolare è stato, scrive Alda Merini, come la sabbia che, se entra nelle valve di un’ostrica, genera perle. E’ stato anche un “formidabile e privilegiato punto di osservazione”, un evento che ha conferito alla vita una specie di santificazione e di profondità abissale, punto di vista sul mondo e dentro di sé che l’ha salvata dall’annichilimento “con la capacità dello stupore”. D’altra parte il dolore è quasi sempre alla base del suo fare poesia e lei stessa scrive .”Non c’è nessun poeta che possa scegliere, di per sé, di stare bene”». Mi chiedo: è il manicomio che crea la perla Merini? che è un punto di osservazione privilegiato? che santifica e permette di guardare gli Abissi? è il dolore la base della poesia? E non posso che ricordarmi di Adorno, che contro l’equiparazione romantica di genio e follia diceva che la poesia non è mai frutto della follia ma della resistenza del poeta alla follia. Si è tanto spesso discusso se la forza poetica di Leopardi derivasse dalla sua gobba o dalla sua infelice esperienza personale di malaticcio, solitario e senza donne. Lui lo escludeva contro il cattolico Tommaseo. I critici più seri hanno dimostrato a sufficienza che quel determinismo non c’è. E io penso che la Merini si sbagli di grosso nell’indicare la causa della sua poesia nella sua esperienza manicomiale».

    P.s. 2

    Mi pare che anche Giorgio Linguaglossa nel suo commento accetti, anziché rimettere in discussione, questo legame meccanico tra nevrosi e poesia zanzottiana. E infatti scrive: « la stessa sindrome di ansia esasperata di cui era affetto Zanzotto era anche la condizione ideale per il sorgere e lo sviluppo della sua poesia (ma ne è stato anche il suo maggior limite)».
    A me pare una contraddizione. Perché se l’ansia esasperata fu davvero «la condizione ideale» per il sorgere e lo sviluppo della poesia zanzottiana, avrebbe fatto bene il poeta a tenersela, coccolarsela, evitare di “guarirla”. Ed è il pregiudizio che Camon abbraccia. Come si può, allora, definirla anche «il suo maggiore limite»? Lo sarà stato nella vita di Zanzotto, ma non in poesia.
    A me pare, invece, che il limite o i limiti della poesia di Zanzotto non vadano individuati nella sua nevrosi o nella sua ansia esasperata. Non direi neppure che la scelta della «sillabazione emotiva ed emozionale» che caratterizza quella sua poesia fosse *di per sé* «condannata a non raggiungere mai la Cosa ». (Tra l’altro, ci sarebbe da chiarire che intendiamo per la Cosa»…).
    E infine quello sperimentalismo zanzottiano ( da non confondere con altri coevi) ha “fallito”, ma non senza, comunque, aver insegnato delle cose. Anche i fallimenti , gli “errori” di certe poetiche, possono essere fecondi. E perciò trovo un po’ ingeneroso e frettoloso proclamare:« Adesso, finalmente, ci si è liberati della poesia di Zanzotto». Perché è morto? Perché sono stati fatti fino in fondo i conti con quella poesia? E cosa vuol dire che adesso bisogna andare « DALLA COSA ALLA PAROLA»? Basta invertire la rotta?
    Troppi sono i problemi irrisolti. E chiederei a Giorgio di precisare o rimandare a suoi testi.

    P.s. 3

    @ Mayoor
    Ecco cosa può servire lo Scrap-book: a scavare più a fondo, anche se non ad esaurire, l’uno o l’altro dei temi proposti, dei testi proposti ( invece di liquidarli, benedicendoli, maledicendoli o tenendosi sul generico!…).

  20. Caspita! Mi sento come quando facevo di queste figure tra gli amici del bar. Capitava spesso.

    • Ennio Abate

      Ma no. Non siamo al bar e il mio è solo un invito a spremere ogni goccia di questo e dei prossimi scrap-book (che potreste suggerire o preparare anche voi).

  21. emilia banfi

    A Ennio:
    la ricerca della nevrosi nei poeti penso che porti da nessuna parte. Non è la nevrosi o lo stato d’ansia che fa del poeta un poeta, ma le sue potenzialità che emergono e che rispecchiano il suo animo. Certo per un nevrotico sarà più facile scrivere di ciò che rovina o esalta una società o i sentimenti del poeta stesso e di chi lo legge. Diventa più attraente , perché scopre quella parte che interessa la insoddisfazione che in fondo un po’ tutti sentiamo. Diventa anche più adatto alla critica che farà su di lui tutto ciò che può fare considerando oltre al testo , la personalità, aggiungendo anche, come sempre accade in questi casi, molto più di ciò che il poeta avrebbe voluto dire anche di se stesso e questo accade soprattutto dopo la sua morte. Per fortuna i poeti pare non si curino di questo fatto , fortunatamente. Ma a questo punto mi chiedo: come dovrebbe essere un uomo/donna per fare buona poesia? Pare che ci debba essere una canone a cui rispondere, una personalità particolare un modo di scrivere ecco questo sì, scevro da emozioni e congetture che riesca ad entrare nel mondo solo ed esclusivamente attraverso la poesia che sarà alla fine letta da gente, una diversa dall’altra, che trarrà le proprie conclusioni semplici o no, ma che alla fine scoprirà comunque quella parte dell’animo del poeta che lui non avrà saputo nascondere.

  22. ro

    Emy cara, la semplicità che rivendichi non ha nulla a che fare con le categorie classiche della stessa, di cui una delle caratteristiche più salutari era sapere di essere ignoranti, sia laddove dotati di solida preparazione accademica, sia laddove dotati di sola esperienza di vita.

    Purtroppo opporsi con false caratteristiche di semplicità – frutto di manipolazioni e simulazioni tuttora in corso e durate anni per bombardare le masse, distrugge quel desiderio base che c’era nell’uomo e sul quale hai bollato il tutto criticando il mio approccio come “troppo”, purtroppo con ben poco amore . Il nuovo sistema del novecento ha puntato tutto sulla della pigrizia secolare delll’uomo allla fatica (compresa quella del sapere pensare come desiderio vitale alla vita).

    Se le poche élite rimaste, di pensatori lontani dagli scanri e i mezzi del sistema, vengono opposte sotto la bandiera della falsa semplicità, non si può opporre loro quanto e come la loro secolare dalle masse sia dovuta a un loro “non semplice” modo di porsi che li renderebbe destinati a parlarsi fra loro o addosso.

    Se vuoi smuovere qualcosa con la tua insistenza sull’amore o sulla semplicità, o altro, il gioco è già segnato: tu rimarrai nella tua ignoranza e i pensatori nella loro, nei secoli dei secoli, amen.

  23. emilia banfi

    cara Rò io non ho detto che non bisogna pensare , ma che bisogna pensare senza complicare, se il pensiero è diretto a risolvere o a capire una situazione. E’ molto grave non risolvere per comodità ciò che è semplice facendolo apparire complesso o difficoltoso, e questo lo sanno fare molto bene gli specializzati che si servono della loro cultura per deviare con fiumi di parole il problema e la sua vera natura. Essere semplici non è sinonimo di ignoranza, come tu ben sai, ma “semplicemente” di chiarezza. Devo confessare che io amo la semplicità ma spesso come tutti cado nel trabocchetto della complessità , ma solo perché vado oltre il senso del problema che rimane irrisolto. La poesia va oltre tutto e di conseguenza guardiamola con un occhio libero da condizionamenti, cosa molto difficile, soprattutto per chi è stato condizionato da un certo tipo di cultura.

    • ro

      Emy cara , io non sono condizionata da una marcata provenienza ideologica quale quella di Ennio, oppure dalla sua marcata preparazione letteraria, poetica e critica, eppure noto, non solo in te, il respingimento (inconscio o conscio, non so) a non voler conoscere tecniche e mezzi, molto molto banali, più che semplici, con cui il sistema trucca la realtà, tanto come infatti se la autotrucca colui che preferisce credere nelle favolette (perché lo aiuterebbero a vivere).

  24. emilia banfi

    Non ci capiamo. Io non mi rivolgo ne a te ne a Ennio quando parlo di semplicità e il mio concetto di semplicità non ha niente a che vedere con le favolette che sono invece una parte del pensiero che va oltre la semplicità proprio perché dirette al non pensare. Ben venga la tecnica, la cultura e tutti gli annessi e connessi, senza dimenticare il pensiero semplice. Arriviamo fin qui. Punto. Altrimenti cominciano le complicazioni.

    • ro

      Emi cara, Bari (, non la città ma voce del verbo barare)…bari alle tue stesse dichiarazioni, Emy cara…tu non hai opposto a pinco pallo o sempronio o mario rossi ciò che hai scritto fin dal tuo primo intervento. Rilleggi il mio primo e poi quello tuo, che ho dovuto prendere come il dolce dispettuccio di una nuvola o di un bombo.

      Tu, e solo tu (non io per te o qualcun altro per te) rivolgendoti a me e solo a me ( o poi a Ennio e solo a Ennio) hai commentato il mio pensiero come “troppo” senza affrontare i temi specifici sollevati vuoi dalle letture, vuoi dai commenti.

      Le complicazioni che dici esistono, ma perché non vuoi conoscere e ammettere ( a te stessa) come hanno bombardato qualsiasi tipo di “relazione” per primo fra pari (esempio: me e te ad esempio, o me e maayor altro esempio etc etc) ma anche fra dispari (altro esempio :linguaglossa e abate), ovviamente tutte le relazioni tranne quelle di facciata in cui ci si limita a cantare trallalerò trallalà, o quelle in cui per rapporti di convenienza ( e/o business) , morale o economica, ci si adatta all’andazzo del rispettivo acquario.

      Ciò non significa che per ricostruirne di solide, bisogna essere tutti dei vulcani intellettuali. Tti parla una consapevole di essere gnorante , tienilo presente. Per ricostruire oltre la contemplazione delle belle rovine e delle brutte macerie del passato, basta essere dei viaggiatori, ovviamente in senso metaforico. Spero poi tu voglia tener presente, quella minima conoscenza che hai potuto avere di me, per cui ho espresso (anche poco sopra ne hai traccia) costantemente forti perplessità a un metodo “aggressive” che contraddistinguendo la natura e la critica di Ennio, può “complicare” la vita , ma solo apparentemente perché basta non raccogliere gli eventuali bracci di ferro laddove si avverta la sproporzione fra l’esercizio meramente cerebrale e il vantaggio del nutrimento scambiato, dato o ricevuto….tutto ciò non significa che fra dispari e pari non possa recuperato il se-me della la relazione fra pensatori e pensati che fino a qualche decennio, pur nelle difficoltà, era ancora vivo! perchè vivace era il contributo delle parti e il modello esportato per uccidere la nostra civilta non era ancora diventato così a pensiero unico.

  25. ro

    ec
    braccia di ferro sta sicuramente meglio

  26. Lo sguardo politico di G. La Grassa

    Esito sempre a proporre su un blog di poesia stralci di scritti politici.
    Poesia e politica sono – l’ho detto – mondi difficili da accostare. Specie in questo momento.
    Un brano poi come questo di La Grassa è davvero una doccia fredda su quel “sentimentalismo politico” che colgo dai discorsi dei moltinpoesia (una sezione del “ceto medio”, colto o semicolto a seconda dei punti di vista) quando fingono d’interessarsi alla politica o sinceramente – me compreso – si danno da fare per non rimuoverla dal loro orizzonte culturale.
    Perché parlo di “sentimentalismo politico” a cui siamo oggi confinati?
    Perché la politica, quella “vera” – intesa come dottrina, ideologia, scienza, arte – s’è nella società di massa ritirata nell’ombra, è scomparsa dalla scena o dal discorso pubblico; e quindi pure dai nostri discorsi: in casa o al bar o con gli amici, dove in particolari momenti – eccezionali come quelli del ’68-’69, “normali” come di solito sotto elezioni – “sembrava” o “sembra” poter riaffiorare.
    Almeno dalla fine degli anni Settanta, perciò, noi ci cibiamo di “politica-spettacolo”, cucinata da teatranti, comici, manager, giornalisti e intrattenitori televisivi. Che a una popolazione disorientata e impaurita dalla crisi offrono esclusivamente surrogati di notizie conditi con tanto umanitarismo, molto moralismo, democraticismo, populismo e scandalismo a iosa.
    Altrove (dove?) la politica continua ad essere pensata e fatta (da chi?) – e non certo a nostro vantaggio: di questo abbiamo una vaga, impotente certezza – secondo regole, calcoli, dati oggettivi, che noi ignoriamo e ci siamo disabituati ormai a considerare degni della nostra attenzione o delle nostre passioni.
    Ora, pur non provenendo dalla sua storia e anche non condividendo al cento per cento quello che scrive e una certa “intemperanza” soprattutto nei commenti “a caldo” degli avvenimenti, da anni seguo con attenzione gli interventi di Gianfranco La Grassa, apparsi prima sul sito “Ripensare Marx” e ora su quello “Conflitti e strategie”. E ogni tanto mi permetto di attirare l’attenzione sui suoi scritti anche dei miei amici poeti.
    Perché è uno dei pochi, che, pur messo ai margini della politica dei partiti come tanti di noi, si ostina a studiarla, pensarla, giudicarla, svelarne i trucchi e l’attuale miseria con gli strumenti dei pensatori politici “classici” e “critici” (Marx, Lenin, Gramsci, ecc.).
    E il suo sguardo politico è lucido proprio perché non ha abbandonato questi pensatori come fossero ferri vecchi. Come ha fatto invece un esercito di funzionari e intellettuali, scesi agli inizi degli anni ’80-’90 dal carro dei perdenti (la sinistra comunista e socialista durata fino agli anni Settanta) e riciclatisi con disinvoltura e senza troppe spiegazioni sul carro della “democrazia” e del liberismo.

    Questo stralcio l’ho proposto per la chiarezza con cui indica la ragione tutta politica che sta dietro le contraddittorie dichiarazioni apparentemente solo economico-finanziarie dei nostri governanti: «E’ necessario che almeno la UE diventi un blocco monolitico con gli Usa (in totale spadroneggiare strategico nel nostro continente) per meglio opporsi alla Russia, che sta sistemando qualcosa nella sua situazione d’insieme». O in altre parole: « bisogna cristallizzare l’Europa in senso filo statunitense».
    Può/deve interessare chi fa poesia quanto si sta svolgendo “dietro le quinte” a livello mondiale? Può valere la pena chiedersi se questo “abbraccio” con gli USA è amichevole o mortale per l’Italia e quanti l’abitano?
    Può servire confrontare i discorsi che si fanno sulla crisi della poesia, sul “Dopo il Novecento” (Linguaglossa), sul pensiero e sull’amore, sul semplice e il complesso con i discorsi “intellettualistici” (per alcuni) di La Grassa?
    Ne potrebbero venire delle correzioni, degli sviluppi più concreti nel nostro campo poetico? O ci lasceremmo solo distrarre da cose che con la poesia non hanno mai avuto e mai avranno qualcosa da spartire?
    Lascio aperto il problema.

  27. ro

    Ci sono in me varie impressioni, tutte sconcertanti seguendo questa pagina . Alcune sono dentro le righe , altre non ci sono, sono fuori da queste righe?

    Fuori le righe
    Parto da quest’ultime, perché sono quelli/e che mi stanno più a cuore. Dove sono? Volatilizzate/i del tutto, perché? Mi permetto di contraddire Abate,visto che in altre pagine (vedi esempio piu recente del “bosco piu bello è quello in città”), poesia e politica, lì, non sono stati due “mondi difficili da accostare”. I poeti si sono precipitati a frotte, uno dietro l’altro, e ancora e ancora. Non posso pensare che i poeti “cavalcano la tigre” come i manager delle aziende. E non è pensabile che siano condizionabili solo dai temi che lancia l’industria mediatica, web stampa tv, dei prodotti “civili”. L’animale politico non era e non è l’animale ideologizzato dalle destre o le sinistre o altro. Possibile che l’impero “democratico”, sia riuscito a farne strage e terrore a coloro che amano Poesia?
    A uno si, a due anche e tre pure, ma a tutti, no! Non è possibile che in ambiti meno canonici delle espressioni artistiche contemporanee, sia rimasto più vivo(vedi es teatro ma anche street art et simili). Cosa è successo?

    Dentro le righe
    Possibile che un’ignorante come me intuisce/capisce al volo i dialoghi/interventi di Ennio. Ma allora ci siamo solo io e lui qui “dentro”? Se è cosi va bene, ma se non è così, come è possibile che altri non siano appassionati alle perdite culturali, antropologiche, economiche, sociali, politiche!!!, che abbiamo subito?

    Si fa poesia solo su determinate perdite e mai altre? Se si cantano solo le perdite di un certo tipo (vuoi consolidato nei secoli di poesia su sconfitte squisitamente personali, vuoi preformattate dal poetificio di massa, compreso quello “civile” comodo comodo al sistema stesso), si può aver presente l’insieme di rischi , di ulteriori e ben più “complicate ” perdite, che stiamo correndo addesso?

    E se con l’animale politico vivo rimarrano solo tre cristi in croce, ( esempio, solo un esempio: Abate, Lucini e Peli), poi tutti gli altri, poeti e lettori, li vedremo scambiarsi sul partito twitter, facebook o via mail, le cartine dei baci perugina? Con le frasi di Brecht o di Pasolini, di Gramsci o Scotellaro , felici di sapersi indignare per pseudo crimini, bunga bunga e alberi, rispetto a quelli atroci su cui dovevano ” farei i cani da guardia”?

    ps
    mi scuso per quest’ultimo intervento. la cosa più sconcertante fra tutte, che dovevo scrivere per prima, è che ho occupato troppo questa pagina, ma la situazione, le letture, i dialoghi mi hanno preso tantissimo. Anche se conosci come e quanto hanno ucciso l’animale politico, succede sempre come se fosse “la prima volta”. Non te ne capaciti, ogni volta è come se fosse la prima, vorresti quasi fargli la respirazione bocca a bocca pur di non vederlo estinto per sempre , come 1984 , che non era solo un libro giacché ti ci sei trovata a vivere.

  28. Ennio Abate

    Luperini e il ‘68

    I cinque stralci che ho tratto dall’intervista a Luperini riguardano temi che mi sono stati a cuore in passato. Oggi m’incuriosisce soprattutto vedere se la penso o meno come Luperini. L’ho conosciuto come studioso di letteratura e allievo ed amico di Fortini: per lui maestro “da vicino”; per me, come mi sono sentito di definirlo, maestro “a distanza. Luperini è un mio quasi coetaneo e il confronto con uno della mia stessa generazione mi ha sempre intrigato di più per le possibili somiglianze o differenze riscontrabili nei rispettivi percorsi. Entrambi, infatti, siamo stati militanti politici influenzati dal ’68 e abbiamo lavorato nella scuola: da accademico universitario lui, da insegnante di scuole superiori io. Medesime pure le correnti culturali, che egli qui nomina e che, con diverso grado di competenza, sono entrate anche nella mia riflessione.
    I giudizi espressi nei cinque punti mi paiono tutti condivisibili (alcuni li trovo un po’ generici ma, siccome rimandano a futuri approfondimenti, non entro nel merito).
    L’unico su cui in fondo dissento è quello sul ’68.
    Luperini attribuisce al ’68 il merito di aver tentato di «cambiare la vita», ma non ci sarebbe riuscito perché «attardato sul piano politico». Lo proverebbe il fatto che «a livello teorico» tutti i suoi leader erano «eredi della III Internazionale». A me pare, invece, che anche dove, come negli USA, quella spinta “terzinternazionalista”, che egli considera ritardante, non agì, il movement sia stato lo stesso sconfitto. Segno, temo, che l’intento di cambiare la vita di per sé non basta. E aggiungerei che, malgrado tutte le loro insufficienze o vere e proprie degenerazioni, i militanti della III Internazionale avevano – cosa forse indispensabile – una consapevolezza (tragica) che la vita non si cambia se non si cambia la politica.

  29. Ennio Abate

    Giannuli o la scossa del dato empirico

    « Quella massa di informazioni, debitamente trattate con dei programmi informatici di potenza adeguata consente di: spiare gli altri paesi per realizzare un fortissimo vantaggio politico e militare, osservare e condizionare il gioco in borsa, prevedere le tendenze del mercato, essere preavvertiti dei sommovimenti sociali in arrivo, identificare ed isolare le aree di opposizione sgradite, cedere grandi quantità di informazioni di interesse commerciale ad imprese economiche in cambio di adeguati compensi monetari, turbare gare d’appalto, condizionare gli equilibri fra le valute eccetera eccetera. Insomma si possono fare un mucchio di cose rispetto alle quali la lotta all’evasione fiscale o al terrorismo sono l’ultimo pensiero» (Giannuli).

    Ecco, quando io leggo notizie documentate come queste di Giannuli e subito dopo leggo certe poesie, un po’ mi vergogno di occuparmi per tante ore di poesia e di dedicare solo saltuariamente del tempo per andare a caccia di notizie come queste. Misuro, cioè, tutta l’inadeguatezza di un certo sapere letterario-umanistico e anche degli scambi possibili con amici e amiche.
    Scrivevo nel lontano 1999:
    « La militanza oggi possibile non può ridursi a polemica fra simili.
    Non, ad esempio, fra appartenenti alle corporazioni “umanistiche” o “scientifiche” del sapere.
    E neppure fra i partecipi, nolenti o volenti, dei complessi ghetti mentali e sociali, dove i residui eterogenei delle grandi narrazioni: religioni, marxismi, psicoanalismi, ecologismi, ecc., penetrati nella vita quotidiana, impongono segmentazioni variamente nominate e irrigidite: “società civile”, “opinione pubblica”, “privato”, “immaginario”, “inconscio”, ecc.
    Bisognerà tornare a sfidare i veri convitati di pietra, i poteri dominanti del Capitale Internazionale, che hanno cooptato o subordinato, in modi raffinatissimi o brutali, tutti i tipi di sapere.
    Oggi i nemici “più nemici” restano inaccessibili sia allo sguardo “umanista” sia a quello neutramente “scientifico” sia a quello “alternativo”.
    Ci sarà da scovarli, strappandoli alle ombre dell’inconscio o alle nebulosità del virtuale, in cui si celano.
    Ci vorrà un altro sguardo, che non è fornito in anticipo dall’adesione o dall’appartenenza ad una tradizione buona (scientifica o umanistica) o dalla scelta anticonformista; ma sorgerà costruendo una nuova critica a stretto contatto con questa, temibile ma non aggirabile, mondanità, prodotta o corroborata al tempo stesso da scienze, umanesimi e avanguardismi quasi pienamente inglobati.».

    Mi dico ancora oggi, rileggendo questo pezzo di Giannuli: ah, come avevo ragione e come sono rimasto un isolato che manda segnali di fumi ad altri isolati ( e ogni tanto, per fortuna, ne riceve)!

    • Giorgio Linguaglossa

      caro Abate,
      in fin dei conti ogni perorazione, ogni discorso (e quindi anche la c.d. critica) nel nuovo evo telemediatico è ricerca di manipolazione del consenso; il fatto che oggi chi ha più informazioni detiene anche un capitale è la riprova del fatto che: informazione = capitale, e chi ha più capitale ha anche più consenso; e chi ha più Potere ha anche più consenso. In queste condizioni epocali è venuta meno l’esigenza di un pensiero critico, perché un pensiero critico punta, per sua essenza, al dissenso… ma il dissenso, nelle nuove condizioni dell’evo mediatico, non può che esprimersi che nei termini di un dissenso «privato» (monadico), e quindi impotente a modificare le condizioni di cose esistenti. I partiti politici (che sono nient’altro che associazioni di privati per ottenere il consenso) rispondono e obbediscono alle regole di questo meccanismo infernale dal quale è stato espunto e espiantato l’organo del dissenso, del pensiero del dissenso. Oggi un intellettuale non può fare altro che secernere le tossine dl dissenso. Ma è una faccenda «privata»; il sistema ha fatto in modo di neutralizzare tutte le forme di dissenso appunto perché sono manifestazioni private di privati, e quindi non indirizzate alla generalità. O meglio, alla generalità sì ma nella loro condizione di privati.

      In questo contesto mi si chiede: perché tu ti occupi di poesia e non di politica?. Rispondo: perché in poesia posso manifestare il mio dissenso privato molto bene, (tanto bene che mi sono inimicato i Poteri istituzionali i quali vivono bene nel consenso istituzionale). Come politico se mi presentassi farei ridere perché sarei portatore di un pensiero privato! (anche il pensiero ha un costo, un costo che le masse non si possono permettere!). Insomma, caro Ennio, per farla breve, io credo che restringendo il campo all’estremo (come col microscopio), ad un pezzettino di realtà sub-atomica, noi analizzando una metafora, possiamo scoprire più cose che non analizzando una miriade di informazioni desunte tramite hacker e programmi segretissimi. Che cosa voglio dire? che il pensiero privato non è affatto inutile, anche se non può servire per smuovere i popoli o le masse, né per la lotta di classe (che è diventata una lotta tra privati cittadini), può però essere utilissimo per capire in che direzione il mondo sta andando (ed è andato), in tal senso il mio è un esercizio di «pensiero privato» per un uso privatissimo che più privato non si può. In questo senso (e solo in questo) il mio pensiero è un pensiero politico, nel senso più vero e schietto. Solo che è un pensiero di un esponente del dissenso. Tu mi chiederai: dissenso verso chi?; Verso l’Evo mediatico e la dittatura del consenso mediale mondiale che ci ricaccia nell’innocuità del dissenso privato. E non credo che in Russia le cose stiano diversamente.

  30. Ennio Abate

    «In queste condizioni epocali è venuta meno l’esigenza di un pensiero critico, perché un pensiero critico punta, per sua essenza, al dissenso… ma il dissenso, nelle nuove condizioni dell’evo mediatico, non può che esprimersi che nei termini di un dissenso «privato» (monadico), e quindi impotente a modificare le condizioni di cose esistenti» (Linguaglossa)

    Troppo determinismo nella tua visione, caro Giorgio. In nessuna epoca, e non solo in questa, i dominatori hanno concesso facilmente un posto a tavola al pensiero critico. Sempre è stato ricacciato nel “privato” o nelle tenebre ( cos’è il diavolo nella nostra cultura di matrice cattolica?).
    Mi interrogo però seriamente sullo strapotere raggiunto oggi, anche in base anche alle nuove tecnologie di controllo sociale, dalla Macchina del conformismo. E perciò non giuro e non profetizzo che dal dissenso privato o di piccole minoranze si passerà sicuramente, prima o poi, a un movimento di contestazione o di rivolta con caratteri collettivi. (E sono scettico, infatti, anche sul grado di autonomia di quelli che, ora qui ora là, giungono in vari paesi a manifestare bisogni e desideri repressi).
    Non accetterei mai però la riduzione del pensiero critico a pensiero privato. Né la poesia come “premio di consolazione” in cambio dell’accettazione dello strapotere dei dominatori o vaso in cui depositarne qualche goccia residua.
    Anche una scelta di questo tipo sarebbe contraddittoria. Tu lo rilevi per il piano politico. Ma perché non dovrebbe essere la stessa cosa per la poesia? È forse da collocare su un gradino più basso rispetto al gradino della politica?
    Direi no. E specie oggi che siamo di fronte alle caricature “privatistiche” sia della politica sia – come tu spesso insisti a dire nei tuoi scritti – della stessa poesia!
    Con questo non estremizzo.
    Per me, viste le difficoltà dell’”epoca” e come tu dici, «il pensiero privato non è affatto inutile». E anzi non condanno neppure l’uso privato o consolatorio o terapeutico della poesia abbastanza diffuso tra i moltinpoesia. Ma le cose devono essere chiare. Non confonderei le questioni.
    Il danno che deriva alla politica e alla poesia dalle “privatizzazioni” (soprattutto teleguidate da chi ha in mano i mass media) è enorme. E il privato per quanto “non inutile” non ci riporterà mai ad un vero sviluppo del pensiero critico ( e della poesia, che per me è inseparabile da quello).
    E, dunque, mi pare che tu sbagli a sostenere che il tuo « esercizio di «pensiero privato» per un uso privatissimo che più privato non si può» possa passare per « un pensiero politico, nel senso più vero e schietto». Come avverrebbe questa “transustanziazione” me la devi spiegare!
    No, i piani della poesia e della politica non possono essere confusi per disperazione o ingenuità. Vanno ricostruiti e rimessi in comunicazione tra loro,cosa che le “privatizzazioni” impediscono.
    Bisogna dire pane al pane e vino al vino. ;La crisi non deve indurci ad accettare surrogati. Né in politica. Né in poesia.
    Accetto l’ipotesi che anche in privato si possono coltivare germi di *politicità* (che, per così dire, l’io possa – in privato – allenarsi a diventare un noi o almeno un io-noi; o a resistere, a non rassegnarsi ad essere solo un io-io). E che, in determinate circostanze storiche favorevoli, questi germi di criticità e di poesia potrebbero essere meglio sviluppati.
    Ma non posso accettare l’ipotesi che il privato sia già *di per sé* politico (o il massimo del politico, pur restando il predominio dei “politicanti”), come hanno sostenuto in passato alcuni filoni del femminismo. Che hanno ottenuto il bel risultato di avallare con queste teorie ghetti dorati o frustrati o autoconsolatori all’ombra del Potere.
    E neppure che una buona analisi di una metafora possa sostituire le informazioni sul funzionamento del potere capitalistico odierno.
    Insomma, il Convitato di pietra sta sempre lì. Non facciamo finta di poterlo sfuggire o neutralizzarlo senza affrontarlo.

  31. emilia banfi

    A proposito di politica…ci sarebbe qualcosa da mangiare?
    Totò

    • ro

      per carità Emy, Totò è eterno, ma credo che al punto orwelliano in cui siamo giunti, pure lui non direbbe più quella battuta ; peraltro rubatagli egregiamente dal un classico paraculo (a) politico, quale Tvemonti & Co e simili, quando bombardavano il paese della canzonetta sul panino, perchè con la cultura non si mangerebbe, e alla luce di questo hanno mandato af… la ricerca ( e i ricercatori) . Per giunta proprio loro che , al contrario di te o di me, ma anche di Linguaglossa o di Abate, hanno tutto il patrimonio culturale,ben occultato, per sapere esattamente alla microparticella, materia e antimateria, i retroscena del nostro passato,del nostro presente e del nostro non futuro.

      ps
      mi riservo fra poco di lasciare un commento sugli ultimi ricchi intervent,i di ieri sera e oggi, di Abate e Linguaglossa.

  32. ro

    due riflessioni, con una premessa, dopo i nutrienti interventi di Abate.

    Premessa

    Penso nella mia ignoranza che la situazione concreta di stallo, in questa pagina, sia di allegoria più ampia ad altri stalli . Labirinti di ristagni, uno dentro l’altro, nonché apoteosi delle (il)logiche bipolari, nel senso mentale e comportamentale, di tutti coloro che si sono fatti dividere in due e più mille pezzi, facendosi ottima vittima dall’impero. Ma vittime e non vittime, alla fine finiscono entrambe per far sghignazzare meglio l’imperatore: i suoi nuovi impianti mentali perfettamente riusciti. Impotenti a relazionarsi gli uni con gli altri, un po’ come i pensatori e i pensati, e addirittura fra stessi pensatori. Le non vittime (in questo caso concreto, per ora, io o Ennio) diventano comunque vittime, tali solo in minima parte per opera dell’imperatore e suoi apparati (culturali e non), poiché nessuno ma proprio nessuno è mai libero come invece suonano e risuonano da quasi un secolo le propagande sulla libertà. Il problema però grave delle vittime, non è nemmeno quello di aver i loro carnefici, ma che ne sono tutto sommato state rese felici; al massimo qualche consolazione di piazza, bella ciao, commedia della solidarietà oppure più nobile poesia. Insomma le stesse vittime doppiamente usate dall’impero, non desiderano più fare i conti con i trucchi e gli inganni della storia e al massimo, all’interno delle vittime possiamo distinguere quelle delle ideologie della dx, che per default sarebbero più polli che le altre. Quest’ultime preferiscono credere alle favolette di una sinistra che le ha cuore o di un capocomico che le avrebbe a cuore di più . Nuova formula “indignato” conformemente ai nuovi ( non ) movimenti di piazze e occupy qualcosa.

    1

    Succede quindi che da una parte leggere e studiare l’uomo senza inconscio ed altro ancora di Massimo Recalcati sulla strage di ogni desiderio (compreso quello politico), oppure tutto Baudrillard, et cetera et cetera, non è sufficiente a coloro che già supportati dai classici strumenti di critica marxiana o gramsciana , o non supportati ( da altro o da una sola ideologia), hanno cercato di ridurre la perdita almeno volendola conoscere e affrontare. Così come fa Abate nello sviluppare la conoscenza di se stessi come vittime e quindi trovare modi per contenerne i danni, inferti dall’imperatore e suoi vassalli, spacciati alle popolazioni dei diversi paese, come democratici, autonomi e sovrani. Tutto ciò è sistematicamente assente dalle analisi di Linguaglossa, che genericamente – rispetto al ben presente ” desiderio ” di conoscere di Abate- porta, al contrario delle sue ricchissime analisi e critiche poetiche, un’unica frase standard, ormai prevedibile e scontata (tanto come viceversa non vuole dalla sua poesia e quella altrui) . Insomma, il suo dire su temi politici, quali quelli di questa pagina o altre simili, è sempre risolto con un unico grido: evo mediatico. Tale bandiera diventa paradossalmente identica a quella di Emy con l’Amore, o quella di Lucio Tosi col terapeuta. Diventa una copertina di linus, mettendo più in risalto, o a nudo, tutto ciò che non viene espresso dai portantini dell’una o dell’altra bandiera. Ad esempio della truffa sulle liberazioni, sulla democrazia o i diritti umani ( messi in atto peraltro con tutti i migliori servi dell’impero mediatico di cui all’evo linguaglossiano) non ho mai sentito parlare e approfondire E.Banfi o L. Tosi e cosi altri “pari” , e così identico è lo zero assoluto o assenza di G. Linguaglossa. La cosa che mi fa rabbia e dolore è che avrebbero tutte le accademie o le ispirazioni , l’arte o l’artigianato artistico poetico per poterlo fare. E se non loro chi altri? I cazzoni del poetificio mediatico?

    Io mi accontenterei di leggere straccetti o briciole, anche senza versi, di discorsi poetici politici, che non implichino quindi giravolte. Perché credo che nessuno minimamente dotato di sensibilità poetica politica “classica”(non mi piace il termine ma dovevo sceglierne uno), possa chiedere di “scendere in campo” ad Abate o Linguaglossa (come fossero un silvio o un grillo qualsiasi? ma siamo pazzi? ). Mi accontenterei che lui, Linguaglossa o Banfi, Tosi o Simonitto, Villani o Corsi, Di Leo o D’Onofrio, provassero ancora il desiderio di “racconto” della storia del mondo e del nostro paese. Un desiderio che se non fosse stato ucciso, ci dovrebbe far parlare ( e quindi ricca di elementi per poetare) per eoni su eoni, vista l’accelerazione e quantità di elementi che si sono aggiunti per …non dico capire tutti i trucchi del palcoscenico mondo, ma almeno per cercare come svelarli, anche ricorrendo meglio, sembra assurdo, proprio al mistero . Io non lo so se in questo contesto siamo in un ambito “privato” o “pubblico” o cosa, ma so che le considerazioni di Linguaglossa sul suo tirarsi indietro da semplici dialoghi, tradisce Pavese e tutti gli altri che gli staranno ben più a cuore di un’ignorante come me.

    2 ( questa riflessione è relativa all’intervento Abate / Luporini)

    nonostante le indubbie spinte e lati positivi di ogni rivoluzione, si potrebbe chiedere ai poeti: siamo proprio sicuri che alcune di queste revolutions, “esportate” nelle varie civiltà “latine /mediterranee” non siano state i primi esperimenti del “nuovo mondo” o del nuovo millennio? Per controllare meglio cioè in quel passaggio ultra “tragico”, cruciale per il novecento, di sterminio più di qualsiasi campo della sua prima metà, rispetto alla seconda del passato secolo.

    La riflessione di Abate sulla lettura di Luperini (e del sostanziale fallimento del ’68 , come incapacità a cambiare le condizioni di vita) suggerisce la chiave di lettura, di quel fenomeno rivoluzionario incompiuto, e immediatamente, non a caso, controllato con la rivoluzione armata delle diverse brigate. Insieme alla successiva lettura (di eventi più recenti ) per cui è conclamato l’effetto truman show delle favolose “rivoluzioni mediterranee” (a nord della culla con noi o i greci, il portoghesi o gli iberici, i ciprioti o gli sloveni…. e al suo sud: le più stracitate rivoluzioni arabe. . La loro recita può essere stata prestabilita a tavolino oppure, laddove spontanea, immediatamente colta dai dominanti e infiltrata di vari agenti per simularla meglio e controllarla a suoi fini. E per i deboli a guru e terapeuti, ma anche comici politici, immessi a go-go dall’impero nel corso della seconda meta novecento (compresi i primi comici politici, dai miglioristi del pci a bossi o berlusconi, fino al più recente grillo) basta intuire il loro scopo ad ampio spettro di penetrazione sulle masse liquidamente rese solo apparentemente acritiche a destra e critiche a sinistra. Anzi quest’ultime erano quelle più a cuore dei grandi operatori umanitari culturali mediatici e come altri segmenti di nuovi succulenti mercati (vedi gay e compagnia) potevano essere spolpati e svuotati meglio perché affascinati dalla strategia fatale ( baudrillard docet) , dai “diritti umani”. In realtà all’impero interessa solo l’ abile farsa degli stessi. Tutto più che virtuale, tranne che molto reale sulla produttività dei ricavi per i relativi mercati, fra cui quello politico più interssante di tutti . Gettare come sempre, come per ogni tema, nel caos multiconflittuale di tutte le componenti variegate dei pro e dei contro. Uno dei divide et impera più interessanti per il nuovo ordine mondiale. Quello che anche qui se non decollano certi dialoghi , fa meglio sghignazzare i padroni dell’evo-mondo.

    [* Nota di E.A.
    Ho corretto i vari refusi e cancellato il successivo commento di scuse di ro]

  33. Giuseppina Di Leo

    a Ro
    Anche il silenzio ha la sua ragion d’essere.
    Ti abbraccio Ro.
    (sulle note di “La compagnia” – pensa un po’ l’ironia…)
    Grazie per la citazione.

  34. Ennio Abate

    Butler: Attenzione alle nostre complicità col potere

    «Le non vittime (in questo caso concreto, per ora, io o Ennio) diventano comunque vittime, tali solo in minima parte per opera dell’imperatore e suoi apparati (culturali e non), poiché nessuno ma proprio nessuno è mai libero come invece suonano e risuonano da quasi un secolo le propagande sulla libertà» (ro)

    Mi pare che su questa *non libertà* degli individui ci si debba interrogare in termini non moralistici e non volontaristici, evitando una troppo facile contrapposizione tra vittime sciocche e servili e vittime intelligenti o eroiche o capaci di ribellarsi. Lo stralcio della recensione del libro di Judith Butler mi pare che ponga la questione su un piano più complicato ( quello che non piace a Emilia Banfi, ma che purtroppo esiste e non può essere aggirato dal “pensiero semplice” o con le battute di Totò) meno scivoloso o scontato. Quando si dice che «0gni soggetto è sempre compromesso con il potere che lo assoggetta», si dice una cosa non facile da digerire e che vale per tutti: siamo tutti in una condizione servile.

    Stasera su un altro sito (qui: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=79251&typeb=0&Il-potere-della-melanconia) ho trovato un altro estratto del saggio introduttivo di Federico Zappino a “La vita psichica del potere. Teorie del soggetto” della Butler. E ricopio qui (avvertendo che i brani in grassetto sono mie sottolineature) due passi che fanno intendere meglio la complessità della questione “non libertà”:

    1.
    « Butler rivisita questi concetti attraverso una lettura della dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel (CAP. I), così come attraverso una analisi di alcune sezioni della Genealogia della morale di Nietzsche, orientata a mettere in risalto la relazione di mutua complicità tra il potere e gli imperativi morali (CAP. II). Il servo, in Hegel, è appassionatamente attaccato al padrone poiché è questo che gli conferisce un’identità, una possibilità di esistenza sociale. Poco importa che questa esistenza consista in realtà in una sudditanza: mediante la ripetizione del lavoro, il servo assume il potere di cui è intrisa la relazione con il padrone (“il lavoro forma”, scrive Hegel), e lo fa anzitutto incorporandolo. Il corpo del servo, infatti, diventa il corpo del padrone: attraverso l’utilizzo del proprio corpo il servo provvede alla sussistenza materiale della vita del padrone, tanto che quest’ultimo cessa di esistere come corpo, cessa di preoccuparsi per le questioni del corpo, ma cionondimeno permane nella psiche del servo, sotto forma di coscienza. Di conseguenza, quando il servo tenta di liberarsi dal potere, ossia dalla relazione di soggezione al padrone, incorre nell’auto-attribuzione della colpa, per via del fatto che quel tentativo di liberazione coincide nientemeno che con un tentativo di liberazione dalla propria identità, dalla propria esistenza sociale, da ciò che fino a quel momento lo ha mantenuto in vita. L’auto-attribuzione della colpa (o cattiva coscienza) è ciò che propriamente induce il soggetto a ritornare sui binari sicuri della relazione assoggettante e al contempo soggettivante dietro l’auto-esortazione ingannevole all’assunzione delle “proprie” responsabilità; liberarsi da quella relazione, per il servo e per il soggetto, significherebbe esporsi alla contingenza, ed esporsi alla contingenza prevede anche la possibilità di morire. È dunque in seno a questa paura di morire – il “timore assoluto” di perdere tutto, di perdere se stessi – che si origina la riflessività, la torsione rimproverante (violenta, estrema) dell’io su se stesso, la creazione di una prospettiva interna dalla quale il soggetto possa esprimere un giudizio su di sé. La creazione – come sostiene Nietzsche – della morale».

    2.
    La teoria di Althusser [si riferisce alla teoria strutturalista detta dagli studiosi del filosofo dell’ “interpellazione”, nota mia] è ben sintetizzata dall’esempio a cui il filosofo stesso ricorre per illustrarla: un passante, nel voltarsi al rimprovero di un poliziotto in mezzo alla strada (“Ehi, tu, laggiù!”), si attacca appassionatamente ai termini con i quali viene interpellato, interiorizzandoli. Eppure, si domanda Butler, quel richiamo da parte dell’autorità (la legge, lo stato) è sufficiente a forgiare un’identità, e dunque un soggetto? Questo voltarsi del soggetto althusseriano alla voce dell’autorità interpellante, non lascia forse ravvisare la sedimentazione di una “attesa desiderante”, una certa propensione del soggetto a voltarsi, a torcersi, anche fisicamente, al richiamo dell’autorità? Detto altrimenti, non rende forse manifesta la presenza di una coscienza già costituitasi, la cui costituzione richiede di essere sondata anche al di fuori dello studio dello psicoanalista? La densità del riferimento alla coscienza da parte di Althusser, scrive in questo senso Butler, sarebbe stata infatti sottostimata dai filosofi politici, al prezzo però di una comprensione non esaustiva del modo in cui – in questo caso, in Althusser – opera nientemeno che l’ideologia, ossia uno dei concetti centrali per la comprensione del potere.
    […]
    Come considerare, dunque, questo movimento del soggetto (che è sempre, o quasi, anche un cittadino), questo suo voltarsi riflessivo in seguito al rimprovero? Come andare oltre il modello dell’interiorizzazione della norma, che prevede appunto la già avvenuta costituzione di un’interiorità del soggetto e di una esteriorità da esso? Secondo Butler questo voltarsi del soggetto al richiamo disciplinante della legge è qualcosa di cui il soggetto ha già esperienza, poiché è proprio in un voltarsi, in un torcersi, che consiste la sua coscienza. È questo il momento in cui Judith Butler attorciglia dunque il filo del suo discorso attorno a un concetto importante della psicoanalisi, nel tentativo di socializzarlo: la melanconia (CAP. V e VI), l’umore saturnino che gli antichi greci attribuivano all’uomo di genio, la “bile nera” (μελαγχολία, da μέλας, nero, e χολή, bile) poi al centro dell’attenzione di Freud – e anche di Foucault. Ed è nella melanconia che, secondo Butler, andrebbe rintracciata l’origine ontologica dell’emersione, tropologica, di ogni soggetto.

    • Giorgio Linguaglossa

      cari amici,
      leggiamo una poesia di Adam Zagajevski, precisamente la prima strofa della poesia a pag. 99 dell’edizione pubblicata da Adelphi nel 2012 che caldeggio vivamente di acquistare:

      Parlammo a lungo nella notte, in cucina;
      alla morbida luce della lampada a petrolio
      gli oggetti incoraggiati dalla sua delicatezza,
      spuntavano dal buio svelando i propri
      nomi: sedia, tavolo, saliera.

      Il punto centrale della strofa è il riconoscimento degli oggetti che da sempre abbiamo sotto gli occhi (sedia, tavolo, saliera); solo guardando davvero questi oggetti possiamo riconoscerli: Ma come si fa a guardare gli oggetti che da sempre li abbiamo sotto gli occhi? Come vedere e riconoscere il “reale” che da sempre abbiamo sotto gli occhi?; che significa nominare il “reale”?, come fare per nominare il “reale”?. Troppi bravi ma modesti poeti si sono cimentati nella nominazione del “reale”, la qual cosa è la cosa più difficile del mondo!. Che cosa fa Zagajevski? per invitare il lettore a guardare veramente quei tre oggetti?, la prende alla larga, parte da lontano, ci dice che «Parlammo a lungo quella notte», dando per scontato che il lettore capisca subito chi è che sta parlando (o meglio, ha parlato); non è importante darci informazioni sulla identità di chi sta parlando, stanno parlando due persone che possiamo essere tutti noi in qualsiasi momento della nostra esistenza; stiamo parlando in un luogo familiare e usuale: «in cucina»; ma di che si sta parlando?, Zagajevski non ce lo dice, non è importante sapere di che cosa si sta parlando perché l’evento che sta per accadere è altro, è un evento inaspettato e semplice, quotidiano, una cosa (anzi, delle cose) che da sempre abbiamo sotto gli occhi ma che non eravamo mai riusciti a vedere. Dunque, per capire il “reale” bisogna imparare a vederlo veramente, altrimenti siamo ciechi. «Gli oggetti, incoraggiati» dalla «delicatezza» della «lampada a petrolio», spuntano «da buio, svelando i propri nomi: sedia, tavolo, saliera». Tutto qui.

      La strofa è molto semplice, ma geniale nella presentazione del problema. La poesia ci dice che due interlocutori hanno avuto il privilegio di capire il “reale” mediante una esperienza significativa inaspettata, non voluta, forse; la poesia ci dice che gli oggetti entrano in relazione con noi soltanto quando li cogliamo, o meglio: loro ci colgono, in un momento di distrazione, mentre conversiamo in cucina con amici o con sconosciuti, mentre le nostra difese coscienziali sono abbassate. È la falsa coscienza di chi sta al mondo che impedisce agli interlocutori (a noi) di vedere (e quindi capire) veramente gli oggetti. Zagajevski ci vuole dire che senza questo atto di riconoscimento, senza l’esperienza di questo preambolo di esperienza, noi non possiamo vedere il mondo né possiamo riconoscerlo. È dalla presa d’atto della nuova coscienza che possiamo guardare veramente il mondo che ci sta di fonte e a fianco, e noi stessi, oggetti di un altro oggetto che si chiama «io».

      Ecco, ho citato questa poesia che descrive una esperienza «privata», anzi «privatissima», per dire che è sempre una esperienza «privata» quella che ci fornisce le chiavi per accedere a una esperienza «pubblica», cioè «politica». In tal senso l’analisi di una strofa di una poesia ci può insegnare molte cose utili per cambiare il mondo. Ma, innanzitutto, è chiaro che questo modo di creare poesia è una procedura che cambia innanzitutto il modo di scrivere poesia. Dopo Zagajevski sappiamo che c’è un altro modo di fare poesia, molto più efficace di altri modesti poeti i quali danno per scontato cose che scontate davvero non sono.

      • Giuseppina Di Leo

        a Giorgio Linguaglossa
        La comprensione del “reale” attraverso “un’esperienza privata” da te proposta con la splendida poesia di Zagajevski mi porta a un altro privato, quello della poesia di Amelia Rosselli, della quale si è anche ricordato di recente l’affettuosa amicizia con Rocco Scotellaro. In “C’è come un dolore nella stanza” il noi è ancora più sotteso rispetto a Zagajevski, fino a scomparire in un privatissimo dolore.
        La propongo perché come te credo anch’io che la comprensione necessiti non di una bensì di molteplici chiavi di lettura.
        In particolare, qui il dolore assume un peso maggiore nel ricordo. La visuale spazia passando dall’interno all’ambiente esterno, riportando presente e vivo uno sguardo “obliquo”, che pesa, come una condanna.
        L’ultima strofa è a mio avviso decisiva per connotare l’atemporalità di questo dolore o tormento che dir si voglia, fino ad interessare lo spazio cosmico perché esso dolore nasce dalla inevitabilità del destino.
        Si può essere d’accordo o meno su cosa significhi tutto questo. Un dato però rimane, ed è quello che la poesia quando “traduce” la realtà lo fa partendo innanzitutto dalla sensibilità e dal vissuto, non solo interiore, di chi la scrive.

        C’è come un dolore nella stanza, ed
        è superato in parte: ma vince il peso
        degli oggetti, il loro significare
        peso e perdita.

        C’è come un rosso nell’albero, ma è
        l’arancione della base della lampada
        comprata in luoghi che non voglio ricordare
        perché anch’essi pesano.

        Come nulla posso sapere della tua fame
        precise nel volere
        sono le stilizzate fontane
        può ben situarsi un rovescio d’un destino
        di uomini separati per obliquo rumore.

  35. ro

    @ Giuseppina Di Leo
    Grazie cara Giuseppina! sei uscita dal silenzio nel modo più magico che potessi trovare, di vera saudade in “canzoni e fumo e allegria”. Non so se ti riferivi a quello specifico testo e musica di Mogol e Battisti, ma comuqnue così alla mente m’è girata immediata l’onda. Nel tuo abbraccio una specie di radio aut, con quel tocco poetico musicale politico di pari e dispari che stavano a cuore ad “amore non ne avremo” di Peppino Impastato e che possiamo far rivivere ogni giorno, dipende solo da noi . GRAZIE!

    @ Ennio Abate
    grazie del tuo aiuto davvero importante per non affaticare l’eventuale del mio intervento con ulteriori casini della mia mano. Per quanto relativo alla tua articolazione, su quanto volevo dire attorno alle false promessa di libertà e declinazioni di liberazioni diverse nella relazione con le vittime, è giusta la tua estensione ed approfondimento con ulteriori letture sul tema. Quel concetto di sapersi vittime, che però volevo esprimere, non era per semplificare e mettere su un trono d’onore coloro che (io o te o altri) sanno di esserlo rispetto a coloro che si agitano, o si illudono ( o hanno già risolto per indifferenza) al fine di risolvere, o aver già risolto, la condizione grazie ai vari sistemi di potere. Questi affascinano come sirene sia sul piano pseudopolitico, sia su quello squisitamente pseudo-psicologico e/o spirituale: tutto e il contrario di tutto hanno fatto per pseudoliberare questo tipo di vittime in modo da controllarle più subdolamente, non a caso è stata esportata dal modello americano tanto la pseudo democrazia che il mito del liberismo o le privatizzazioni, come la pseudo rivoluzione e la new age.
    Le civiltà della nostra culla ( dal mediterraneo al baltico) avevano già insegnato che la libertà non esiste (e se ha qualche sostanza di esistenza è nella sola libertà interiore, artistica o artigianale, di creare/distruggere pensiero nelle sue diverse forme). Ma in un colpo di spugna della Storia e delle Dominazioni, abbiamo rinunciato alle nostre radici. E proprio sulle chimere della libertà e delle liberazioni abbiamo paraddosalmente aumentato la potenza di fuoco di quelle relazioni servo/pa-drone, in cui tutto è diventato simulazione di libertà, ergo iperbole della sua inesistenza sia sul piano delle liberazioni piu personali che politiche. Tuttavi anche poetiche strictu sensu. Infatti se sintetizzassi al massimo la critica poetica di Linguaglossa, è di questa penosa libertà che egli si lamenta in certo tipo di poesia italiana del novecento, prima parte in un modo e seconda in un altro, più legato appunto alle logiche dell’evo mediatico(e dei consumi di massa che ne hanno detto il libero mercato per inseguirne un gusto surrogato)
    ….
    E’ molto molto interessante, almeno per me, il lato del morire messo in luce in un punto dell alettura della Butler, ma mi fermo qui (perché forse andrei fuori tema o forse no, visto che ai temi del post sono connesse le paure classiche e contemporanee). Ciò che mi stava a cuore nel discorso fra ” vittime”, lho detto ed era lanciare il mio messaggio nella bottiglia ai “Poeti”, alle loro relazioni fra loro, fatto di un loro piu allargato possibile a un certo qual “noi”, tanto singolare quanto plurale.
    un caro saluto a tutti

  36. Ennio Abate

    @ Linguaglossa

    Ecco, ho citato questa poesia che descrive una esperienza «privata», anzi «privatissima», per dire che è sempre una esperienza «privata» quella che ci fornisce le chiavi per accedere a una esperienza «pubblica», cioè «politica» (Linguaglossa)

    Non mi pare che ci sia questo filo diretto tra esperienza privata o privatissima e esperienza pubblica ( che poi non significa automaticamente politica…).
    Quanta poesia privata o privatissima resta tale?
    E nel caso che hai analizzato della poesia di Zagajevski non vedo indicato ( né da parte tua né da parte del poeta in questione) nessun riconoscibile legame tra questo “reale” (sedia, tavolo, saliera) e il pubblico o il politico (quale?).

    Mi permetto anche un’altra obiezione: forse che il “reale” è fatto solo di oggetti e di oggetti comuni di casa?
    Reali sono anche i rapporti sociali di dominio o di sottomissione di cui gli oggetti spesso in poesia possono rappresentare delle allegorie, ma a patto che il poeta sia in grado di mettercele.
    Altrimenti si ferma agli oggetti e li rappresenta in una loro neutralità o a volte metafisicità, che secondo me ne nasconde proprio una possibile resa poetico-politica.
    Ora proprio perché sono convinto che non ci sia un filo diretto tra esperienza privata (in genere lirica) e esperienza pubblica o politica , questo filo va colto e costruito dal poeta, se è – lo dico piattamente – in grado di avere una visione politica del mondo, delle cose, dei rapporti tra gli uomini.
    Marx non era un poeta, ma la sua analisi del capitale svelò proprio che il capitale non era una “cosa” (Cfr. La Grassa: il capitale è un rapporto sociale). Se si fosse fermato alla “cosa” non avrebbe mai svelato lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale.
    Questo solo per ribadire che la “realtà” non è riducibile al privato o al privatissimo. E che quella che vede l’io (privato, magari anche poeta lirico) non è *automaticamente* quella che vede il noi (pubblico-politico).

    P.s.
    Come esempio di poesia che contiene un’allegoria politica si veda “La Gronda” di Fortini, che pure di un oggetto comune parla; e si noti come il poeta in questo caso la *politicità* (comunque da “spiegare” a lettori ingenui, che altrimenti ci vedrebbero soltanto gronda, tegoli, rondini, tubi , ecc.) ce l’ha voluto mettere:

    Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
    in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso
    e piegato da strati di tegoli. Rondini vi sostano
    qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
    e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
    di misere riparazioni. Ma vento e neve,
    se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
    non la spezzano ancora.

    Penso con qualche gioia
    che un giorno, e non importa
    se non ci sarò io, basterà che una rondine
    si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
    irreparabilmente, quella volando via.
    (Franco Fortini, 1958)

  37. Giuseppina Di Leo

    a Ennio Abate
    Mi interesserebbe leggere la spiegazione della poesia di Fortini in quanto, molto modestamente, ammetto di non aver compreso il messaggio politico in essa racchiuso.

    • ro

      Azzardo ma in attesa anch’io di leggere ogni analisi.

      Questa poesia si abbina tanto tanto ai dialoghi di questa pagina, perlomeno nella parte che richiamavo di stato di allerta /sentinella , postura in cui devono stare i Poeti. Se non è vero che i giornalisti sono “i cani da guardia”(cosi come alcuni di questi ancora si spacciano) delle varie comibinazioni /simulazioni di realtà da parte dei poteri, allora tanto più non possono rinunciare ad essere di guardia i Poeti. Con quella “rondine” Fortini ci parla a distanza di tanti anni della vere rivoluzioni stagionali,capci di scardinare e il legno storto e marcito di un certo tipo di sistema/casa…è quindi attuale come messaggio per smantellare definitivamente le simulazioni di primavere politiche, che infatti non spostano di un micrometro nè il piombo deforme, nè il legno marcio dell'”evomondo”

  38. Ennio Abate

    a Giuseppina di Leo

    da http://www.caffeeuropa.it/cultura/265fortini.html

    Necessaria e inevitabile, come una poesia
    Luca Sebastiani

    “Ho sempre creduto che qualcosa (molto, per essere più preciso; quasi tutto, direi) dovesse mutare nella nostra società. So che questo mutamento si prepara da tanto tempo, forse da decenni. So che molti non vi credono o non lo vogliono e perciò riparano, racconciano, aggiustano quel che è troppo guasto, convinti che nessun crollo sia imminente. Intanto, un poco per giorno, il mondo muta”.
    Così Franco Fortini, scomparso dieci anni fa, commentava La gronda, una sua poesia dell’inizio degli anni Sessanta, allegoria di una società capitalistica in disfacimento come una vecchia casa rabberciata che un giorno sarebbe crollata sotto il peso non-peso di una rondine utopica (un giorno, e non importa/ se non ci sarò io, basterà che una rondine/ si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti/ irreparabilmente, quella volando via). Continuava il poeta: “Sono vissuto spiando il giorno di quella caduta; e preparandolo. Anche con poesie come questa, preparandolo”.

    In queste poche frasi è racchiusa tutta l’esperienza umana, politica e poetica di Fortini. È racchiusa la sua visione del mondo e di una poesia che doveva essere ‘impegnata’ non facendosi fanfara di questa o quell’ideologia, come Fortini aveva eccepito all’ingenuità di certo neorealismo, né ostentando uno sperimentalismo esasperato, spesso neoromantico, che rifiuti la comunicabilità e elimini il passato: ma una poesia che può essere impegnata solo attraverso il disvelamento continuo delle contraddizioni della Storia, dell’individuo, della poesia stessa.

    Ecco allora il poeta Fortini, “sempre politico anche quando parla di alberi e di nidi” (come scrisse Pier Vincenzo Mengaldo) che nel proprio poetare fa cozzare una sorta di posa classica e fuori dal tempo della forma con le pulsioni dell’attualità politica dei contenuti; che rifiuta l’immediatezza e il lirismo e fa propria “la sublime lingua borghese” come mezzo di astrazione intellettuale per rendere evidente il rapporto necessariamente straniato tra poesia e realtà; un poetare, infine, che in qualche modo riesce provvisoriamente a risolvere, e positivamente, la contraddizione tra ideologia e poesia attraverso la forma allegorica che esibisce la tensione tra segno e senso.

    Nella tematica ricorrente della marginalità dell’individuo e della poesia rispetto alla Storia, e alla comunque necessaria inevitabilità della parola (la poesia/ non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi), Fortini attiva una dialettica negativa che riflette la tragicità speculare che governa i destini storici e individuali. Non manca tuttavia una continua volontà utopica, una fiducia, anche se sempre frustrata, in un futuro che redimerà la Storia per poi, in un processo dialettico all’infinito, riaprirne le contraddizioni. Ecco allora che spesso l’allegoria fortiniana diviene vana, “buona a – come scrive Stefano Giovanardi – riportare in primo piano, sia pure in negativo, le ragioni dell’io”, fino all’ultima raccolta, Composita Salvantur, in cui il soggetto si fa spesso interprete “di un’ansia di sparizione, di definitivo cupio dissolvi, quasi che le ferite della storia avessero colmato la misura”.

    Quello della Storia, con tutti i suoi corollari – dialettica, totalità, utopia, soggetto – è il tema costante di tutta l’esperienza fortiniana. E se il futuro si incarna nell’utopia dell’attesa e il passato è l’eredità da riscattare, da salvare e redimere, è il presente dell’osservazione, spesso dell’idillio, il punto da cui Fortini parte (Guardavo, ero ma sono./ Il mio verbo è al presente), perché “la sola cosa che importa è/ il movimento reale che abolisce/ lo stato di cose presente” parafrasando, e neanche troppo, Marx. Il presente è per Fortini il punto culminale e virtuale di compresenza di passato e futuro, dei vivi e dei morti, il punto figurale che racchiude il passato e si muove verso il futuro. Così l’idillio si fa allegoria, il frammento naturale e storico si trasformano in virtù di una luce, di una tensione che ne trascende i segni verso un senso di pienezza, seppur apparente.

    Grande poeta dell’allegoria e della parabola, continuamente oscillante tra un lirismo non lirico e una piana meditazione, quella di Fortini è una poesia compatta come il suo verso, in cui il pathos è contenuto dalla “razionalizzazione dei mezzi retorici che si affida soprattutto al chiuso, al martellato, al senza-vuoti”, scrive Mengaldo. Una poesia in cui spesso il verso si fa sentenza e il discorso persuasione e intimazione, in cui Fortini fa “sprizzare un senso sghembo da abili ed efficaci accostamenti verbali, tra giocosi e virtuosistici”.

  39. Rita Simonitto

    La strofa della poesia di Zagajevski citata da Linguaglossa e la poesia di A. Rosselli postata da Giuseppina Di Leo veicolano momenti di intensa commozione.
    Parlarne è come violare un luogo sacro: si corre il rischio di entrarvi con il linguaggio degli scarponi senza tenere in debito conto la sensibilità e la sofferenza di ciò che è sotteso allo scritto.
    Come d’altronde fanno sempre gli occupanti di una terra a loro straniera.
    Bisognerebbe rispondere alla poesia con la poesia, ma non sempre questo è possibile.

    Cercando di non essere invasiva vorrei sottolineare alcuni punti che il commento di G. Linguaglossa mi ha sollecitato rispetto all’accesso al ‘reale’: essenzialmente sono due: il metodo e il contesto.
    Il metodo.
    Verissimo il fatto che la “realtà” emerge e ci si presenta quando noi accettiamo di distogliere lo sguardo fisso su di essa. Come fior di fiore di mitologia ci ha raccontato, l’accesso alla conoscenza (non solo del ‘reale’ ma della nostra stessa parte segreta) non è né facile né privo di conseguenze.
    Semele arsa viva alla vista dello splendore di Zeus, amante di cui voleva conoscere l’identità; Tiresia che fu punito con la cecità perché aveva visto troppo; e poi Edipo che si accecò da sé per aver visto ‘ex-post’ quello che aveva combinato ‘ex-ante’.
    Ma senza riandare al mito, anche il metodo psicoanalitico attraverso il sistema dell’ “attenzione fluttuante” (Freud) oppure la “visione binoculare” (Bion) si avvale dello stesso modello per accedere ad un ‘reale’ occultato dalle difese e dalle resistenze.
    Perché il ‘reale’ è anche il ‘monstrum’ che ci attira e che ci può annientare.
    Vorremmo sapere ma ci difendiamo dal sapere.

    Il contesto.
    G. Linguaglossa:
    *l’evento che sta per accadere è altro, è un evento inaspettato e semplice, quotidiano, una cosa (anzi, delle cose) che da sempre abbiamo sotto gli occhi ma che non eravamo mai riusciti a vedere*.
    * è sempre una esperienza «privata» quella che ci fornisce le chiavi per accedere a una esperienza «pubblica», cioè «politica». In tal senso l’analisi di una strofa di una poesia ci può insegnare molte cose utili per cambiare il mondo.*

    Ma quella ‘realtà’, nel momento in cui viene vista con occhi ‘altri’, fa sì che la sedia non sia più una semplice sedia, e il tavolo non è soltanto quel tavolo lì, e la saliera trascende dal suo essere saliera.
    Il rapporto di intimità che traspare da quel “parlammo a lungo nella notte, in cucina” è l’incipit che ci dispone, ci apre, al discorso del poeta.
    Egli, da un lato, ci introduce ai suoi ‘arredi’ interni (di cui la cucina – luogo in cui si apprestano le trasformazioni e la convivialità – è la metafora esterna, e dove la ‘cosalità’ assume il riflesso della relazione) e, dall’altro, ci fa un discorso universale che afferisce alle nostre singole esperienze.
    L’esperienza ‘privata’ è comunque l’esperienza ottenuta attraverso una relazione, un noi *parlammo*. Ad una storia che prende colore nel presente.

    Certamente la realtà descritta in questo modo ci permette di tornare al sentimento, al pathos che ci sta attorno, e così acquista un alone semantico che arricchisce il nudo fatto.
    Ma è il sentire in intimità, in dialogo, che ci permette di dare uno sguardo ‘obliquo’ alle cose del mondo e di riappropriarcene con un nuovo senso.

    Voler attingere alla realtà ‘così come essa è’ ci porta ad una visione ‘pornografica’. Entrare in contatto con la realtà, e con il mistero di cui essa è anche portatrice, significa avere esperienza non di ‘cose’ ma di relazioni, intime e sociali, private e politiche, attraverso le quali si fonda la nostra soggettività.
    E’ lì che si entra in contatto con la bellezza. Non solo la bellezza della poesia ma anche la bellezza della politica.
    Benjamin sostiene che *l’oggetto estetico è l’oggetto a cui noi restituiamo lo sguardo*.
    Questa specie di ‘restituzione’ diventa un momento fondativo della nostra soggettività: una ‘fondazione’ esterna per cui essa soggettività *non è tutta nella nostra mente*. Ragion per cui abbiamo bisogno dell’altro per poter pensare.
    R.S.

    • Giuseppina Di Leo

      a Rita Simonitto
      Ho letto il tuo intervento solo dopo aver postato il mio.
      Trovo importantissime le cose che dici, anche come fonte di ulteriore approfondimento.

  40. Giuseppina Di Leo

    a Ennio Abate

    La spiegazione data da Sebastiani evidenzia molto bene tutte le peculiarità che Fortini esprime in questa come in tutta la sua poesia.
    Lo stesso peso della Storia lo trovo però espresso anche nella poesia di Rosselli. Credo anzi che il tratto in comune tra le due composizioni consista nella dimensione specifica di quel ‘peso’.
    Per questa ragione evidenziavo “l’atemporalità” che in Amelia Rosselli denota – a mio avviso – un dolore che non è racchiudibile in un giorno o in un punto qualsiasi, ma che invece assume connotazione spazio-temporale fuori da quella consueta. E, da qui, anche la “perdita” del senso stesso della storia, nella poesia raffigurato come perdita di peso/memoria degli oggetti di uso quotidiano, contro un eccesso di dolore/memoria .
    D’altra parte la vicenda umana di Rosselli è segnata dalla tragedia politica, né potrebbe essere sminuita a “privatissima”, o come poesia del quotidiano, ma va ricondotta nell’alveo della storia del ‘900.
    Evidenziavo piuttosto lo sguardo – certamente unico – con cui Rosselli “traduce” la sua realtà.
    Le due lingue, quella di Rosselli e di Fortini, per intenderci, a me non sembrano così incomprensibili o distanti l’una dall’altra, pur esprimendosi in modi differenti.

    • ro

      In musica ci sono interpreti con un marcato debole ad un solo autore, e forse avviene così anche in poesia. Potrebbe essere interessante capire se ciò riduce, o al contrario amplifica, la condizione di non libertà, che invece come lettore vede molto limitato quest’ulteriore rischio o vantaggio, perchè a parte qualche piu netta preferenza, ha sicuramente più punti di riferimento e quindi piu chiavi di lettura (che ti stavano a cuore in un altro commento)

  41. Ringrazio per i veti lanciati contro pseudorivoluzioni e new age, effettuati con stile appassionato tipico dell’inquisizione, perché mi fanno accorgere di quanto io patisca l’eccesso di giudizio, da qualsiasi parte esso arrivi. Credo di non essere fuori tema se riporto qui una poesia di Luigi Manzi (da Perverse luci):
    Tu prendi a braccetto il reale
    e ne fai il covo di tutti gli affetti.
    Io ho gli uccelli che migrano al sud
    spellati, cariati, in luci dimesse.
    Spezzati dai gas: problemi dell’occhio.
    Bado solo agli orpelli.

    Tu giochi coi nessi, sobilli i quadri del mondo,
    rifai concezioni complicando l’uomo
    fin tanto che non sia ricacciato agli estremi recessi.
    Porti flusso e riflusso ai concetti.
    E non sei in dubbio un istante.
    Però capisci che strada facendo ti sei perso nel buio,
    e più nulla distingui.

  42. emilia banfi

    Mayoor,il commento e la scelta è molto interessante. Manzi e’ straordinario.
    Mi permetto di aggiungere ai commenti questa sua da “Mele rosse”

    QUANDO?

    Quando renderemo giustizia
    alla lepre in fuga tra stoppie
    e ginestre, mentre la muta
    l’insegue, o allo zigolo che canta
    e mai si sfibra. O all’uomo solitario
    che sopra la collina più alta
    agita il ventilabro
    e con gesto antico separa il nuovo
    raccolto dalla pula mentre,
    sedute sull’aia, le vecchie
    con occhi di polpo blaterano
    e rimuginano; quando
    renderemo loro giustizia?

    Luigi Manzi

    • ro

      “la lepre ” mi gira sempre attorno ( forse perché è anche nel mio cognome) e ogni volta mi fa il suo verso così:

      L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in
      prigione
      ogni volta che morde in un pezzo di pane.
      In prigione sognava le lepri che fuggono
      sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
      l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
      acqua fredda e mordendo in un pezzo di pane.
      Uno crede che dopo rinasca la vita,
      che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
      con l’odore del vino nelle calda osteria,
      e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
      fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
      e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
      gli altri, allegri. Bisogna guardali dai vetri.
      L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
      quando proprio si gela, e contempla il suo vino :
      il colore fumoso, il sapore pesante.
      Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
      in prigione, ma adesso non sa più di pane
      né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
      L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
      di saperli già arati. Nella sala deserta
      sottovoce si prova a cantare. Rivede
      lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
      che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
      E compare la lepre e non hanno più freddo.

      L’uomo solo – Cesare Pavese

  43. ro

    @ Giuseppina
    la “molteplicità” delle chiavi di lettura a cui ti riferivi era relativa ad uno e un solo testo e autore, ma io credo che se uno ragiona così , a maggior ragione o gioco forza se ne deriva l’importanza di piu chiavi di lettura generati da piu autori e testi di riferimento per un’identica problematica, o tema, o processo con cui leggere la realtà.

    comunque il tuo intervento era quello rivolto a Linguagloassa come segue.

    Giuseppina Di Leo
    30 giugno 2013 alle 11:31
    (….)
    La propongo perché come te credo anch’io che la comprensione necessiti non di una bensì di molteplici chiavi di lettura.

  44. Ennio Abate

    “Porti flusso e riflusso ai concetti.
    E non sei in dubbio un istante.” ( Manzi)

    Lasciamo stare. Ripassiamo la storia. Fu il marxista “concettoso” Brecht a scrivere:

    LODE DEL DUBBIO

    Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
    serenamente e con rispetto chi
    come moneta infida pesa la vostra parola!
    Vorrei che foste accorti, che non deste
    con troppa fiducia la vostra parola.
    Leggete la storia e guardate
    in fuga furiosa invincibili eserciti.
    In ogni luogo
    fortezze indistruttibili rovinano e
    anche se innumerabile era l’armata salpando,
    le navi che tornarono
    le si poté contare.
    Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta
    e giunse una nave alla fine
    dell’infinito mare.
    Oh bello lo scuoter del capo
    su verità incontestabili!
    Oh il coraggioso medico che cura
    l’ammalato senza speranza!
    Ma d’ogni dubbio il più bello
    è quando coloro che sono
    senza fede, senza forza, levano il capo e
    alla forza dei loro oppressori non credono più!
    Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!

    Quante vittime costò!
    Com’era difficile accorgersi
    che fosse così e non diverso!
    Con un respiro di sollievo un giorno
    un uomo nel libro del sapere lo scrisse.
    Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
    ne vivranno e in quello vedranno un’eterna sapienza
    e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce.
    Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
    che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
    E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
    gravemente cancella quella tesi.
    Intronato dagli ordini, passato alla visita
    d’idoneità da barbuti medici, ispezionato
    da esseri raggianti di fregi d’oro, edificato
    da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie
    un libro redatto da Iddio in persona,
    erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
    che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
    nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
    Veramente gli è difficile
    dubitare di questo mondo.
    Madido di sudore si curva l’uomo
    che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.
    Ma sgobba madido di sudore anche l’uomo
    che la propria casa si costruisce.
    Sono coloro che non riflettono, a non
    dubitare mai. Splendida è la loro digestione,
    infallibile il loro giudizio.
    Non credono ai fatti, credono solo a se stessi.
    Se occorre, tanto peggio per i fatti.
    La pazienza che han con se stessi
    è sconfinata. Gli argomenti
    li odono con gli orecchi della spia.

    Con coloro che non riflettono e mai dubitano
    si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
    Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
    per schivare la decisione. Le teste
    le usano solo per scuoterle. Con aria grave
    mettono in guardia dall’acqua i passeggeri dl navi che affondano.
    Sotto l’ascia dell’assassino
    si chiedono se anch’egli non sia un uomo.
    Dopo aver rilevato, mormorando,
    che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto.
    La loro attività consiste nell’oscillare.
    Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua.
    Certo, se il dubbio lodate
    non lodate però
    quel dubbio che è disperazione!
    Che giova poter dubitare, a colui
    che non riesce a decidersi!
    Può sbagliare ad agire
    chi di motivi troppo scarsi si contenta!
    ma inattivo rimane nel pericolo
    chi di troppi ha bisogno.
    Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
    che tale sei, perché hai dubitato
    delle guide! E dunque a chi è guidato
    permetti il dubbio!

    • Se siamo qui a leggere e a parlarne è perché in qualche modo stiamo andando nella stessa direzione. Non ha senso quindi mettere paletti, sospettare ingenuità, superficialità o peggio compromissioni inconsapevoli per il fatto che non si userebbe la ragione nel dovuto modo. Anche il peggiore dei poeti, se onesto, non può che essere un ribelle e un ricercatore della verità.

      • ro

        Caro Mayoor, ieri ho lasciato cadere il tuo intervento, proprio per non “ripetere” nello stesso contesto la mia controreazione alla tua prima reazione scomposta sulla “baraonda” , da te così approcciata eludendo i temi in oggetto saltandoli a piè pari.

        Mi rendo conto che fra coloro che leggono da “molteplici” punti di vista la cerniera di piombo e legno marcio che salda la pseudo realtà alla realtà , avvengono degli scontri sulle lenti vecchie e nuove o ancora da mettere….ma la cosa che piu dovrebbe stare a cuore prima di qualsiasi viaggio e direzione, è munirsi della mappa indispensabile ad orientarsi, tanto piu in un periodo buio quale questo che viviamo. In cui è possibile che qualcuno abbia all’interno diamanti e lanterne per altri viaggi, più realtivi alla vita spirtuale, da non confondersi però con il nudismo politico minimo richiesto per toccare la materia più possibile così com’è oltre le sue coperture di mille trappole e inganni.

        Se non c’è il desiderio di chiedersi, ognuno di noi, su questa mappa indispensabile, inutile consolarsi dicendo che più o meno tutti stiamo andando nella stessa direzione, che può solo essere messa in questi termini, per chi crede, l’al di là, escluso qualsiasi al di qua.

  45. Questa storia per la quale si pensi che molti poeti non diano segni di pensiero politico sarà anche vera, ma non credo che ai potenti interessi più di tanto. Propendo a credere che l’intellettuale si trovi ai margini, inascoltato, perché non rientra negli interessi commerciali. Penso che nessuno gli vada contro, penso che semplicemente che non interessi, che non sia funzionale agli obiettivi della globalizzazione dei mercati. Perché di mercato si tratta e non di altro. Quindi fare politica, oggi, significa occuparsi di mercato, capirne di economia, saper vedere che direzione ha intrapreso l’astronave terrestre. La ricerca intellettuale quindi non dovrebbe essere rivolta verso il reale, ma verso l’irreale, perché di questo si tratta. Il disvelamento dell’assurdo è davanti agli occhi di tutti ogni volta che si fa giorno, nel silenzio delle cose, degli animali, della natura, e non mi dilungo. Il reale è fuori gioco, a meno che non si pensi che sia l’economia. Quindi, quando si parla dei poeti che non esprimono considerazioni politiche si sta solo dicendo che guardano al reale, che ancora lo sanno vedere. Ma se ne dà giudizio negativo perché bisognerebbe essere contro, contro coloro ai quali non interessa. Capite? Non interessa. Non ti sono contro: non interessa. Fuori dal mercato non esiste nulla. Ti sono contro quando l’ostacoli, quando impedisci la costruzione di un tunnel o di un supermercato. Per il resto puoi pensarla come ti pare. Non interessa. Spedisci poesie tramite iPhone e fai che vengano lette, e la poesia tornerà in auge. Il pensiero valido è quello che fa mercato. Ma tutto ciò è irreale. Non disprezzate i poeti che ancora sanno parlare del corso di un fiume, del volo degli uccelli. Difendono la realtà, la sanno ancora vedere. Da qui nasce il contrasto, lo stridore tra irreale e reale. Oggi se stai nel reale sei ai margini. Ovviamente puoi stare ai margini anche gridando, ma sempre lì stai. Eroicamente, inevitabilmente. I poeti sono una certezza.

  46. emilia banfi

    @ Ennio

    …e dunque a chi è guidato
    permetti il dubbio!
    Brecht

    Eccezionalmente semplice e definitivo

    • Emy, il punto cruciale fra pensatori e pensati, che possiamo definire in questo contesto fra guidatori e trasportati, non è l’eventuale contraddizione fra il metodo, in questo caso attrezzato dell’arte del dubbio, che il pensatore solleva all’altro (pensatore o pensato, pari o dispari che sia) come a se stesso o meno.
      Il punto cruciale, a mio avviso (di qui sviscerare e scavare per secoli, se a opgnuno di noi fosse data una vita così lunga) è ragionare ad armi pari…mi spiego meglio. Se tu Z sollevi a X (pensatore) un’obiezione, un dubbio, una domanda, devi farlo , per essere credibile, entrando nel merito del pensiero di X. Finchè ti interessa solo dire Z, X e Z non si incontreranno mai.

      Il semplice e definitivo che ti sta a cuore sarebbe dimostrato pertanto se allla capacità di articolare “il dubbio” di Abate , in questo come in altri post, tu avessi sviluppato una pari forza argomentativa del dubbio relativo al tuo metodo d’indagine. La sconfitta ad armi dispari, sia del pensatore che del pensato, può anche grazie a questa situazione, porre dei dubbi ad entrambe le appartenze d’origine?

  47. emilia banfi

    Il dubbio sta nella certezza come l’uomo sta nel mondo. Questo è il mio pensiero che non vuole pretendere che tutti abbiano le stesse certezze o gli stessi dubbi. Penso che ognuno di noi debba chiarire con se stesso le proprie incertezze e comunicare agli altri anche i dubbi irrisolti con l’attenzione del sentimento positivo che io chiamo amore e con la sua disponibilità alla comprensione e all’aiuto. E’ un agire che non troverà molti d’accordo, ma è ciò in cui io credo.

  48. Ennio Abate

    “REALISTI” E “IRREALISTI”

    « Questa storia per la quale si pensi che molti poeti non diano segni di pensiero politico sarà anche vera, ma non credo che ai potenti interessi più di tanto. Propendo a credere che l’intellettuale si trovi ai margini, inascoltato, perché non rientra negli interessi commerciali. Penso che nessuno gli vada contro, penso che semplicemente che non interessi, che non sia funzionale agli obiettivi della globalizzazione dei mercati. Perché di mercato si tratta e non di altro. Quindi fare politica, oggi, significa occuparsi di mercato, capirne di economia, saper vedere che direzione ha intrapreso l’astronave terrestre. La ricerca intellettuale quindi non dovrebbe essere rivolta verso il reale, ma verso l’irreale, perché di questo si tratta.» (Mayoor)

    Mayoor non se la prenderà ma, lasciando da parte le etichette di “rivoluzionari” o “pseudo rivoluzionari” del tutto fuori luogo in questa situazione storica, potrei dire, un po’ scherzando, che ha stilato la bozza di un possibile manifesto dei poeti “irrealisti” o “neutralisti”. I quali *ponziopilatescamente* (ma, in questo caso, con lo sguardo volto ai potenti non ai poveri cristi sacrificati e sacrificandi alla globalizzazione) del “reale” se ne lavano le mani e confermano un compito quasi eterno: coltivare il proprio orticello.
    Io ho scritto «Contro i poeti che in tempo di guerra non tremano abbastanza». Mayoor potrebbe rispondermi così: Esagerato! Non vedi che i potenti sono diventati così stra-potenti da disinteressarsi dei poeti e pure degli intellettuali critici? ( Perché – precisiamo – a quelli ad essi plaudenti o “correttamente” critici danno cattedre, prime pagine dei giornali, “porta a porta” alla TV, compassati o sbraitanti che siano). Cosa vorresti che i poeti (i non-potenti), così tanto emarginati, facessero? Fare politica, occuparsi di mercato, capirne di economia? Eh, no! Troppo faticoso, complicato, “intellettualistico”. Anzi, diciamolo con una parola, che piace ai poeti letterati, troppo *prosaico*. Recentemente certi intellettuali – che fessacchiotti! e anche un po’ compromessi coi potenti: c’è persino Umberto Eco di mezzo!- si son permessi di proclamare «Bentornata realtà» (Einaudi 2012). Prendono lucciole per lanterne: «Il reale è fuori gioco, a meno che non si pensi che sia l’economia».

    Beh, potrebbe ribattere un poeta ingenuo ma volenteroso (aggiungo: rinvenibile oggi più tra i vecchi che tra i giovani…): Troviamo anche del tempo per occuparci di economia. Perché dovremmo occuparci solo di metafore o del silenzio delle cose, degli animali, della natura? Perché *questo* “reale” (il campo dell’economico, che poi non è mai solo economico…) deve essere tabù per i poeti? Sono le Muse o altro che lo dissuadono dall’occuparsene? Dopotutto anch’essi – per potersi occupare di metafore, di linguaggio, di silenzio delle cose, degli animali, della natura, del corso di un fiume, del volo degli uccelli – devono prima mangiare, coprirsi, avere una stanza almeno riscaldata. (Specie oggi che, di solito, non sono più discendenti di proprietari terrieri o di industriali o di professori, che queste e ben altre cose le ricevono di solito in eredità).
    Ma forse queste cose (ed altre ancora) già ce l’hanno. Grazie allo Stato sociale (cioè ai dominatori) che ha premiato (finora) anche loro. Per cui possono dire con convinzione: grazie, l’economia, la “realtà” non m’interessa (perché ne godono a sufficienza…).
    In fondo, però, caro Mayoor, non si tratta di mettersi a disprezzare o a invidiare questi poeti benestanti e che possono, tra l’altro, disinteressarsi pure dell’economia e della realtà e occuparsi di tante belle cose che il mondo offre. Si tratta semplicemente di vedere se io, tu, altri, siamo “del giro” (dei benestanti veri) o ne siamo esclusi. Tra gli esclusi forse si possono trovare quelli che *hanno bisogno d’interessarsi* anche di economia, di “realtà”. Perché sono stufi di irrealtà, sogni, immaginari.
    Non ce ne sono più? Se si occupassero di economia, di “realtà”, di politica, gli passerebbe la voglia di far poesia?
    Può darsi.
    Ognuno sceglierà.
    E due mi paiono le vie che possono essere imboccate. O pensi una poesia per il mercato (scrivi: «Spedisci poesie tramite iPhone e fai che vengano lette, e la poesia tornerà in auge. Il pensiero valido è quello che fa mercato») e quindi indirettamente sottomessa ai dominatori del mercato. O pensi a una “poesia esodante”, che non vuole restare nei margini a cui l’hanno costretta ma neppure sgomitare per entrare nel mercato.
    Io tengo a questa via. Si tratterebbe di una poesia *che si fa politica*. Che cioè non è indifferente ai rapporti di dominio ( anche se ai potenti non facesse un baffo, comunque gli resiste. Per il resto si vedrà…). Che è pronta a mescolarsi con quanti – i cosiddetti non poeti, emarginati pur essi quanto una parte dei poeti – potrebbero un giorno o l’altro trovare un varco per ribellarsi e fare la *loro* politica, ricostruire la *loro* polis.
    Imboccata questa via, si tratterà, dunque, di non rinunciare a una idea di poesia che non s’inchini, magari senza accorgersene, ai dominatori. Ad esempio “privatizzandosi”, rifugiandosi nell’”irreale”. Che è, in casi limitati, esplorazione di aspetti della vita che ci sfuggono, l’ammetto. Ma che in genere è la sublimazione consolatoria del “reale” oggi imposto dai dominatori, il mercato se vogliamo.
    Imboccando questa via, una certa poesia potrebbe farsi messaggio di resistenza. (Lasciamo stare le parole grosse: rivoluzione, avanguardia, ecc.). Non illudersi, cioè, di essere “nel suo piccolo”, libera o già *di per sé* politica (come sosteneva in un commento precedente Giorgio Linguaglossa). Perché deve possedere una volontà di resistenza e la consapevolezza di essere in una condizione servile (serva tra i servi). E dev’essere capace di trattenere in sé la memoria di un cielo azzurro (di eventi in cui i dominati, i servi, hanno spezzato anche solo per attimi le loro catene), anche se ora è del tutto ricoperto da pesanti nubi grige.

    P.s.

    Se stessimo tutti andando nella stessa direzione (verso: verità, pace, giustizia, ecc.), non si spiegherebbero i conflitti, le guerre. Non è così. Né, in automatico, anche i peggiori poeti, se onesti ( e già porre questa condizione equivale ad ammettere che ci siano anche i disonesti; e che, dunque, ci sia un contrasto tra onesti e disonesti; e che dunque, non si va «nella stessa direzione»…) sono dei ribelli ( e poi ci sono vari modi di essere ribelli) o ricercatori di verità ( e sappiamo che ci sono varie verità in contrasto tra loro: quelle della scienza sono in contrasto con quelle della religione, ad es.).
    Non si va nella stessa direzione neppure in politica. Ed è vero che non sono solo gli intellettuali, ma siamo in milioni ad essere messi ai margini, inascoltati, pur sostenendo i governanti che siamo in democrazia ed essendone convinti anche gli elettori che infatti gli danno fiducia.

    • Non me la prendo, anzi ti ringrazio così posso cercar di chiarire. Sapevo che invertendo la definizione del reale, dall’economia al corso dei fiumi, avrei corso il rischio di esprimere un disimpegno, eppure a me sembra vero il contrario. Mantenendo vivo il contatto con tutto ciò che è naturale sentirò lo stridore, la violenza, la privazione che deriva dalla falsità. Potrebbe essere questa la posizione che unisce il comune mortale al teorico marxista. Ci possono essere scelte che non escludono possibilità, non portano a dover rinunciare, tanto più se si è nella condizione di non poterne avere. Quanto all’economia, che seguendo questo pensiero sarebbe la massima espressione dell’innaturale, o dell’irreale, o dell’assurdo, paragonabile ad una gabbia di cui s’è persa la chiave, una gabbia per primati o per oche all’ingrasso… oche: fa pensare al vecchio koan dell’ “oca è fuori”, un non sense per la mente e per il dramma di esistere nella privazione. Ma ne ho scritto, anche se come al solito con l’attenzione rivolta all’assurdo:

      Al denaro, all’infinito.
      Al denaro: una volta intesi, e bastasse la movimentazione, potremmo passare alle picconate. Bisogna contare sull’indifferenza del committente venduto alla propria automobile, alle svariate forme del niente, in alternativa pagare i debiti di gioco con la fuga. Liberarsi da una idea sorpassata scrivendo alla comunità. Non appena il denaro colpevole sarà promesso, il proprietario potrà riscuotere la sua ricchezza. Insomma, io ci provo. L’automobile servirà per pagare l’affitto, sarà come barattare una poesia strategica, di quelle che si possono leggere avendo tempo, in galera. Prendere tempo. Una persona arrogante, un povero disonesto, oppure un ricco concessionario, queste cose le sa. Se avessi della movimentazione in alternativa, un’automobile picconata, o anche soltanto una poesia indifferente, sarebbe meglio. E potremmo dirlo che è tutto una bella merda, ma pensarlo è meglio, e comunque non è denaro. Al concessionario dirò che se avessi già quell’automobile, pure nelle svariate forme del niente, potrei ricavarne l’idea sorpassata di essere in alternativa. Oggi tutte le persone arroganti ci credono. L’etica del credito è un’astrazione committente, nel senso che pone la ricchezza ai margini della negoziazione. Ovvio. Un po’ come trattare qui e là come fosse all’infinito.

  49. @ Mayoor

    1. Il contatto con tutto ciò che è (ancora) naturale è , specie per noi occidentalizzati, ben poca cosa. A meno che non ci contentiamo del naturale finto o residuale che ancora riusciamo a “sentire” nelle nostre aree metropolitane.
    2. Tuttavia, anche laddove tale contatto non risulti immaginario, non mi pare che il problema sia di “sentire” « lo stridore, la violenza, la privazione che deriva dalla falsità», ma di pensare come sia possibile limitare o contrastare con la pratica ( *politicamente*) quelle violenze e privazioni. Sentirle soltanto ci porterebbe ad un atteggiamento da esteta, che non ha nulla a che fare né con quello del «comune mortale» né con quello del «teorico marxista».
    3. L’economia è un sapere degli uomini che ha avuto una sua storia al pari dell’arte, della poesia, della filosofia, ecc. Non si può liquidarla con una metafora ( « una gabbia di cui s’è persa la chiave, una gabbia per primati o per oche all’ingrasso»). Non capisco perché le sue nozioni non possano entrare nella cultura di base di un poeta, mentre c’entrano tante altre cose.
    4. Tutto il discorso che fai sul denaro lo trovo incomprensibile. Se puoi, chiarisci.

    • 1 – “noi occidentali”, sei tu? Figli, mogli, e mettiamoci la città, l’urbanistica, il cibo che mangi, quando sei solo, quando e quando… son poca cosa?
      2 – Ragionare senza sentire, senza esperire a me sembra una vera astrazione.
      3 – Entrano entrano, ma non sono tutto.
      4 – Incomprensibile lo è anche per me, per questo ho scritto quei “versi” dove il senso è solo una parvenza. Se non fosse tutto, ma proprio tutto assurdo, forse qualcosa si potrebbe salvare? In questo caso saresti tu il possibilista.

      • Giorgio Linguaglossa

        Scrivevo a proposito di una strofa di Zagajevski:
        Ecco, ho citato questa poesia che descrive una esperienza «privata», anzi «privatissima», per dire che è sempre una esperienza «privata» quella che ci fornisce le chiavi per accedere a una esperienza «pubblica», cioè «politica».
        Ennio Abate risponde:

        «Non mi pare che ci sia questo filo diretto tra esperienza privata o privatissima e esperienza pubblica ( che poi non significa automaticamente politica…).
        Quanta poesia privata o privatissima resta tale?
        E nel caso che hai analizzato della poesia di Zagajevski non vedo indicato ( né da parte tua né da parte del poeta in questione) nessun riconoscibile legame tra questo “reale” (sedia, tavolo, saliera) e il pubblico o il politico (quale?).
        Mi permetto anche un’altra obiezione: forse che il “reale” è fatto solo di oggetti e di oggetti comuni di casa?».

        Rispondo: gli oggetti in una poesia di un certo Autore non sono i medesimi oggetti di una poesia di un altro Autore. Bisogna fare una distinzione. In poesia gli «oggetti» sono semplicemente «oggetti linguistici» appartenenti a un certo tipo di discorso poetico (che risponde a una Storia letteraria e a una Storia sociale, politica etc.): Gli oggetti sono oggetti antropologici, che hanno un senso nel contesto dell’uomo e di una certa epoca della sua civilizzazione. In un tale contesto di significati e di segni sociali sedimentati ha senso parlare di «oggetti». Non dimentichiamo che la rivoluzione francese ebbe inizio per la questione del «pane», la qual parola era sconosciuta ai benestanti della corte del re Sole; ma il «pane» è un oggetto non solo linguistico ma reale, che appartiene ai bisogni primari degli uomini. Quando Zagajevski ci dice che «sedia, tavolo, saliera» escono dal buio, vuol dire che di nuovo quegli oggetti ci parlano, sono oggetti significativi «per noi», è questa la grande lealtà del poeta polacco (perché un poeta deve essere leale, non può mai giocare con le parole, le parole non sono interscambiabili: sono lì, da sempre, e ci sopravvivranno, sono importanti; per questo bisogna riconoscerle). Il poeta polacco rispetta le parole, le usa con grande risparmio e attenzione, stanno lì appese nel pentagramma dei suoni non a caso o secondo della bontà o bellezza dei loro suoni ma a secondo la grandezza del discorso che va facendo. Le parole grandi stanno in un grande discorso, quelle piccole stanno nei discorsi da bar o nelle pagine dei piccoli letterati.
        La parola «privata» se messa in un grande contesto (romanzo o poesia), diventa subito «pubblica»: è parola pubblica.
        In fin dei conti il capitalismo un giorno finirà. Tra 250milioni di anni i tre continenti del pianeta terra saranno riuniti in un unico grande megacontinente chiamato Pangea che sarà un deserto di sabbia sotto una grande gelo universale, e il mondo sarà inabitabile per gli umani, se ancora ci saranno umani in giro. Ma la poesia si fa oggi per l’Oggi, non posso aspettare che finisca il capitalismo (anche se lo spero); aspetto anche che finisca la commedia delle religioni monocratiche e teocratiche… ma la poesia non si fa sull’attesa ma sul qui ed ora.

  50. emilia banfi

    Volevo dimostrare
    che anche senza denaro si può campare
    un pane me lo ha dato una zia
    la carne la vicina di sotto brava donna
    un materasso don Nino tanto santo
    il buono per quattro colazioni me lo ha dato il sindacato
    per fortuna mia la tessere scadeva in luglio
    La fede me l’ha data il mio coraggio
    ho creduto nel mio vizio quello di campare
    sono stata in fattoria e ho rubato sette uova

    Poi ho pensato a tutta quella gente
    avevan tanti soldi
    solo io in tasca avevo niente.
    Ma solo di soldi non si vive
    mi dicevo e ridicevo
    ma è arrivato un treno nero
    e lì le cose son cambiate per davvero.
    Emy

  51. emilia banfi

    La precisa risposta di Linguaglossa porta a quella realtà in cui nulla è nostro finchè diventa pubblico solo allora qualcuno deciderà per noi se quello che abbiamo sarà nostro. Politica o vangelo forse sono la stessa cosa.

  52. emilia banfi

    e.c.: finchè “non” diventa pubblico

  53. ro

    Emy, per la simpatia reciproca che ci lega, e vista l’estate, mi permetto uno scherzo . Che ne diresti se ti cimentassi in un compito per le vacanze?

    – visto che per me siete due gemelle, una che(sul piano politico) fa la finta (e o) tonta e l’altra che (sul piano poetico) è ben tutt’altro…

    – visto il panino e il pane…

    – visti i discorsi inconciliabili fra natura e lavoro (pensa a taranto, dove non si sa più se il discorso ambientale è stato sollevato, solo da un certo momento in avanti, per spostare il tutto, a comando dell’imperatore,volatilizzando acciaio da un ‘altra parte, miliardi id panini che saltano da un’altra parte)

    che ne dici di tirare le fila di questa pagina in un tuo verso?

    Ognuno possibilmente in relazione con l’altro così come non è stato, e non è stato, almeno per me, non per assenza del reale o mitico pianeta amore….potresti davvero intuire come doveva andare, ad esempio facendo parlare la vecchia mucca a pois di Lucio, la lampada di Giorgio, la rondine di Ennio, la rosellina e un fior di fiore di Giuseppina e di Rita . Di me puoi prendere a tua scelta la balena o la lepre. E di eventuale altra/o/i lettore/i totalmente muto/i, la sua pizza ( margherita o della sala del cinema).

    ciao.

    ps salutami la tua gemella .-)

  54. emilia banfi

    Cara Rò la mia gemella ha fatto il 68…lacrimogeni,cortei, il giornalino,resistenze passive, femministe (buone quelle che si sono dileguate proprio quando lei stava per morire),poi ecologia , infine sbattimenti vari ecc, ecc. è stanca , l’ho rivista andava per le campagne su una mucca a pois,con una rosellina in bocca, una lampada sempre accesa (del buio ne ha abbastanza) vede le lepri rincorrersi senza mai capire dove andranno.. E’ un bel film il suo ed io che ancora vorrei seguirla resto a guardare il suo passaggio, perché ogni tanto ritorna a chiedermi di andare ma io ora ho un’auto una casa un amore . Le passo ogni volta un foglietto , un po’ di parole lei lo legge e poi mi guarda mi fa sentire in colpa, dice che la poesia è ben altra cosa. Ciao Emy

    • ro

      Cara Emy, grazie di questa tua “relazione” diciamo pure molto molto “vera”, alla facciazza della gemella, dei gemelli, del grande reality globo, dei manipolabili e di tutti gli “ismi”, ma soprattutto di coloro che non hanno un capito una non beata, né santa m…..delle grandezza poetica-politica dentro il tuo indaffaratissimo “fare poesia”….il morire a cui ti riferisci ( che non ha bisogno, almeno da parte mia, di essere indagato con domande tecniche sulle cause e i sintomi) ha forse fato nascere quello che rivendichi e che per una parte compone senz’altro quel suono potentemente scomodo e ingombrante, chiamato amore, nel suo v’angelo bucato d’ombre rosa e bagliori di chiodi. La domanda che si pone urgente all’io di chi ha partecipato in questa pagina muto o parlante), ancorché espressa in puntuali relazioni come la tua, è sul senso di quanto poteva avvenire e non è avvenuto (anche in questa pagina) e quindi quale cambiamento di condizione di vita, perlomeno del pensiero, rivoluzionario nel senso pieno anche se di un invisibile e infinitesimale gruppo,nel suo piccolo passo da uno stato di pensiero all’altro.

      buona giornata a te e a tutti

    • Ennio Abate

      Ahi noi!
      Il passato ridotto a “un bel film”…
      E c’era bisogno di fare il ’68 ( o il ’77) per accontentarsi di “un’auto una casa un amore”?
      Meno male che la tua gemella ti fa sentire in colpa.
      Io le dò ragione: mica la poesia (un foglietto) è un tappabuchi.

  55. @ Linguaglossa
    “Le parole grandi stanno in un grande discorso, quelle piccole stanno nei discorsi da bar o nelle pagine dei piccoli letterati.”
    Dopo l’informale i colori si sono mischiati, sporcati, dando vita a forme espressive astratte che hanno rimescolato il tema, ma non per questo sono venute meno al significato. In apparenza si trattò di una commistione regressiva, ancor più di quanto seppe fare Picasso con quel suo ritorno al primitivismo, tuttavia il mazzo delle carte, diciamo così, si arricchì di nuove possibilità. Ma capisco che per i letterati le parole non sono colori: non si guardano, si leggono. Può servire allora che la sporcatura si faccia più attenta e minuziosa.

  56. emilia banfi

    A Ennio:
    Quello che tu pensi l’ho scritto io.

    • Emy. statisticamente parlando (non però sulla base della scienza e tecnologia dei sondaggi contemporanei anti-uomo) è più frequente ( e facile) nella Storia ( e nelle singole storie di cui è composta) il conflitto(tensione) o lo scontro, rispetto alle frequenze della tensione verso l’incontro ( sia dei gemelli interiori, che dei gemelli o addirttura figli unici esterni)…Quindi quanto non è avvenuto e continua a non avvenire ( sia fra pari che fra dispari, che fra pari E dispari) è paraddosalmente tutto nella predetta norma statistica, sicuramente quella stessa che buca anche il video ed è al contempo la più bucata della storia.

  57. Giuseppina Di Leo

    Il concetto secondo cui il poeta che non scrive di economia o di politica viene automaticamente classificato tra “irrealisti” o “neutralisti” (Abate) non lo accetto. E non solo o non tanto perché le categorie sono di per sé stesse limitative e fuorvianti quanto perché non vedo nessuna ‘irrealtà’ o ‘neutralità’ nel parlare di quotidiano/privato/soggettivo nel momento in cui ciò comporta la stessa esposizione (il metterci la faccia) e la stessa serietà (onestà) di chi scrive di politica ed economia – argomenti qui, a quanto pare, ritenuti i soli ammissibili .
    Invece proprio l’invisibilità nella quale oggi viviamo – a dispetto di tutti i blog e facebook e simili – dovrebbe indurci a riflettere un po’ di più se il quotidiano/privato in poesia non abbia altrettanto valore di una poesia che parla di temi espressamente politici o economici. Forse non c’è nessuna differenza di genere tra i due e più tipi di argomenti.
    Resta naturalmente indubbia l’importanza che riveste l’essere informati o l’approfondimento di temi e materie specifiche.
    Ma nel momento in cui * noi accettiamo di distogliere lo sguardo fisso su di essa [realtà]* (Simonitto), la poesia tratterà di scelte messe in campo, non avulse da quella stessa realtà che detta regole e restrizioni dall’”alto”, e forse sapranno indagare, con parole magari insolite, concetti non meno impegnativi di quegli altri (v. ad es. la poesia di Amelia Rosselli).
    Trovo dunque inaccettabile considerare spazzatura tutto ciò che non fa o non è espressamente politico.
    Sul tema dell’amore dico altrettanto. Certo, l’amore non produce “ricchezza economica” (lasciamo perdere l’uso distorto e l’utilizzo che si fa della parola, e non solo a parole), dato che amare implica assoluta “gratuità”. La ricchezza che se ne trae è però vitale.

  58. Ennio Abate

    @ Di Leo

    Di solito io leggo attentamente gli scritti altrui e cito anche i passi che contesto per evitare considerazioni impressionistiche e vaghe. Vorrei che fosse fatto lo stesso anche con i miei.

    In nessun mio scritto c’è una sorta di prescrizione al poeta di scrivere di economia o di politica né una condanna *assoluta* della poesia lirica o non esplicitamente politica come fosse «spazzatura» (termine da me mai usato).
    Ho posto dei problemi non delle prescrizioni.
    Del tipo:

    «Può/deve interessare chi fa poesia quanto si sta svolgendo “dietro le quinte” a livello mondiale? Può valere la pena chiedersi se questo “abbraccio” con gli USA è amichevole o mortale per l’Italia e quanti l’abitano?
    Può servire confrontare i discorsi che si fanno sulla crisi della poesia, sul “Dopo il Novecento” (Linguaglossa), sul pensiero e sull’amore, sul semplice e il complesso con i discorsi “intellettualistici” (per alcuni) di La Grassa?
    Ne potrebbero venire delle correzioni, degli sviluppi più concreti nel nostro campo poetico? O ci lasceremmo solo distrarre da cose che con la poesia non hanno mai avuto e mai avranno qualcosa da spartire?
    Lascio aperto il problema».
    (28 giugno 2013 alle 18:52)

    E sono stato molto cauto per evitare estremizzazioni:

    «È forse da collocare su un gradino più basso rispetto al gradino della politica?
    Direi no. E specie oggi che siamo di fronte alle caricature “privatistiche” sia della politica sia – come tu spesso insisti a dire nei tuoi scritti – della stessa poesia!
    Con questo non estremizzo.
    Per me, viste le difficoltà dell’”epoca” e come tu [Linguaglossa] dici, «il pensiero privato non è affatto inutile». E anzi non condanno neppure l’uso privato o consolatorio o terapeutico della poesia abbastanza diffuso tra i moltinpoesia. Ma le cose devono essere chiare. Non confonderei le questioni.
    Il danno che deriva alla politica e alla poesia dalle “privatizzazioni” (soprattutto teleguidate da chi ha in mano i mass media) è enorme. E il privato per quanto “non inutile” non ci riporterà mai ad un vero sviluppo del pensiero critico ( e della poesia, che per me è inseparabile da quello).
    E, dunque, mi pare che tu sbagli a sostenere che il tuo « esercizio di «pensiero privato» per un uso privatissimo che più privato non si può» possa passare per « un pensiero politico, nel senso più vero e schietto». Come avverrebbe questa “transustanziazione” me la devi spiegare!
    No, i piani della poesia e della politica non possono essere confusi per disperazione o ingenuità. Vanno ricostruiti e rimessi in comunicazione tra loro,cosa che le “privatizzazioni” impediscono.
    Bisogna dire pane al pane e vino al vino. La crisi non deve indurci ad accettare surrogati. Né in politica. Né in poesia.
    Accetto l’ipotesi che anche in privato si possono coltivare germi di *politicità* (che, per così dire, l’io possa – in privato – allenarsi a diventare un noi o almeno un io-noi; o a resistere, a non rassegnarsi ad essere solo un io-io). E che, in determinate circostanze storiche favorevoli, questi germi di criticità e di poesia potrebbero essere meglio sviluppati.
    Ma non posso accettare l’ipotesi che il privato sia già *di per sé* politico (o il massimo del politico, pur restando il predominio dei “politicanti”)»
    (29 giugno 2013 alle 16:52)

    Però, conoscendo anche i miei polli (poeti, me compreso), i quali , *in quanto poeti* , sono sempre tentati dal sentirsi più liberi di altri, mi sono chiesto perché dovrebbero sottomettersi al tabù di non occuparsi di economia ( che non significa neppure automaticamente scriverne):

    «Beh, potrebbe ribattere un poeta ingenuo ma volenteroso (aggiungo: rinvenibile oggi più tra i vecchi che tra i giovani…): Troviamo anche del tempo per occuparci di economia. Perché dovremmo occuparci solo di metafore o del silenzio delle cose, degli animali, della natura? Perché *questo* “reale” (il campo dell’economico, che poi non è mai solo economico…) deve essere tabù per i poeti? Sono le Muse o altro che lo dissuadono dall’occuparsene? Dopotutto anch’essi – per potersi occupare di metafore, di linguaggio, di silenzio delle cose, degli animali, della natura, del corso di un fiume, del volo degli uccelli – devono prima mangiare, coprirsi, avere una stanza almeno riscaldata. (Specie oggi che, di solito, non sono più discendenti di proprietari terrieri o di industriali o di professori, che queste e ben altre cose le ricevono di solito in eredità)».
    (1 luglio 2013 alle 18:05)

    Infine ho virgolettato non a caso sia il termini “realisti” che i termini “irrealisti” o “neutralisti” e precisato, sempre per evitare estremizzazioni sciocche come quelle che qui mi vengono attribuite:

    «si tratterà, dunque, di non rinunciare a una idea di poesia che non s’inchini, magari senza accorgersene, ai dominatori. Ad esempio “privatizzandosi”, rifugiandosi nell’”irreale”. Che è, in casi limitati, esplorazione di aspetti della vita che ci sfuggono, l’ammetto. Ma che in genere è la sublimazione consolatoria del “reale” oggi imposto dai dominatori, il mercato se vogliamo.» (1 luglio 2013 alle 18:05)

    D’altronde per tagliare la testa al toro ho sempre condiviso l’opinione che in poesia si possa parlare di politica parlando semplicemente di rose.
    E lo scrivevo ad un amico con cui ebbi in proposito una discussione:

    «[…] mi pare giusto controllare *anche* la forza politica implicita in una poesia che parli solo di rose.
    In tempi di guerra, non scompaiono gli alberi e i fiori, ma c’è la guerra. Il poeta può non nominarla, ma parlando di alberi e fiori, deve farmi sentire che sono alberi e fiori *in tempo di guerra*. Se no, fiori e alberi saranno decorazioni che coprono quella realtà e non forme che la svelano, magari più di una cronaca o di un saggio.».

  59. emilia banfi

    Sai Giuseppina …mi viene un dubbio…grumble …grumble…grumble…che sia politica anche l’amore? Spero di no …ma…qualche volta ha un prezzo…grumble ….grumble….grumble…no perché sai io ho sempre amato gratis …ma quando mi ammalo guarisco in fretta.
    Ro’ tu che ne dici?

    • ro

      mia cara Emy, l’ “argomento” amore è così politico, ma così politico , che mai lo è stato come oggi così tanto. Del resto se è tale e anche per un suono comune che politica e amore hanno, di peso innumerabile ma solo ad una condizione: totale e radicale esclusione di potere sull’altro (cosa che Ennio non deve ancora avere molto chiarito in sé, anche se vuole parlare e sa parlare dei Poteri, ma non è il solo. In altri modi è così per Linguaglossa ed altri di immensi altri valori, di cui però alla fine rimangono prigionieri. Ed a ognuno di noi le ripesttive prigioni. Alcuni più vicini di cella, altri in isolamento, altri divisi con altri muri etc etc)…

      La parola a cui mi riferisco è passione in entrambi i lati della stessa, ergo croce/oltre il prezzo, olte ogni scambio, attesa, proiezione, soddisfazione, frustrazione…che è poi il tuo dire, quando alcuni commenti sopra hai detto vangelo…

      Sulll’ammalarsi e il guarire continuo (che è poi tipico della morte e della vita) è talmente alto il senso e la forza interiore a quel tipo di abbandono, che così a caldo in un commento mi tremano le mani per poterle ben connettere alla parola che le descriva.

      • Giuseppina Di Leo

        a Ennio Abate
        Se le mie sono “considerazioni impressionistiche e vaghe” e oltremodo “sciocche”, che dire?
        serve rispondere?

    • Giuseppina Di Leo

      Emilia, non mischiamo il sacro col profano.

  60. ro

    @Giuseppina Di Leo
    Il problema è senza soluzione , quest’idea è ovviamente relativa alla mia “esperienza” in questo “gruppo” di partecipanti che tali non sono, e quindi il “gruppo” stesso non avviene mai….l’impostazione, fatta di natura e metodo della ricerca di Abate, lo anelerebbe ma di fatto non lo consente, infatti si può sperimentare in questa come in altre pagine l’avvitamento di ognuno nelle sue posizioni e le forze diverse, deboli o piu determinate, s’illudono di potersi avvicinare a un punto di vicinanza comune, per poi allontanarsi ognuno più forte della sua costellazione…Il primo che non oppone resistenza a questo continuo della giorno della marmotta, è colui che a parole desidererebbe coscienza di classe, di classe poetica politica, ma sia fra dispari come lui (vedi Linguaglossa) sia con i pari , prevale il suo canto e controcanto assolo, creando di fatto tanto assoli. L’orchestra non può decollare e di conseguenza ogni strumento porta la sua partitura (le rispettive note, esecuzioni, interpretazioni, autori). Ad intervalli piu o meno regolari vuole ritornare alla sua amata parte e ruolo di direttore d’orchestra ma ognuno si fa ormai il suo assolo, muto o musicante, più atollo di prima. Nel ripetersi infinito di questo movimento non movimento, il vantaggio c’è indubbiamente da una parte dell’arrichimento musicale di ognuno, ma l’altra faccia della medaglia è che il male e il bene prodotti, sono in un amalgama del tutto privato del comune moltiplicare tipico di una tensione e livello dell’essere sociale, non costretto dai giochi di forza a ritirarsi nel suo guscio per il caos degli assoli.

  61. Ennio Abate

    @ Di Leo

    Sì, le tue considerazioni mi sono parse impressionistiche e vaghe e mi attribuisci anche delle estremizzazioni sciocche. Ho cercato di documentarlo.
    Se non è così, serve rispondere.

    @ ro

    Il raggiungimento del “punto di vicinanza comune” è impedito dalla “natura e dal metodo [quale?] della ricerca di Abate”? Cosa fare con gli “assoli” che stonano?
    Suggerisci tu un altro metodo se la sai più lunga.

    • Giorgio Linguaglossa

      cari interlocutori della Grande Crisi,
      trascrivo qui una poesia di un poeta di cui voglio tacerne il nome per lasciare più spazio alle valutazioni: Si narra di una Grande Guerra e di un sopravvissuto che torna a casa (si passa quindi dal Pubblico della grande guerra al Privato della sua casa). Sarei interessato a conoscere le personali valutazioni:
      Poesia dell’allievo Tu I

      Quando tornai a casa, dopo il tempo dell’invasione dei tartari,
      mi rallegrai che la mia casa fosse stata risparmiata,
      mi rallegrai nel trovare mia moglie, in piedi, in cucina
      che mi scaldava il tè nel bricco che bolliva sul fornello,
      il fedele domestico, più vecchio e più magro… c’era financo lo sgabello
      ancora intatto sul quale un tempo posavo i piedi dopo pranzo,
      mi rallegrai nel trovare Zerco,
      il mio cane, che mi venne incontro scodinzolando,
      (lui sì, mi aveva riconosciuto)
      mi rallegrai nell’ascoltare i racconti di mia moglie
      circa i morti dei vicini, le uccisioni, le depredazioni inaudite
      e le vicende degli amori clandestini che erano fioriti in quegli anni cupi…
      mi rallegravo del cinguettio dei passerotti sugli alberi, che il mondo
      continuasse a girare come prima.
      Mi rallegravo io stesso
      di essere sopravvissuto in tutti quegli anni
      dell’invasione barbarica.
      «Dopo tutto è il male minore
      essere ancora in vita – mi dicevo per rassicurarmi –
      e c’è un male peggiore,
      quello di non esserlo più, in vita»;
      ma non riuscivo a persuadermi,
      a capacitarmi del tutto e guardavo dalla finestra aperta
      i rami del mandorlo fiorito che uscivano dal buio ed entravano nella finestra
      così, senza cercare nulla, senza volere nulla

      • Giuseppina Di Leo

        A leggerla viene in mente la storia di Giovanni Drogo, o meglio il prosieguo della storia, quella dell’altro, del comandante Simeoni, l’usurpatore della sua (di Giovanni) stanza da letto. L’abbinamento al romanzo di Buzzati – che è anche ciò che mi ha colpita – è nel ritorno all’ abitudine, antica e mai spenta: il bricco del tè sul fuoco, le piccole storie da ripetersi tra coniugi.
        Il tarlo della paura di morire resta tra le righe e si fa dolce nella visione dei rami in fiore.
        Perché, in fondo, la vita ci dà già tutto, ma “così, senza cercare nulla, senza volere nulla”. Semmai lo spreco sta nel chiedere senza sapere esattamente cosa.

    • Giuseppina Di Leo

      a Ennio Abate
      Con simili premesse non c’è dialogo. Più evidente di così.
      Mi rifiuto di rispondere.

      • a Di Leo

        Io ho riposto a un attacco, a una critica (del tutto legittima, ma che considero sbagliata). Mi hai attribuito con una certa superficialità una cosa che non penso e non ho scritto: che considererei “spazzatura tutto ciò che [in poesia] non fa o non è espressamente politico”. Ed ho controbattuto ( e anche questo mi pare legittimo) citandoti dei brani che smentivano le tue affermazioni. Stop.

  62. Ennio Abate

    A me pare che la cascata di anafore (mi rallegrai, mi rallegravo) trovino un’apparente quiete in un’elementare adesione alla vita (male minore rispetto alla morte). Che però subito svanisce.
    Non capisco bene se il verso finale “così, senza cercare nulla, senza volere nulla” va attribuito ai rami del mandorlo o , più probabilmente, a chi guarda dalla finestra aperta.
    A prevalere qui non è né il pensiero della Storia né quello del Privato ma proprio il pensiero del nulla.
    Nella caccia all’autore ho pensato istintivamente al Brecht “orientaleggiante”, ma forse mi sbaglio.

  63. Ritrova la sua casa, i suoi affetti e se ne rallegra. Per lui è reale ciò che riconosce, ciò che fa abitudine. Teme l’impermanenza, sembra avere costantemente bisogno di uno scopo da dare alla sua esistenza. Dev’essere un uomo intelligente. Per un uomo così l’accorgersi del mandorlo che fiorisce senza chiedere nulla, senza uno scopo evidente, è una novità di rilievo. Poi chissà, si accorgerà del cielo che cambia ogni giorno, di se’ stesso sotto questo cielo, insomma del reale che c’è sempre stato, quello solo che pur cambiando in ogni istante, non cambia. E’ con questo reale che quell’altro di cui si parlava, quello politico-economico, deve fare i conti ogni giorno. Ma l’errore è la scelta: se stare solo da una parte o dall’altra. Ogni scelta comporta rinuncia, la perdita di qualcosa. La via di mezzo buddista non ha niente a che vedere con il centrismo democristiano, non è diplomazia, ne è disimpegno. Lo dico per coloro che hanno dell’oriente una visione romantica, esotica, che non hanno mai approfondito per partito preso, che conoscono solo la grande storia di casa loro.
    Ma di chi è questa poesia, tanto interessante ma che di poesia non sembra avere un solo verso?

    • Laura Canciani

      non saprei dire chi sia l’autore di questa poesia; ma non importa. È la poesia di un sopravvissuto, un soldato che ritorna dopo l’«invasione dei barbari» (i tartari), uno sconfitto. È il racconto che uno sconfitto fa a se stesso, solo a se stesso. Dovrebbe essere contento di essere ancora in vita, ma non lo è, anzi, si sente quasi in colpa di esserlo. Non c’è una metafora, non c’è una immagine, la narrazione (perché si tratta di una narrazione) anche se in versi, cioè con degli a-capo, procede con la tranquilla pacatezza di un racconto segreto che si fa accanto al focolare domestico, il racconto va al centro del mistero dell’esistenza di un uomo sconfitto, dopo che la sua patria è stata devastata dai «tartari»; dopo innumerevoli «depredazioni» e uccisioni e ritrova , miracolosamente, ancora in vita la sua famiglia, il suo paese, il suo cane Zerco (l’unico che lo ha riconosciuto): il sopravvissuto si meraviglia di tutto, non ha più niente da chiedere a nessuno; ritorna come Ulisse alla casa di Penelope e trova sua moglie in cucina.. ha combattuto da giovane contro i barbari, ed ora che se ne sono andati la sua vita non ha più senso, non chiede più nulla alla vita, non chiede nulla a nessuno: soltanto guarda i «rami di mandorlo fiorito che uscivano dal buio e entravano nella finestra».
      È una poesia racconto, una cineseria? o una finta cineseria?, una poesia di un cinese? o è una poesia di un contemporaneo?; il bello é che potrebbe essere una traduzione di una poesia di duemila anni fa come anche essere una poesia di oggi. Tutto ciò è molto strano. È comunque una poesia di un «privato» che parla un suo linguaggio «privato»: infatti si rivolge solo a se stesso, sono parole della sua mente che il sopravvissuto non ha neanche il coraggio di pronunciare a voce alta; è una poesia non fatta per un messaggio, non vuole edificare né dire alcunché di interessante al «pubblico», ma è, ritengo, una poesia «politica». È l’amara riflessione di uno sconfitto che si sente un sopravvissuto in un mondo che non riconosce più. Ecco, credo, il punto centrale: il sopravvissuto non riconosce più il suo vecchio mondo, egli è diventato estraneo a tutto ciò, e al mondo che sorgerà. Ritengo che questa poesia molto, molto privata, sia un ottimo esempio di poesia «politica».

      • Giorgio Linguaglossa

        caro Ennio Abate,
        il tuo manifesto in 14 punti sulla “poesia esodante” è un punto di partenza molto importante per la poesia di oggi ed io non ho altro da aggiungere a quanto tu hai già ben declinato nei 14 punti: il tuo è un pensiero della Grande Crisi della Poesia Italiana; la tua poesia: “Ultimo dialogo tra il vecchio scriba e il giovane giardiniere (2002-2009)”, è una delle più belle cose che tu abbia scritto e ti inviterei a pubblicarla di nuovo affinché tutti noi la si possa rileggere e commentare. E’ una poesia che io definirei di un «privato» che si rivolge ad un altro «privato», ma è una poesia «politica» proprio perché è una riflessione di uno «sconfitto» (come dice Laura Canciani). Pubblicala e commentiamola insieme.

    • Che non ci siano versi di poesia è un fatto. Questo non toglie che non tia seguendo passo dopo passo quel che combina Linguaglossa-poeta, perché in qualche modo intuisco la complessità della sua ricerca. D’altra parte il suo a me sembra il caso davvero inconsueto dove è assai difficile separare il poeta dal critico. Il secondo sostiene il primo, e lo fa egregiamente da par suo. Dove porterà? Ecco, questo è per me molto interessanteo, siamo nel farsi di un intrigo.

  64. emilia banfi

    No, Giuseppina, io non ho mischiato il sacro con il profano ma bensì il profano con il sacro e spesso non guasta a nessuno dei due questa miscela.

  65. emilia banfi

    A Linguaglossa e alla sua splendida poesia, dico splendida perché riassume un po’ la vita, la sconfitta il rinascere per se stessi come fa la natura , così , semplicemente. I fatti che hanno distrutto non solo la sua terra e la sua famiglia rendendola dimentica dell’amore che prima li univa , non hanno minimamente intaccato l’animo del cane, il fiorire del mandorlo.Ricominciare da se stessi , pulirsi di tutto attraverso quel tutto che continua ad esistere intatto , incapace di pensare a qualcosa a nient’altro che alla propria esistenza , solo per vivere e donare disinteressatamente , solo allora sarà rinascita, solo allora si formerà la nuova socieà. Grande messaggio . Poesia scritta tanti anni fa ma potrebbe averla scritta anche lei, Sig, Linguaglossa. Cordialità.

  66. ro

    @Ennio
    “………Suggerisci tu un altro metodo se la sai più lunga.”

    in quella tua di stamane hai dimostrato tu di saperla così lunga ma così lunga, che se agli altri chiedi di crticare, argomentare,etc puoi liquidare, sempre gli altri, saltando a pié pari, seguendo la tua linea dura e pura, e se a te piace offendendo (in fin dei conti te stesso) vuoi le considerazioni altrui, vuoi le obiezioni, vuoi altro …molto probabilmente questo o quel “io_noi” e “gruppo” c’è , avviene , è musicante, sta in piena salute e pertanto non v’è ragione da parte tua e di altri di ravvederne movimenti esodanti, stati di crisi, difficoltà, incomunicabilità, etc etc
    —————-
    @
    complimenti a Linguaglossa per quel testo.

    • a ro

      Ormai ti conosco da troppo tempo per mettermi a fare i predicozzi che tu insisti a farmi. Come altre volte eviti di entrare nel merito. Basterebbe rispondere alle domande di chiarificazione che ti ho – credo gentilmente – rivolto. Invece preferisci bastonare il fantasma che ti sei fatta di me
      (il Liquidatore degli altri, Il Duro e Puro e Offensivo, ecc.).
      Amen.

      • ro

        Non credo che mi conosci, altrimenti avresti risposto in varie occasioni come questa, relativa agli assoli…a questo punto vorrà dire che se avrò tempo e voglia di farmene anch’io uno, passerò da queste parti.

  67. Giuseppina Di Leo

    a Ennio Abate
    Il mio intervento è stato e voleva essere un mio punto di vista su ‘tutto’ quello che si era detto: non era rivolto a Ennio Abate né a qualcuno in particolare – ho la buona abitudine di citare le persone a cui mi rivolgo. Sui termini utilizzati, mi assumo la ‘mia’ responsabilità della parola spazzatura – nata come deduzione, sbagliata forse – ma che: non si può forse sbagliare su questo blog? è vietato? e perché?
    e, di contro, cosa mi sento rifilare? una serie di improperi…
    signorno’, non ci sto

    • Ennio Abate

      a Di Leo

      Per me definire “impressionistica” un’interpretazione (la tua) o usare l’espressione “per evitare estremizzazioni sciocche come quelle che qui mi vengono attribuite” non sono buoni esempi di “improperi”.
      Certo, si può sbagliare su questo blog, che non è una caserma ( ma neppure una latrina per sfoghi personali). Ma si può (e ci si può) anche correggere. Magari vicendevolmente, senza fare i permalosi/e.
      Ho detto che la tua critica (giusta o sbagliata; diretta a me, come fa pensare la citazione iniziale, o meno) era/è legittima. Com’è stata legittima la mia controcritica (giusta o sbagliata).
      E’ un segno di leggera ipocrisia sostenere che si parla “in generale” ( ” su ‘tutto’ quello che si era detto”). Si hanno sempre degli interlocutori più o meno precisi a cui le nostre parole si rivolgono più in particolare.
      E, a differenza di quanti hanno sempre sulla bocca le parole Amore, Bellezza, Bontà, Solidarietà, Armonia, so che tutti/e abbiamo curiosità e disponibilità verso gli altri/e ma anche tanta aggressività repressa.
      La critica è educare, modellare la propria aggressività e darle una forma che possa servire a te e agli altri: a vivere con gli occhi più aperti, a capire le contraddizioni (alcune superabili, altre no), a non fare della poesia o del dialogo una sorta di dormitorio per chi “ha già dato” e ha voglia di quiete o un balsamo per le proprie ferite.
      Nel tuo primo pezzo, implicita o esplicita, c’era critica. Così come c’è nei miei pezzi o in quelli di Linguaglossa o di Mayoor o della Banfi o di ro (per citare i nomi di chi più frequentemente interviene su questo blog).
      Bisogna saperlo e non cascare dal pero quando uno/a controbatte.

      • ro

        e’ molto facile Ennio caro, far passare l’altro per permaloso, e sempre solo l’altro, per permaloso.

        Non ti conosco, ma dalla lettura in questo blog, ho avuto traccia di altri, compresa la sottoscritta, tesi allo sforzo, né ipocrita, né “elegante”, di messa in discussione di una forza eccessivamente aggressiva in quanto controproducente, della propria parola. Senza chiedere scuse, troppo formali e che lasciano il tempo che trovano, si può dare segno all’altro di aver sbagliato. Di te , in questo pro-cedere, non c’è mai stata traccia, nelle tue “controbattute” . Sicuramente non conosco la traccia invisibile che esiste nel tuo non espresso, ma ciò può essere sostenuta come ipotesi di conoscenza ed immedesimazione nell’ “altro”, fino a un certo punto oltre il quale diventa non piu sostenibile.

        buona giornata.

  68. Ennio Abate

    a ro

    “dalla lettura in questo blog, ho avuto traccia di altri, compresa la sottoscritta, tesi allo sforzo, né ipocrita, né “elegante”, di messa in discussione di una forza eccessivamente aggressiva in quanto controproducente, della propria parola”.

    Basta con questo parlare allusivo. Chi è che ha dimostrato “una forza eccessivamente aggressiva”? in quale occasione? Perché avrebbe dovuto chiedere scuse o dare “segno all’altro di aver sbagliato”?
    Sii precisa.
    Muovere delle accuse generiche ( a me o ad altri ) è alzare un polverone.
    Non è una bella cosa.

    • ro

      Ennio , in questo contesto, come altre volte, son state talmente esplicita, che a piè pari, hai saltato continuando dritto per i tuoi discorsi e la tua linea ( in un crescendo di parole, peggio che se fossero state parolacce…molto più subdole e sottili, molto più che meramente “allusive”) …”gli altri ” a cui mi riferivo, nel mio precedente e altri miei, erano esplicitati non come allusioni di analoghi comportamenti al tuo “abuso di potere”, bensì come altri che come me, se avevano superato i “limiti” , hanno cercato di ritornare sui loro passi come me (semplicemente cercando spiegazioni, con-tatto sull’incompreso) ….

      purtroppo le tariffe senza limiti sono estese a tutti i pianeti, e se quello del fare pensiero è il piu senza limiti/infinito che ci sia, ciò non toglie che non debbano mai conformarsi i propri comportamenti al senza limite che tutto governa del famoso mondo iper-capitalista ( che peraltro per primo tu vorresti sottoporre a critica e imporre le stesse consapevolezze agli altri)

      aver sviscerato la coscienza critica storica economica politica implica per primo sul proprio comportamento, un cambio di rotta radicale…altrimenti è perfettamente inutile e ipocrita , come anche in questa pagina, sottoporre letture economiche politiche.

  69. emilia banfi

    @ ABATE

    Le critiche negative non mi hanno mai offesa, anche perché conosco molto bene i miei limiti e la strada da fare è lunga, ma finchè la percorro volentieri, continuo a camminare. Ecco , ciò che ho scritto in queste righe è sicuramente del tutto personale, come ciò che ho scritto in altri commenti. Fare riferimento alla mia vita per contrapporla o paragonarla a quella degli altri o ad un certo tipo di poesia, trovo che sia qualcosa di utilissimo per arrivare a capire non solo tutto ciò che ci circonda (la poesia per prima), ma anche per farsi comprendere meglio quando esprimiamo pareri o critiche sempre del tutto personali come è e dovrebbe essere. Comunque sarebbe facile correggere l’io in noi o in egli, non lo faccio perché lo trovo ridicolo , quando si parla ci si rivela , sempre, perché tirare in ballo un’altra persona?
    Ma Ennio! Quella “latrina per sfoghi personali” davvero puzza troppo e mi auguro che il tuo sia stato davvero “uno sfogo personale” da aggiungere alla latrina.

    • Scendendo dalle stelle, mi chiedevo se sia vero che amiamo ciò che ci piace, ciò che riteniamo esteticamente gradevole, o se sia vero il contrario: che le cose che amiamo finiscono inevitabilmente col piacerci. Oppure, e io credo sia così, amore ed estetica andrebbero separati, perché non è vero che amiamo ciò che è bello e non è necessariamente bello ciò che amiamo.

    • ro

      condivido ( per quanto detto poco sopra e altro ancora) …Purtroppo l’incomunicabilità è totale…vale solo la triste e struggente consapevolezza della rinuncia inerme come quella di fronte a qualsiasi altro abuso di potere….dispiace perché affidando il tutto al giusto “distacco”, più che le persone offese in questo caso viene riconfermato come in altri – della stessa potenza di fuoco intellettuale – che tanta materia cerebrale e immensi valori, non siano poi cosi diversi dalle dinamiche dei poteri.

      • ro

        ps
        il precedente commento è relativo all’intervento di Emilia Banfi

      • Diciamolo, rò, non è che tu sia esente da difetti. Hai sputato fuoco e fiamme contro tutti per la faccenda di Don Gallo, perfettamente incurante di chi la pensava diversamente, e andando ben oltre il fatto che t’eri spiegata a sufficienza. No, si doveva essere d’acordo con te. E che dire dei pregiudizi su new ages e simili, sapendo che qui c’è anche chi non dà per scontato un giudizio negativo? E poi, cos’è questa continua accusa per cui gli altri sarebbero sempre parlati dai media? Perché anteporre il giudizio al semplice disaccordo?
        Con simpatia.

  70. emilia banfi

    Ueh! ragazzi basta! Leggiamo le poesie di Peli: sono divine, e non voglio sentire commenti sul divino…Ciao a tutti!

  71. ro

    Lucio Mayoor Tosi
    5 luglio 2013 alle 09:42

    nessuno è esente da difetti….nè tantomeno lo è quando, soprattutto oggi, mette in dubbio ( peraltro come altri) i paladini conformi a un certo tipo di antisistema ….il problema è argomentare, se ciò da fastidio alla maggioranza che in questo luogo la pensa diversamente, non per questo deve essere presa o preso come qualcuno che “impone” qualcosa, tanto più se di fornte alle mie obiezioni nessuno è entrato nel merito delle stesse….ma a me, può fregarmene di meno se ad esempio qualcuno di voi crede alla pagliacciata grillesca dell’assegno di ieri, a me interessa dire come la penso e il perchè e il per come sia una pagliacciata..dicendo “pagliacciata” non ho leso alcuno, sul piano dell’intima essenza, che la possa pensare al contrario come una cosa sacrosanta…

    tuttatvia il mio modo di pensare, non è mai arrivato, perché non ne ho bisogno, a violare sul piano personale pensando di voi come esseri di sfoghi, latrine, allusivi …ne è testimonianza il fatto costante che pur pensandola in modo apparentemente o completamente diverso da Emy, la apprezzi e le voglia molto bene in ognuna delle due gemelle, e perciò forse la incalzo più di altri.

    ciao

    • L’esempio della “pagliacciata grillesca” buttato lì è perfetto. A torto o a ragione, mica si può non tener conto di stare in un blog di poesia. Però qualche riflessione sulle scelte del linguaggio della comunicazione la si potrebbe tentare, non si sparasse a raffica, mediaticamente, su tutto ciò che si presenta come mediatico. In questo caso Grillo c’entrerebbe. Ma capisco che ti riferisci ad Ennio, che non sempre accoglie pazientemente tutto ciò che arriva. In questo match non mi ci metto, pratico altri sport. Ciao

      • ro

        Non mi riferivo per nulla a Ennio, ma alle obiezioni che hai sollevato tu, Lucio, non Ennio, nel penultimo commento , riferito ad un mio presunto voler imporre le mie ipotesi su questo o quel paladino, tipo l’esempio con tanto di nome che hai fatto riferito a Don Gallo…

        se tu vuoi allargare il tema, è un altro paio di maniche, ma non era mia intenzione e obiettivo fare un allegoria su Grillo, o don Gallo per “alludere” o parlare di Ennio…

        limitati se puoi, Lucio, alle parole che ho scritto…per quanto riguarda poi il tuo rilievo incidentale e indiretto a un mio non tener conto dei confini (ergo limiti), che siamo in un blog di poesia…ti prego di circonstaziare dettagliamente in quali post non mi sono resa conto di esserlo, e anzichè commentare le poesie, ho parlato di ricette di cucina o economia o giardinaggio…In questa pagina , assolutamente non strettamente poetica,anzi strettamente politica, non mi sembra di essermi messa a parlare di latrine o di sfogatoi nè di chimica o di finanza attuariale.

        Devo concludere però, sia a tuo che a mio favore e in egual misura proprio per il rispetto minimo richiesto, che io non afferro (nel senso di comprendere) il più delle volte il tuo ragionare quindi non ti conosco, ergo non posso permettermi di dire di quale cose , il come e perché o di cosa sei fatto, verso cosa o come diretto, orientato, mosso …così credo vale per te nel non riuscire ad afferrare quanto esprimo, chi sono e chi non sono, come, da dove vengo e dove vado o non vado etc etc

        ciao.

  72. emilia banfi

    A Linguaglossa :
    la poesia che ci ha proposto penso che sia una traduzione da non so quale lingua . L’insieme un po’ ne ha sofferto, ma resto dell’idea che siano versi portatori di grande interesse.

  73. Ennio Abate

    Io non so scendere dalle stelle con la leggerezza di Mayoor (e forse neppure ci sono – per mia sfortuna o fortuna o per semplice impazienza – mai salito lassù…). E ammiro la capacità sua ma anche di altri/e, che si tengono alla larga da «questo match» e praticano «altri sport».
    Già che ci sono però ( nel match), alle mie inviperite amiche (o nemiche: vanno bene anche in questa veste) una cosa voglio far notare.
    In questo stesso post ho mosso delle obiezioni a Linguaglossa (30 giugno 2013 alle 16:05), a Mayoor (“Realisti” e “ irrealisti”:1 luglio 2013 alle 18:05 ; 2 luglio 2013 alle 09:20), a Banfi (3 luglio 2013 alle 09:11) e il dialogo – sotterraneamente conflittuale ma credo sempre rispettoso – è continuato senza drammi.
    Ho mosso, invece, delle obiezioni a Di Leo (3 luglio 2013 alle 20:55) e apriti cielo. Da lì in poi c’è stato uno scivolamento progressivo. (Sono scivolato pure io? Può darsi, ma ho fatto del mio meglio per continuare la discussione e nell’unico modo che a me pare valido: ragionando sulle cose dette e scritte).
    Di Leo si è offesa o almeno s’è rifiutata di rispondere alle mie obiezioni (3 luglio 2013 alle 23:10).
    Subito in suo soccorso è intervenuta ripetutamente ro in veste di “crocerossina” contro l’Aggressore.
    Il tentativo di Linguaglossa di tornare a bomba proponendo di commentare una poesia (4 luglio 2013 alle 09:31) non ha impedito gli ultimi (spero) strascichi.
    Dalla vicenda vengono fuori per me questi problemi “da blog”:
    Bisogna, nel fare critica, usare due pesi e due misure?
    Bisogna fare le obiezioni solo a chi dimostra di saperle reggere?
    Bisogna lasciar correre, lasciar perdere?
    Ci penserò.
    Pensateci anche voi.

    P.s.
    Sì, questo post da un certo punto in avanti ha rischiato di diventare una «latrina per sfoghi personali». La parola non sarà signorile, ma esprime sinceramente la mia irritazione e il mio sconcerto.
    Con questa espressione plebea intendo proprio questo tipo di apparente dialogo in cui l’aggressività repressa non riesce – come ho detto in un precedente commento – a raggiungere « una forma che possa servire a te e agli altri: a vivere con gli occhi più aperti, a capire le contraddizioni (alcune superabili, altre no)».

    • Giuseppina Di Leo

      a Ennio Abate
      Ennio, scusami, ma la mia impressione è che si sta andando in una direzione opposta a quella del confronto costruttivo. Personalmente non mi tiro indietro rispetto a qualsiasi tema, purché ciò produca un vero dialogo. Certo, mi sono rifiutata di argomentare al tuo discorso, ma perché già si presentava, fin dalle premesse, in un rapporto di non-parità, più simile semmai ad un interrogatorio a cui – onestamente – non mi andava né mi va di rispondere. Soprattutto quando già avevo espresso, in maniera critica (questo lo ammetto) il mio pensiero sulla discussione che era in corso.
      Ora, per venire fuori dalla ‘grande crisi’ (secondo l’acuta definizione di Giorgio Linguaglossa), tu quali argomenti proponi? Se ce ne sono ripartiamo da lì, ma evitando – e lo chiedo con forza – di usare termini impropri ed offensivi nei confronti di nessuno e nel rispetto delle rispettive sensibilità.
      Grazie

  74. ro

    “Subito in suo soccorso è intervenuta ripetutamente ro in veste di “crocerossina” contro l’Aggressore.”

    ho letto solo ora l’ultimo intervento di Ennio Abate da cui estrapolo solo la frase che mi riguarda…..il mio sarà chiaramente il solito assolo fra tanti assoli che in questo post sintetizzano bene, ovviamente ai miei occhi, le dinamiche del (non) gruppo di altri post e rappresentano come sfumatura del palcoscenico mondo, la piu grande assenza (politica? antropologica?umana?culturale?….)….

    Nessuno è escluso dal gioco degli assoli, compresa la sottoscritta…ma la cosa da precisare, in modo definitivo, è uno spartiacque da cui alcuni piu divisi di altri: il pre-giudizio che ognuno verso l’altro si è potuto fare, ingabbiandola/o poi in un cliché utile all’abbisogna come quello che a seconda dei casi torna e ritorna Ennio definendomi “femminista”, “baccante”, “barocca”, ” crocerossina”, e chi più ne ha ne metta….. tutto ciò per lui è dialettica politica-poetica, per me tutt’altro

    Sicuramente fra ognuno degli assoli, ci si divide fra coloro che pur maturando un ascolto parziale dell’altro , ne maturano un pre-giudizio provvisorio e limitato al singolo contesto in cui avviene il conflitto rumoroso di suoni. Mentre altri , fra cui non solo Ennio, danno l’impressione, anche se mai lo vorrebbero per le cose che propugnano, di pre-giudicare l’operato di alcuni altri, sempre gli stessi ( vedi ad esempio in questo post, la sottoscritta o Emy, ben prima del caso “Di Leo” ) via via nello scorrere delle pagine, del tempo e degli interventi….Tuttavia Ennio ha una responsabilità in più rispetto a tutti gli altri(pari e dispari tutti compresi). A meno che non voglia fare di questo suo spazio, un campo squisitamente teorico-intellettuale senza pratica fin dalla parola, non dico che dovrebbe arrampicarsi sui vetri , ma costruire un certo affiatamento sempre latente darebbe un impulso sicuramente di svolta a tutti gli altri, sia laddove stecchino o confliggano, sia laddove non lo soddisfino per nulla….In quanto direttore d’orchestra ha questa responsabilità in più per la ricerca puntuale del cristallino del suo suono, che sia affdato a un minuscolo triangolo, che lo sia a un primo violino.

    l’impressione, emozione e riflessione da me lanciata in questo post ben prima che scoppiasse l’evento visibile e sintomatico del fenomeno che ho cercato di descrivere, non aveva nulla di antagonista o crocerossina o salvatrice di questo non gruppo..ben più semplicmente attenzionare gli assoli, di cui per primo ovviamente il curatore di questo sito, che per seminare costruzioni di musica vagamente d’insieme, occorre conosca come evitare ogni nodo che ripropone, a partire dal proprio stesso cuore, cervello e panza, logiche di potere che alla fine, alla luce dei propri stessi comportamenti, rendono poco conciliabili i messaggi poetici-politici contenuti nel suo “manifesto” .

  75. emilia banfi

    A rò:

    non mi fermo davanti a nessuno, ho grandi amici di culture diverse e che nutrono interessi diversi fra loro, li sento parlare dei loro punti di vista (quasi sempre si scontrano come del resto faccio anch’io), ma su una cosa una soltanto poi si ritrovano, sul senso dell’amicizia, magari davanti ad un bicchiere di vino (meglio un cartize se è possibile). Non ammetto l’arroganza subdola , quella che scava nel profondo per colpire o quella che a tutti i costi vuole vedere a terra qualcuno. Per il resto , cara Ro’, il fatto che Ennio mi abbia criticato o disapprovato, non mi offende come ho già detto, leggo di lui ciò che mi interessa e non è poco quello che ci propone, e ti ringrazio perché tu mi ascolti sempre e perché il tuo animo sensibile non deve assolutamente essere intaccato da cose che di sensibilità hanno poco o niente. Un caro saluto, Emy

  76. Giuseppina Di Leo

    a Ro e a Emy
    Esprimo la mia sincera amicizia ad entrambe, come anche a Lucio.
    Il mio ultimo commento è stato ispirato da un senso di riapertura al dialogo, cosa che si comprende, credo, senza mezzi termini. E ciò anche a dispetto del fatto che Abate abbia utilizzato nei miei riguardi parole assolutamente offensive sul piano della dignità umana, oltre che non consone per un blog – «latrina per sfoghi personali», per intenderci, – ma poi quali sfoghi? e personali di chi? se miei non so a quali si riferisce.
    Nel ribadire il concetto che la libertà di espressione non può giustificare la mancanza di rispetto verso l’altro, mi sento di dire che, dopo tutto questo evidenziare, sono convinta che questo post rappresenta la pagina più vergognosa dell’intero blog.

  77. emilia banfi

    a Giuseppina Di Leo:

    La cosa più grave è che una persona si è offesa e chi l’ha offesa non chiede scusa, spero l’abbia fatto in privato. Grazie Giuseppina per la tua amicizia, che contraccambio di vero cuore e complimenti per i tuoi commenti, sempre pronti ed interessanti e ( tanto per non cambiare discorso) pieni d’amore per la poesia.

  78. ro

    il problema oltre le scuse è sostanziale a una scusa mia del tutto personale, a Banfi , Di Leo, Tosi e a chiunque altro provi come me e meglio di me ( vedi Emy e Giuseppina) la necessità “assoluta” di un affiatamento “latente” . Le mie scuse sono a causa del mia natura (pessimista?) cioè alla mia ripetuta riflessione che qui sia possibile costruirlo, laddove il primo che dovrebbe promuoverlo fra i componenti di ogni tema (anche alla luce di letture che promuove e pur nel diritto dovere di critica, o del dubbio, e di ogni strumento “razionale”) sistematicamente ne rifugge, ed anzi appena si accorge che si potrebbe fare qualcosa in tal senso, lo sputtana e ridicolizza in mille e piu etichette. Dà quasi l’impressione di adeguarsi , con la scusa del controbattere, alle logiche preparate dai poteri da decenni : uno contro l’altro. Con la scusa della dialettica alla luce della ricerca intellettuale, così il tutto può sembrare piu nobile e pulito rispetto ad altre arene ( del web , della tivvù, e del virtuale ovunque fuori tivvù) . Ma in realtà è perfettamente identico.

    Nonostante questo la spinta costruttiva verso quel latente affiatamento, resiste anche in questo spazio, che pretende infatti in componenti di assoluta minoranza la coerenza fra ciò che si versifica, polemizza, problematizza, propone etc etc con ciò che deve essere il comportamento, la postura pre-poetica e pre-intellettiva a ogni uomo poetico-politico, pena ridurre a barzellette i propri post o quelli altrui, di politica o poesie, di Peli o Scotellaro, Fortini o Linguaglossa, Banfi o Di Leo etc etc

    Non so se è vergognosa o meno questa pagina…forse non lo sarà se Ennio potrà affrontare il problema , che nella storia non è un problema solo suo, solo di scuse, o tipico dell’ estremo individualismo italiano, ma del come uscire dal fallimento storico di un certo archetipo intellettuale

    ps
    un caro saluto a Emy e Giuseppina e a tutti

    • Un mazzolino di profumate scuse lo pongo anch’io sulla lapide del mostro che qui giace, per troppo cuore furente. Risorgerà, ne sono certo, non è il solo ad avere interesse ad uscire presto dal “fallimento storico di un certo archetipo intellettuale”. Di certo saprà che l’ultima parola va sempre concessa alle signore. Non ci sono alternative alla resa.

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