Note dopo la presentazione a Roma (3 giugno 2013) del n.9 di POLISCRITTURE dedicato a Fortini
Dopo il convegno «Dieci anni senza Fortini 1994-2004» tenutosi a Siena, i cui Atti ho analizzato in un articolo sul n. 9 della rivista «Poliscritture», ben pochi – per quel che mi risulta – sono stati gli studi sull’opera fortiniana. È appena uscito quello di Luca Lenzini, «Un’antica promessa. Studi su Fortini» (Quodilibet, Macerata 2013), che completa la sua indagine – stavolta sul Fortini saggista – iniziata con «Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di letture» (Manni, Lecce 1999). Spero di tornare più approfonditamente su questo libro che ripercorre con grande competenza tutta la vasta opera saggistica fortiniana. Da subito, però, sia pur sulla base di una prima veloce lettura del libro, vorrei far presente una preoccupazione che da tempo assilla la mia frammentaria ma mai smessa “resa dei conti” con la figura e l’opera di questo scrittore; e quindi anche coi suoi interpreti più qualificati.
Riconosco a Lenzini una conoscenza ravvicinata e metodica dei testi di Fortini. Rispetto alla mia – da lettore “militante” – garantisce di certo giudizi più documentati e ponderati. E ammiro pure la tenacia con cui da tempo fronteggia tre nemici dell’opera di Fortini: il tempo, il “pensiero unico” che l’ha svalutata e cancellata persino dalle librerie, la diaspora in corso nell’”area fortiniana” (mai “scuola”, l’ho già scritto). Tuttavia, disposto a ricredermi se sbagliassi di grosso, sento di muovergli una fraterna ma frontale critica quando, nella sua «Avvertenza, con le migliori intenzioni», introduzione di fatto al libro, scarta il rilievo di chi (mi ci metto io pure) «nel Centro [F.Fortini di Siena] e nella sua attività ha visto un processo di “accademizzazione” della figura di Fortini e quindi una forma di neutralizzazione dei significati più propriamente politici del suo operare, a favore dello specialismo dominante nelle università».
Non mi pare, infatti, che il lascito di Fortini sia ripreso anche solo saltuariamente al di fuori della cerchia degli studi universitari. E lo scolorimento della «politicità» dell’opera di Fortini a me pare evidente soprattutto di fronte agli appuntamenti mancati da parte del Centro con molte vicende della storia successiva alla sua morte: dai ripetuti attacchi di Israele a Gaza, alle “guerre umanitarie”, alla crisi sempre più devastante della sinistra, al trionfo dell’americanizzazione in ogni dimensione culturale. La cui lettura critica avrebbe tratto più giovamento da una riproposizione puntuale, agile e aggiornata – e perciò “politica” – di molti degli scritti da Fortini dedicati a tali questioni piuttosto che da saggi accademicamente pensati per tempi lunghissimi e sul respiro dei “letterati”.
Questo «politicità» o più semplicemente lo sguardo politico fortiniano era in fondo la spina nel fianco dei suoi avversari, quelli che scorgevano in lui soltanto «l’ombra di Banquo, litigiosa e intollerante, della letteratura italiana» (Raffaeli). Ed essa aveva parlato ancora con vigore, finché Fortini fu in vita, a quanti da lui impararono a non separare la letteratura dalla politica, la poesia dalla “extra-poesia”, le «condizioni della scrittura e della lettura dalla riproduzione materiale della esistenza biologica.»[1]
Oggi, invece, proprio quel suo sguardo politico, attentissimo alla realtà e persino all’attualità della cronaca, sembra imbarazzare o essere considerato indifendibile.
Sia chiaro, non contraddico Lenzini quando, scrivendo «Su “Dieci inverni” (e certe riviste)», sostiene che sia in corso «un mutamento ben più profondo, di lungo periodo, tanto che la stessa tradizione entro la quale, con piena coscienza, il libro s’iscriveva (e dopo quello gli altri libri fortiniani), appare estinta» (p. 131). Anch’io sono convinto che la distanza tra Fortini e l’oggi «va riconosciuta, non mitigata alla ricerca di una continuità che non esiste» (p. 131). E dico con Lenzini che «non c’è chi, oggi, possa dire di raccogliere veramente tale eredità, neanche quelli che, tra loro accapigliandosi ( e senza timore alcuno d’essere ridicoli, sbandierano le insegne e i simboli del comunismo e del socialismo (anzi, forse loro meno di altri)» (pagg. 131-132).
Tuttavia, se anche il libro di Lenzini finisce «per dare ragione a Mazzoni»[2] (p.13), se dichiara che, per intendere i versi di Fortini, non è più «indispensabile avere accanto Rousseau o Marx» ma bastano Dante e la Bibbia (p. 15), se dà rilievo al «”sonnambulismo” della creazione» (p.15), se impiega «riferimenti ad autori molto distanti da Fortini, da Jankélévic e Jonas a (provocazione suprema!) Lacan» (p.16), a me pare che qualcosa d’importante si perda anche in questa posizione di difesa intelligente del lascito fortiniano e che la critica al «“pensiero unico” e omologante» o alle «ipocrisie di destra e di sinistra» o all’ «eterno “così è”» (p.13) ne venga indebolita.
Non vorrei passare per ortodosso. Preciso perciò che ritengo io pure indispensabile muoversi su terreni di ricerca non battuti o poco battuti e persino rischiosi. E che, come odio le formulette tratte da Marx, non sopporto quelle troppo “discepolari” degli scritti di Fortini.
Se, dunque, l’opera di Fortini ha bisogno di essere “arieggiata” o i suoi panni sciacquati non più in Arno ma nei fiumi profondi e lutulenti dei saperi contemporanei, lo si faccia. E però gli spunti o i risultati di queste più ampie e eterogenee ricerche devono pur collegarsi e confrontarsi proprio con la «politicità» fortiniana. E alimentare con determinazione un’esigenza politica nel «noi da ricostruire e inventare» o «in progress che le formulette sulle “moltitudini” finiscono per velare invece di rivelare» (p. 181).
E qui dico schiettamente il mio timore: il risultato di questo arieggiamento o risciacquo non può essere una semplice riconferma della pur reale torsione utopica del suo pensiero (o di quello di Marx ancora in circolazione). Non può essere una riproposizione di un “sogno di una “cosa”, ancora più vago di quello che in Fortini aveva preso il nome di socialismo e comunismo. Non può essere – lo dico brutalmente – una riproposizione di cristianesimo biblico senza Marx o con un Marx esclusivamente “giovanile”.
Altrimenti all’ «eterno “così è”» (p.13) del capitalismo o dei capitalismi (La Grassa) contrapporremo un «eterno “così è”» del nostro desiderio di uguaglianza, fraternità, solidarietà. Che rimarrebbe però sempre lì, intatto, mai oscurato dalle smentite della storia del Novecento, anche se sappiamo che essa ha imboccato strade sempre più oscure e impreviste e non sembra più indicare alcuna terra promessa.
Questo rischio vedo serpeggiare anche in «Un’antica promessa».
Dovrei documentare la mia impressione o affermazione tendenziosa sui singoli saggi che il libro accoglie. Non posso farlo adesso. E mi limito per ora a veloci notazione su due di essi «Interpretare i vuoti» e «Attraverso Pasolini e Fortini».
Nel primo – ripeto – non mi scandalizza affatto l’emergere del tema apparentemente non fortiniano del «vuoto» o della «tentazione del “vuoto”». Non sono però convinto che si possa o si debba parlare di «luogo alchemico di un dover-essere» (p. 226) non politicamente delineabile. E non penso che Fortini ritenesse di poter uscire da tale vuoto solo investendolo di «violente radiazioni utopiche», delle cui «rifrazioni» – tra l’altro – non so come si possa sostenere con sicurezza che «non distraggono dall’oggi» (p. 227).
Nel secondo mi pare che Lenzini si faccia prendere troppo la mano dal tentativo di ridimensionare «il «topos”, abusato e un po’ corrivo» della «inconciliabilità» tra Fortini e Pasolini.
È vero che in astratto «una diversità anche radicale ed un dialogo conflittuale non sono sinonimi di inconciliabilità assoluta» (p.161). Ma, nella lettura del rapporto Pasolini-Fortini, ho l’impressione che Lenzini ceda troppo alla chiave psicologica e letteraria fornitagli da Bellocchio (al quale il saggio è dedicato).
Se accettiamo che quella divisione tra Fortini e Pasolini fosse in fondo solo «indipendenza, da ricondurre alla prepotente originalità delle rispettive personalità umane e artistiche» (p.164), la strappiamo al piano storico-politico, che io ritengo vincolante. Finiamo così per attenuare pericolosamente proprio la distanza politica tra i due, che pur Lenzini non dimentica sottolineando, ad esempio, il «reiterato rifiuto di collaborare a “Nuovi argomenti” da parte di Fortini, nonostante le insistenze di Pasolini» (p.175). Ma questo rifiuto è solo uno dei tanti esempi di quella concordia discors tra i due. Molti altri andrebbero riesaminati, se non vogliamo cavarcela dando una patina d’”antico” a quel disaccordo, annebbiando – com’è oggi di moda – le ragioni innanzitutto politiche della sconfitta della sinistra comunista e accontentandoci di scoprire «nei due scrittori un eccesso di fiducia (anche se era una fiducia condivisa da milioni di persone), una scommessa senza riscontri effettivi nella realtà, molto più bloccata di quanto potesse sembrare» (p. 179).
Non credo, insomma, che Fortini proprio all’inizio dell’ introduzione a «Attraverso Pasolini» avesse sottolineato quasi per banale orgoglio che «il conflitto di indoli poetiche, intelligenze e impegni, che fu il nostro, il tempo non sopravviene a renderlo illusorio». Né che avesse fissato a caso il rapporto reale tra lui e Pasolini nella formula «Aveva torto e non avevo ragione». Voleva, penso, indicare, pur sotto la cenere della comune sconfitta, che i tizzoni politici caldi della contraddizione tra loro due, tra il PCI e «nuova sinistra» d’allora, non dovevano essere spenti con una sintesi troppo presto “saggia”.
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