Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante
(e di Mandel’štam). Coda di discussione n. 2: @ Banfi, Bugliani e Simonitto

Wells 1

Ritorno brevemente su alcuni punti e mi riassumo:

1. Grandezza di Dante

Ripeto che le mie critiche non sono rivolte a Dante e alla sua reale grandezza umana e poetica  ma  alla ideologia signorile della grandezza (che – riconosco ­- pur prende spunto e valorizza aspetti signorili ben presenti nell’opera di Dante ai danni di altri che per me contano di più). Non ho preso mai in considerazione gli aspetti “privati”(documentati o supposti) della vita di Dante come se potessero diventare prove valide a discapito della sua grandezza reale. No, quando scrivo che  cerco  in Dante « un altro tipo di grandezza, diciamo pure e senza esitazioni: quella “servile”» (e perciò ho richiamato  la frase di Benjamin…), non sminuisco la grandezza reale di Dante ricorrendo a qualche pettegolezzo o scheletro nel suo armadio. Non avendo poi una visione  progressiva della cultura, vedo che sulla grandezza – ripeto: reale, storica – di Dante si è costruita una grandezza scolasticizzata, un culto “borghese”, che appunto ci ha dato o imposto il “nostro” Dante, un inaccettabile (per me) Dante “signorile”.  Che Dante sia  « grande a prescindere dalla ideologia che si è costruita sul suo nome e sulla sua opera» e « non solo rispetto ai suoi tempi ma anche rispetto ai nostri» (Simonitto) è vero, ma fino a un certo punto. Molte nuvole possono offuscare la luce del sole. E le nuvole (le ideologie) sono un problema non trascurabile per noi quaggiù. Non vorrei innamorarmi semplicemente della stella polare-Dante e farne un feticcio, anche se non la vedo più. Non vorrei neppure sentirmi coevo di Dante solo  per distinguermi da  un « certo intellettualismo» odierno che se l’è dimenticato o lo disprezza. Dante non può diventare un mio distintivo. Mi deve servire: dovrei trovare nei suoi versi e nei suoi pensieri la scopa che mi aiuti a far pulizia  proprio di questo degrado intellettualistico o relativistico che mi avvolge. Non è facile e non sempre ci riesco.  E  diffido pure della  tendenza a far diventare monumenti gli autori, anche i grandi. È una complicazione in più per i lettori che ho in mente io, i quali dovrebbero avvicinarsi ai testi degli autori e non ai monumenti che li surrogano distraendoli  in più dall’essenziale. L’ideale sarebbe accostarsi alla grandezza reale di Dante accantonando gli equivoci che una monumentalità posticcia gli impone. Ma pure questo è difficile.

1. 2.

Condivido  in parte quanto Bugliani dice a proposito di Pound o Céline. Potrebbe adattarsi anche a Dante, «reazionario» per Sanguineti ( ma per ora non riprendo questa sua interpretazione). Aggiungo , però, che anche di questi altri autori voglio riconoscere la loro grandezza (o universalità) reale. Individuando cioè i punti in cui hanno davvero oltrepassato la loro limitazione storico-ideologica (il loro essere stati  guelfi, antisemiti, filofascisti) e senza mai, però, dimenticare che in quelle stesse  opere ci sono altri elementi ideologici nient’affatto  riscattati dalla loro arte e, quindi, tuttora  inaccettabili  o insopportabili (o almeno discutibili).

 2. La «morale del servo» oggi

Mi ostino in questa discussione su Dante/Mandel’štam a difendere la «morale del servo» invece di quella del signore. Se, mi chiedessi  chi sta nella condizione dei servi, dovrei fare alcune precisazioni oggi necessarie.  I potenziali portatori di tale morale dovrebbero essere un “noi” tutto da definire. Noi chi? Noi lavoratori, ceto medio in via d’impoverimento?  Noi “nuovi miserabili” della globalizzazione? Difficile dirlo. Soprattutto sono cadute alcune certezze scientifiche o miti laici otto-novecenteschi sui soggetti motori della storia. Mi pare che questo “noi”  che possa rientrare  nella figura hegeliana del servo (o della Servitù, per stare a Partesana) non possa più coincidere con quel proletariato di cui Marx  con enfasi idealistica poté dire che non  aveva da perdere che le proprie catene.  Salari, stipendi, pensioni o pensioncine che oggi ancora arrivano, case o casette in condominio, servizi pubblici rosicchiati ma non aboliti del tutto, sono “catene” da cui liberarsi? Non credo. E ai “miserabili” di oggi si può attribuire populisticamente un potenziale antagonista o rivoluzionario, leggendone i comportamenti ancora alla luce del «mito della povertà come depositaria di genuinità di valori»? Non credo.  Non pretendo di rispolverare nessun neo-terzomondismo. Eppure non si deve fare l’errore di parlare di «poveracci di spirito», di  «mentecatti senza alcuna cultura», i quali « peggio dei lanzichenecchi, mettono a ferro e a fuoco questo paese» (Simonitto). Eviterei di leggere una condizione sociale e culturale (quella dei servi o delle masse) esclusivamente dal punto di vista (stereotipato per me quanto quello populistico) della cultura “signorile”. Giudicare  «mentecatti senza alcuna cultura» i partecipi di tale condizione sociale mi pare comporti un regresso, la perdita di un punto di vista quantomeno più problematico. Quello cioè di Gramsci, il quale negli appartenenti alle classi subordinate vedeva, come minimo, i portatori di «culture subalterne». Che è altra cosa dalla semplice assenza di cultura. Adottando l’ottica gramsciana ci troveremo  almeno a fare i conti con culture legate a  civiltà preindustriali, schiacciate o emarginate per il loro rifiuto o l’incapacità di adattarsi al “progresso” delle società industriali o postindustriali oggi dominanti. Poi ci porremo anche il problema di valutare  se e quanto il disagio, l’insoddisfazione, la resistenza che  rendono i loro portatori ora inaffidabili ora docili davanti ai potenti possa farle  diventare antagoniste  o “potenzialmente rivoluzionarie” rispetto a quelle dominanti dell’attuale globalizzazione. Senza rifugiarci subito in risposte preconfezionate. Quello che non riesco ad accettare è invece la distrazione crescente o il rifiuto di interrogarsi su questa realtà sociale e antropologica fatta da milioni di uomini e donne.  Essa mi pare sempre meno indagata o del tutto ignorata.  E proprio dal ceto medio intellettuale odierno di cui noi facciamo parte. Mentre in passato, infatti, si ebbero in Italia gli studi rilevanti di Ernesto De Martino e anche, sul piano filosofico, le riflessioni di Ernst Bloch su un tempo multiversum[1], che arginavano facili sottovalutazioni o cancellazioni di problemi, oggi forse solo il filone degli studi postcoloniali (Said, ecc.) ha proseguito tali tipi di ricerche.  Questo per dire che non mi convince per nulla la descrizione stereotipata dei servi o delle masse come gregge di illusi, che puntano esclusivamente a imitare i signori o a scimmiottare  la loro grandezza.  E credo  che negli ultimi tempi il degrado politico e culturale abbia inciso su tutti i linguaggi che usiamo. Non è che sono stati colpiti solo quelli che usano gli altri, i “nuovi barbari”. O che  la «dittatura dell’ignoranza» (Majorino) non abbia condizionato o inquinato anche i nostri linguaggi (intellettuali, poetici, di conversazione). A me pare che anch’essi si siano comunque rinsecchiti e non hanno più quella indispensabile (e magari relativa) traducibilità dai livelli alti ai bassi e viceversa. Restano troppo inter nos.

3.  L’estetizzazione come rischio dell’ottica del “signore”

Quanto  ricordato (da Simonitto)  a proposito del film “Il terzo uomo” di Wells esemplifica a mio avviso uno degli effetti negativi a cui arriva   l’ottica “signorile” sul mondo  o sulla storia: l’estetizzazione. Se ho ben capito, in questo film viene detto che la  storia del Rinascimento  sarebbe superiore a  quella della Svizzera, perché , pur con tutti i suoi orrori, ci ha dato  il grande Michelangelo. Mentre la seconda, pur  avendo permesso «cinquecento anni di pace e democrazia», ha prodotto al massimo un buon artigianato (gli orologi a cucù).  Sarà soltanto una battuta.  Ma la trovo davvero cinica. Non voglio dire che implicitamente, in nome dell’arte, qui l’ottica signorile approvi gli orrori della storia, presentandoli quasi come un’utile “droga” per la  “creazione artistica”. Ma poco ci manca. Critichiamo pure quanti il conflitto nella storia umana, lo negano, lo cancellano, lo sublimano. Ma chi ha dimostrato che l’unico motore della storia sia esclusivamente il conflitto? Come non vedere le spinte cooperativistiche e solidali, sia pur  ambivalenti, deformate o  spesso abortite? Come approvare la distruttività (non sempre “creatrice”) che il conflitto comunque comporta? E perché  cancellare ogni ipotesi che dal conflitto (storico e per me niente affatto “naturale”) possano emergere, fosse pure temporaneamente, situazioni  di non conflitto o di minor conflitto, favorevoli magari anche allo sviluppo delle arti?


[1] Non si può più lavorare secondo una linea retta […] senza una nuova e complessa molteplicità del tempo […]. Le vive culture extraeuropee possono essere rappresentate, secondo un concetto storico-filosofico, senza violenza europeizzante o anche soltanto senza quel tentativo di livellamento di quanto hanno prodotto per la ricchezza della natura umana»; e questo alla luce del fatto che «per quell’humanum in divenire, ultimo, preminente punto d’arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro sostrato ereditario, sono esperimenti e testimonianze variamente importanti. Esse non convergono perciò in una cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura “dominante”, preminentemente “classica”, che per la sua qualità […] sarebbe già “canonica”. Le passate, presenti e future civiltà convergono unicamente in un humanum non ancora sufficientemente manifesto, ma sufficientemente prevedibile.

[E. Bloch, Dialettica e speranza, Vallecchi, Firenze 1967, p. 33]

30 commenti

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30 risposte a “Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante
(e di Mandel’štam). Coda di discussione n. 2: @ Banfi, Bugliani e Simonitto

  1. Rita Simonitto

    Caro Ennio,
    devo rispondere subito perché urge un veloce chiarimento (e rettifica) su alcuni punti (se no mi si schiatta il fegato che è già provato di per suo). Di questa mia intemperanza mi scuso con i lettori.

    In ordine di importanza.
    a) ** Non pretendo di rispolverare nessun neo-terzomondismo. Eppure non si deve fare l’errore di parlare di «poveracci di spirito», di «mentecatti senza alcuna cultura», i quali « peggio dei lanzichenecchi, mettono a ferro e a fuoco questo paese» (Simonitto)**.

    Non mi sognerei mai, né mai mi permetterei, di trattare come “poveracci di spirito” o di “mentecatti senza alcuna cultura” quelle persone la cui condizione sociale non ha permesso loro di usufruire di quanto è legittimo e sacrosanto disporre per ogni essere umano.
    Esse persone sono degne della mia piena considerazione.
    Io mi riferivo invece a coloro che, pur avendo avuto tante possibilità le hanno usate a loro esclusivo beneficio, hanno svilito e distrutto il patrimonio culturale. Hanno eretto monumenti e si sono identificati con essi come fecero gli ebrei con il vitello d’oro. E’ per questo che li ho chiamati “poveracci di spirito”, ‘mentecatti’ (con tutto il rispetto per la follia, come ho gradito ascoltare nel video di M. Galzigna) perché trascinano tutti nel baratro che loro stessi hanno creato.
    La “dittatura dell’ignoranza” ci ha condizionato non solo inquinando i nostri linguaggi ma anche le nostre reazioni che tendono ad essere dis-equilibrate, guidate da una idea di fondo ‘attacco-difesa’ e pertanto non sostenute da analisi (cosa che, peraltro, tu stesso auspichi). E le risposte pre-confezionate le assumiamo quando dobbiamo difendere ad oltranza una certa parte a cui ci legano vincoli di cui spesse volte non ci è chiara la natura e ciò non ci permette di vedere oltre.

    b) **Quanto ricordato (da Simonitto) a proposito del film “Il terzo uomo” di Wells esemplifica a mio avviso uno degli effetti negativi a cui arriva l’ottica “signorile” sul mondo o sulla storia: l’estetizzazione**.

    Ho sempre avuto culturalmente paura dell’estetizzazione in quanto abolisce il concorso armonico degli altri sensi perchè ne privilegia uno solo (particolarmente la vista con le sue rappresentazioni eidetiche) e si appoggia all’idea di una Bellezza narcisistica che si nutre da sé, non ha bisogno di nessuno se non di adoratori.
    L’ottica signorile ancora una volta c’entra poco a meno che non venga recepita come potere di imporre un proprio punto di vista. E, ripeto, non sempre sono i ‘signori’ che lo fanno.
    La frase incriminata di Orson Welles nel film “Il terzo uomo” intendeva sottolineare proprio la fraudolenza del protagonista (americano, ça va sans dire :)) ! ), ovvero di chi compie il male ma si trincera dietro chi ha fatto un male più grande. Il cinismo mio – se di questo si trattasse – non riguarda l’accordare validità al contenuto della frase. Non è sprezzo o indifferenza o disincanto. Piuttosto, secondo la filosofia cinica, liberarsi dall’ignoranza e dai falsi giudizi sui valori morali.

    c) **Che Dante sia « grande a prescindere dalla ideologia che si è costruita sul suo nome e sulla sua opera» e « non solo rispetto ai suoi tempi ma anche rispetto ai nostri» (Simonitto) è vero, ma fino a un certo punto**.

    Il ‘vero’ di questo mio assunto non è un assoluto, perchè non mi propongo di trovare TUTTO in Dante, ma delle aperture, degli svelamenti (visto che la ricerca della verità è un processo di svelamento – e Dante si lascia ‘svelare’ se lo togliamo dal piedistallo ma senza, per questo, passarlo dalla parte ‘servile’ -) o anche di trovare quelle ‘scope’ che, come dici tu, servono a fare pulizia.

    d) **Individuando cioè i punti in cui hanno davvero oltrepassato la loro limitazione storico-ideologica (il loro essere stati guelfi, antisemiti, filofascisti) e senza mai, però, dimenticare che in quelle stesse opere ci sono altri elementi ideologici nient’affatto riscattati dalla loro arte e, quindi, tuttora inaccettabili o insopportabili (o almeno discutibili)**.

    L’arte non ha mai né voluto, né potuto dimostrare niente né riscattare alcunché. Dante non è grande perché la sua arte trascende e oltrepassa la sua limitazione storico-ideologica che pertanto verrebbe a decadere. Ma è grande in quanto, attraverso la sua arte, ci ha dato delle esperienze su cui possiamo fare le nostre tessiture.

    e) **Mi ostino in questa discussione su Dante/Mandel’štam a difendere la «morale del servo» invece di quella del signore**.

    Quando tu parli di ‘noi’, giustamente ti chiedi da chi è composto questo ‘noi’ e subito ti metti in una posizione antagonista per cui il tuo ‘noi’ o sta da una parte della barricata o sta dall’altra: o dalla parte ‘signorile’ o da quella ‘servile’, indipendentemente da chi la componga. Quella ‘signorile’ non ti piace perché ha le mani grondanti di sangue mentre l’altra sarebbe (interpretazione mia, eh, non so come tu la veda) più genuina, più pulita. Al punto che potrebbe ‘educare’ anche la parte ‘signorile’, convertendola.
    E come può convertirla se non la conosce?
    Come commentava M. Galzigna, non c’è un Io-cartesiano ma un io-plurale (o, per dirla meglio, un insieme di rappresentazioni che un io, ancora in fieri, dà di sé).
    In un altro mio commento dicevo che la dialettica ‘Signore/Servo’ (non mi riferisco a quella hegeliana) è una dialettica interna tra queste due figure. Se il Servo, chiamiamolo così, vede in sé soltanto la parte servile o odierà la parte del Signore da cui si sente rifiutato, oppure andrà a cercarsi un Signore da cui essere accettato. Se invece riconosce in sé una parte ‘signorile’ farà di tutto affinchè quella emerga e trovi spazio e accoglienza.
    Idem dicasi per l’altra figura.
    Se rifiutiamo a priori le parti di noi che non ci piacciono, le releghiamo altrove, le segreghiamo come si faceva una volta con i folli.

    f) **Ma chi ha dimostrato che l’unico motore della storia sia esclusivamente il conflitto? Come non vedere le spinte cooperativistiche e solidali, sia pur ambivalenti, deformate o spesso abortite?**

    Le spinte cooperativistiche e solidali ben vengano. Esse possono, al limite, mitigare le forze in conflitto ma non lo potranno abolire perché dove non c’è conflitto c’è stasi. Al momento questo è lo stato delle cose e bisogna vederlo con occhi responsabili.
    Altrimenti sarebbe come illudere i ‘barconati’ che qui troveranno l’Eldorado. Il dramma sta nel fatto che noi stessi non capiamo alcunché di questo conflitto e ne siamo via-via coinvolti e trascinati senza che possiamo farcene una ragione.

    Con questo chiudo, mi prendo un epatoprotettore e vado a nanna.

    R.S.

    • Ennio Abate

      @ Rita

      E pensa che, volendo evitare danni al tuo fegato e al tuo sonno, ci ho lavorato vari giorni!
      Più avanti aggiungerò delle precisazioni, dando al conflitto quel che gli spetta e all’io/noi quel che è dell’io/noi…

  2. Rita Simonitto

    @ Ennio
    ti ringrazio per la tua comprensione e anche per le precisazioni che andrai a fare e che aspetto con interesse.
    R.S.

  3. roberto b

    Per miei limiti, o per la mia visione del mondo, sento a me estraneo ogni congelamento della dialettica “signorile”-“servile” nella coppia oppositiva “signorile” vs “servile”. Se “servile” vuol dire “al servizio di”, allora mi ci ritrovo meglio, perché lo concepisco come un rapporto politico di reciprocità, l’uno/gli uni al servizio dell’altro/degli altri. Tanto per fare un esempio, mi sono sentito servile con lo zapatismo/gli zapatisti, ma mi sento altrettanto signorile nei confronti dei “bruti” (per dire à la Dante) che rifuggono conoscenza e verità. Comunque, se a signorile attribuiamo anche un senso di superiorità (quella del signore), non ho problemi nel dire che in campo letterario non solo Dante, che nel fango, per quanto ne so, non ci s’è mai rivoltato, ma anche un Céline è signorile, cioè colui che nel fango (delle Bagatelle) ci s’è rivoltato, ma ci ha dato il Voyage. Emblematico mi pare a questo proposito quanto aveva detto Bukowski alla domanda “Perché ti piace Céline?”: “Perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra, un uomo molto coraggioso”. Giustamente per Bukowski il coraggio era una faccenda di stile. E “lo stile è l’uomo”, diceva Buffon (poi Lacan su questa affermazione ci ha ricamato molto, anche – a mio avviso – travisandola).

  4. robertobuffagni

    Sintesi: uno che non solo ti scrive la Commedia e non si mette mai a 90° neanche se lo minacciano di morte, ma è capace di farti litigare SETTECENTO anni dopo che è morto, è il più bel fico del bigoncio.
    W Dante! Dante sei un figo! ! Ola + standing ovation + megaposter sopra il letto di ogni adolescente italiano/a.
    Già che ci siamo lancio la proposta geniale: quando si esce dall’immondo euro, invece di chiamare daccapo lira la nostra moneta, la chiamiamo “dante”.
    “Quanto costa?” “Poco, solo due dante.” Però!

  5. Rita Simonitto

    @ Buffagni
    E un ‘dante’ quanto prende?

    (F)aceto a parte, concordo col precedente commento di Bugliani che ci mostra i livelli di lettura attraverso i quali possiamo accedere al controverso rapporto Dante-Odisseo. Ne nomina due, il codice teologico, il codice politico. Aggiungerei anche quello poetico, rivoluzionario, che li sussume tutti e due.
    Dante appartiene sì ai suoi tempi ma, come accade ai Grandi, porta i travagli del superamento della sua epoca e il personaggio di Odisseo è il ‘mezzo’ attraverso cui avviene questa trasformazione.

    R.S.

    • Annamaria Locatelli

      Allora la stessa figura di Dante-Ulisse potrebbe essere l’anello di congiunzione tra il signore e il servo, in quanto signore nobile al servizio della causa della conoscenza?
      Nelle varie tipologie di servo si può inserire quello di servo fiero della propria appartenenza? Non aspira a farsi signore, é arguto, spesso ridicolizza o dissacra la potenza dei superbi, come si può trovare nel teatro di Dario Fo e, più drammaticamente, in quello di B. Brecht. E’ presente anche nel teatro popolare delle maschere. Anche lui un servo signore al servizio della conoscenza? Voi sapete di personaggi simili presenti in uno dei tre regni della Divina Commedia?

  6. robertobuffagni

    Cara Rita,
    il dante non prende: dà, da Vero Signore qual è…

  7. Ennio Abate

    @ Simonitto

    Cara Rita,
    rispondo ai tuoi punti ( e li riporto per comodità in Appendice):

    a) D’accordo. Ma esiste sempre l’insidia degli stereotipi generalizzanti (i napoletani scansafatiche, i francesi vanagloriosi, i siciliani mafiosi, ecc.). E c’è anche quello delle masse stupide. Ne risentono anche i nostri linguaggi e vorrei evitare cattive influenze.

    b) D’accordo anche qui, se la frase cinica del film è stata riportata non perché condivisa nel suo contenuto storico/politico/etico, ma per illustrare – diciamo così – la varietà della realtà che mai si conforma ai nostri ideali ( e spesso tranquillizzanti visioni).

    c) Capisco che il Dante «poveraccio» ( o “servile”) è quasi indigeribile. In questa discussione in fondo sono il solo a scommettere su questo suo aspetto. Vabbè, mi rassegno. Mi basterebbe che lo si togliesse dal piedistallo. Posto lassù, davvero m’impaurisce e non mi fa dormire. Non ho nessuna riserva verso la grandezza di un autore, se posta sul piano della realtà (storica). Sì, è più alto di me, di noi di una, due, dieci spanne. Cos’è una mia/nostra poesiola o raccolta di fronte alla «Commedia»? Potessi/mo incontrarlo da solo, potessi/mo leggere e rileggere a fondo la «Commedia» – toh – in tre anni di tranquillità (uno per cantica), la sua *grandezza reale* la toccherei con mano, la assaporerei. Ma ecco la nube dell’ideologia che attorno ad essa s’è addensata nei secoli, ecco il Dante-monumento (nazionale), ecco il Dante obbligatorio per gli studenti (e in particolari quelli della “classe dirigente” di gentiliana e poi democristiana e poi “democratica” memoria) e il mio Dante in grandezza storica reale ( per quanto possibile) svanisce alla mia vista e al mio cuore. Della sua opera restano le dicerie, le citazioni famose, gli stereotipi. È questo che mai mi rassegnerò a digerire e a confondere con Dante.

    d) “Dante non è grande perché la sua arte trascende e oltrepassa la sua limitazione storico-ideologica”. E allora in cosa consisterebbe la sua grandezza? Le «nostre tessiture» sono più interessanti ( vedi le opinioni sul suo Ulisse che tu, Bugliani, Locatelli state avanzando) proprio perché appoggiano su cose niente affatto banali o consuete scritte da Dante. Del resto ti avvicini alla mia posizione nell’ultimo commento (10 febbraio 2014 alle 22:04) che hai lasciato: « Dante appartiene sì ai suoi tempi ma, come accade ai Grandi, porta i travagli del superamento della sua epoca e il personaggio di Odisseo è il ‘mezzo’ attraverso cui avviene questa trasformazione.»

    e) No, la scelta della parte ‘servile’ non è dovuta a una preferenza, non è motivata dal fatto che quella ‘signorile’ non mi piacerebbe perché sanguinolente e l’altra genuina o pulita. La scelta è dovuta al fatto reale che nella scala sociale io *sto* nella condizione dei servi. Ho scritto (nel post 1 FEBBRAIO 2014 • 12:14): « Non si tratta di preferenza. Si tratta di realismo (“da servi”, di chi sta nella condizione reale dell’assoggettato). Quella del signore non mi è mai appartenuta.». Tu tendi a riportare la mia posizione nel mazzo direi del “marxismo etico” (alla Pasolini, per avere un riferimento) che vedrebbe i servi o i poveri genuini e autentici ( e magari santi) e magari capaci di «‘educare’ anche la parte ‘signorile’, convertendola». Ti sbagli. Non sono neppure nella posizione del « Servo, chiamiamolo così, [che] vede in sé soltanto la parte servile o odierà la parte del Signore da cui si sente rifiutato, oppure andrà a cercarsi un Signore da cui essere accettato». Direi piuttosto che: 1. riconosco realisticamente la mia posizione “servile” nella scala sociale; 2. Questo mio riconoscimento comporta in automatico anche il riconoscimento che altri sono *realisticamente* in posizione “signorile”; e che altri ancora, pur essendo nella mia stessa posizione “servile” tendono tanto ad identificarsi con la posizione “signorile” da credere di poterne godere i vantaggi, magari solo spirituali (nobiltà d’animo, ecc); 3. Tengo conto che l’eventuale parte ‘signorile’ presente in me ( e che non nego né voglio relegare o segregare) è deformata dall’essere cresciuta in una condizione *realisticamente* servile; è, dunque, non affidabile. Non si tratta di odiarla o di accoglierla o di farsela piacere. Ma di capire che è appunto deforme ( non si può essere veri signori in una condizione di servitù, sarebbe un’illusione); e ciò costituisce un problema. Allora non è alla grandezza dei signori che si deve puntare ma ad un tipo di grandezza diversa: quella costruibile a partire dalla propria condizione ‘ servile’. (Da qui la mia sintonia con l’indicazione di Fortini e la simpatia per l’intuizione di Mandel’štam).

    f) «Dove non c’è conflitto c’è stasi». E chi lo dice? Mi pare di cogliere un’enfasi assolutizzante sul conflitto. Io non nego il conflitto, ma non lo assolutizzo. Dove non c’è conflitto, ci può essere un “qualcosa” che non è detto sia sicuramente cooperazione o armonia sociale. Ma perché «stasi»? Io invito semplicemente ad indagare di più e meglio.

    APPENDICE

    Rita Simonitto
    10 febbraio 2014 alle 00:16
    Caro Ennio,
    devo rispondere subito perché urge un veloce chiarimento (e rettifica) su alcuni punti (se no mi si schiatta il fegato che è già provato di per suo). Di questa mia intemperanza mi scuso con i lettori.

    In ordine di importanza.
    a) ** Non pretendo di rispolverare nessun neo-terzomondismo. Eppure non si deve fare l’errore di parlare di «poveracci di spirito», di «mentecatti senza alcuna cultura», i quali « peggio dei lanzichenecchi, mettono a ferro e a fuoco questo paese» (Simonitto)**.

    Non mi sognerei mai, né mai mi permetterei, di trattare come “poveracci di spirito” o di “mentecatti senza alcuna cultura” quelle persone la cui condizione sociale non ha permesso loro di usufruire di quanto è legittimo e sacrosanto disporre per ogni essere umano.
    Esse persone sono degne della mia piena considerazione.
    Io mi riferivo invece a coloro che, pur avendo avuto tante possibilità le hanno usate a loro esclusivo beneficio, hanno svilito e distrutto il patrimonio culturale. Hanno eretto monumenti e si sono identificati con essi come fecero gli ebrei con il vitello d’oro. E’ per questo che li ho chiamati “poveracci di spirito”, ‘mentecatti’ (con tutto il rispetto per la follia, come ho gradito ascoltare nel video di M. Galzigna) perché trascinano tutti nel baratro che loro stessi hanno creato.
    La “dittatura dell’ignoranza” ci ha condizionato non solo inquinando i nostri linguaggi ma anche le nostre reazioni che tendono ad essere dis-equilibrate, guidate da una idea di fondo ‘attacco-difesa’ e pertanto non sostenute da analisi (cosa che, peraltro, tu stesso auspichi). E le risposte pre-confezionate le assumiamo quando dobbiamo difendere ad oltranza una certa parte a cui ci legano vincoli di cui spesse volte non ci è chiara la natura e ciò non ci permette di vedere oltre.

    b) **Quanto ricordato (da Simonitto) a proposito del film “Il terzo uomo” di Wells esemplifica a mio avviso uno degli effetti negativi a cui arriva l’ottica “signorile” sul mondo o sulla storia: l’estetizzazione**.

    Ho sempre avuto culturalmente paura dell’estetizzazione in quanto abolisce il concorso armonico degli altri sensi perchè ne privilegia uno solo (particolarmente la vista con le sue rappresentazioni eidetiche) e si appoggia all’idea di una Bellezza narcisistica che si nutre da sé, non ha bisogno di nessuno se non di adoratori.
    L’ottica signorile ancora una volta c’entra poco a meno che non venga recepita come potere di imporre un proprio punto di vista. E, ripeto, non sempre sono i ‘signori’ che lo fanno.
    La frase incriminata di Orson Welles nel film “Il terzo uomo” intendeva sottolineare proprio la fraudolenza del protagonista (americano, ça va sans dire :)) ! ), ovvero di chi compie il male ma si trincera dietro chi ha fatto un male più grande. Il cinismo mio – se di questo si trattasse – non riguarda l’accordare validità al contenuto della frase. Non è sprezzo o indifferenza o disincanto. Piuttosto, secondo la filosofia cinica, liberarsi dall’ignoranza e dai falsi giudizi sui valori morali.

    c) **Che Dante sia « grande a prescindere dalla ideologia che si è costruita sul suo nome e sulla sua opera» e « non solo rispetto ai suoi tempi ma anche rispetto ai nostri» (Simonitto) è vero, ma fino a un certo punto**.

    Il ‘vero’ di questo mio assunto non è un assoluto, perchè non mi propongo di trovare TUTTO in Dante, ma delle aperture, degli svelamenti (visto che la ricerca della verità è un processo di svelamento – e Dante si lascia ‘svelare’ se lo togliamo dal piedistallo ma senza, per questo, passarlo dalla parte ‘servile’ -) o anche di trovare quelle ‘scope’ che, come dici tu, servono a fare pulizia.

    d) **Individuando cioè i punti in cui hanno davvero oltrepassato la loro limitazione storico-ideologica (il loro essere stati guelfi, antisemiti, filofascisti) e senza mai, però, dimenticare che in quelle stesse opere ci sono altri elementi ideologici nient’affatto riscattati dalla loro arte e, quindi, tuttora inaccettabili o insopportabili (o almeno discutibili)**.

    L’arte non ha mai né voluto, né potuto dimostrare niente né riscattare alcunché. Dante non è grande perché la sua arte trascende e oltrepassa la sua limitazione storico-ideologica che pertanto verrebbe a decadere. Ma è grande in quanto, attraverso la sua arte, ci ha dato delle esperienze su cui possiamo fare le nostre tessiture.

    e) **Mi ostino in questa discussione su Dante/Mandel’štam a difendere la «morale del servo» invece di quella del signore**.

    Quando tu parli di ‘noi’, giustamente ti chiedi da chi è composto questo ‘noi’ e subito ti metti in una posizione antagonista per cui il tuo ‘noi’ o sta da una parte della barricata o sta dall’altra: o dalla parte ‘signorile’ o da quella ‘servile’, indipendentemente da chi la componga. Quella ‘signorile’ non ti piace perché ha le mani grondanti di sangue mentre l’altra sarebbe (interpretazione mia, eh, non so come tu la veda) più genuina, più pulita. Al punto che potrebbe ‘educare’ anche la parte ‘signorile’, convertendola.
    E come può convertirla se non la conosce?
    Come commentava M. Galzigna, non c’è un Io-cartesiano ma un io-plurale (o, per dirla meglio, un insieme di rappresentazioni che un io, ancora in fieri, dà di sé).
    In un altro mio commento dicevo che la dialettica ‘Signore/Servo’ (non mi riferisco a quella hegeliana) è una dialettica interna tra queste due figure. Se il Servo, chiamiamolo così, vede in sé soltanto la parte servile o odierà la parte del Signore da cui si sente rifiutato, oppure andrà a cercarsi un Signore da cui essere accettato. Se invece riconosce in sé una parte ‘signorile’ farà di tutto affinchè quella emerga e trovi spazio e accoglienza.
    Idem dicasi per l’altra figura.
    Se rifiutiamo a priori le parti di noi che non ci piacciono, le releghiamo altrove, le segreghiamo come si faceva una volta con i folli.

    f) **Ma chi ha dimostrato che l’unico motore della storia sia esclusivamente il conflitto? Come non vedere le spinte cooperativistiche e solidali, sia pur ambivalenti, deformate o spesso abortite?**

    Le spinte cooperativistiche e solidali ben vengano. Esse possono, al limite, mitigare le forze in conflitto ma non lo potranno abolire perché dove non c’è conflitto c’è stasi. Al momento questo è lo stato delle cose e bisogna vederlo con occhi responsabili.
    Altrimenti sarebbe come illudere i ‘barconati’ che qui troveranno l’Eldorado. Il dramma sta nel fatto che noi stessi non capiamo alcunché di questo conflitto e ne siamo via-via coinvolti e trascinati senza che possiamo farcene una ragione.

    Con questo chiudo, mi prendo un epatoprotettore e vado a nanna.

    R.S.

    • Annamaria Locatelli

      …sarò sicuramente una lettrice superficiale, ma non vedo tutto questo contrasto tra le opinioni di Ennio e di Rita sulla figura di Dante: per entrambi altissimo per umanità e poesia. Poi che ciascuno lo tiri un po’ dalla sua parte é inevitabile: signore nobile, servo al servizio della conoscenza, tutte e due le cose…Personalmente lo penso dalla parte dei poveri se considero che non esitò a mettere dei papi all’inferno e il poverello d’Assisi in paradiso, dove si legge, se non ricordo male, tutta l’ammirazione di Dante per chi abbracciò fino in fondo la scelta della povertà, il primo esempio dopo Cristo sulla croce…

  8. Rita Simonitto

    Mi viene in mente la poesia di Lucio Mayoor Tosi, “Futurismi”, postata di recente (gennaio) su questo Blog.
    Al di là dell’interessante (e riuscito) esperimento di quel testo, esso mi ha dato un input di ‘modello’ che vorrei utilizzare rispetto alla discussione pur ricca e stimolante su Dante e Mandel’štam, su ipotesi ‘signorile’ e ipotesi ‘servile’.

    Tu, Ennio, sottolinei gli aspetti enfatici e hai perfettamente ragione: questo è valido per buona parte degli interventi e viene da chiederci la ragione. L’enfasi è un eccesso che segnala che lì c’è un di più che non appartiene allo specifico bensì a qualche cosa di altro (nel nostro caso: punti di vista personali, ideologie, stereotipi e via cantando che vogliamo difendere costi quello che costi).

    Perché la mia associazione con ‘Futurismi”?
    Perché lì gli oggetti nominati dal poeta se ne stanno nudi e crudi senza né gli attributi che noi vi appiccichiamo di solito (vedi il “Uccidiamo il chiaro di luna” dei futuristi), né le storie che ci costruiamo sopra, né le aspettative che noi ci poniamo. Ci troviamo quindi di fronte alla dispersione di un senso pre-stabilito e da lì noi dobbiamo ‘ricostruire’ un contesto: che sarà indubbiamente il nostro soggettivo ma che, per non cadere nel delirio dell’autoreferenza, sarà possibile condividere con altri.
    In quel testo poetico, il verso inizia con un termine e non ne conosciamo il destino, non sappiamo dove ci porterà a finire. Faccio un esempio che per me è illuminante:
    * Agonia di oggetti ridotti all’uso. Agonia di oggetti servitori.
    Nessuna storia è per sempre. O finché dura, quella con un paio di scarpe*.

    Sembra, invece, che nei nostri interventi non siamo in grado di ‘sparigliare le carte’, accettare di non sapere come andrà a finire: per questo dobbiamo mettere l’enfasi sulle nostre convinzioni. Dobbiamo sostenerle fino all’ultimo.
    Ma davvero le cose stanno come noi diciamo che stanno?
    Prendo ad esempio queste affermazioni di Ennio che non sono ‘letterarie’, né desunte da studi o da esperienze altrui ma, a detta sua, fanno parte della sua esperienza e, in quanto tali, DOTATE DEL MASSIMO DI REALISTICITA’ E DI VERITA’ INDISCUTIBILE:
    *1. riconosco realisticamente la mia posizione “servile” nella scala sociale; 2. Questo mio riconoscimento comporta in automatico anche il riconoscimento che altri sono *realisticamente* in posizione “signorile”; e che altri ancora, pur essendo nella mia stessa posizione “servile” tendono tanto ad identificarsi con la posizione “signorile” da credere di poterne godere i vantaggi, magari solo spirituali (nobiltà d’animo, ecc); 3. Tengo conto che l’eventuale parte ‘signorile’ presente in me ( e che non nego né voglio relegare o segregare) è deformata dall’essere cresciuta in una condizione *realisticamente* servile; è, dunque, non affidabile.”*
    A tutti questi punti, risponderei con un “Boh” facendo spallucce.
    Ma alla fine c’è un punto (il 3.) in cui, traducendo in soldoni,
    Ennio riconosce in sé l’esistenza di una parte (quella ‘signorile’) ‘non affidabile’ in quanto deformata dall’essere cresciuta in una condizione “realisticamente servile”. Un bel pasticcio, non c’è che dire.
    ATTENZIONE: non sto parlando di Ennio, della persona di Ennio che tutti noi conosciamo, ma di quanto Ennio dice di Ennio.
    Orsù, sparigliamo un po’ le carte.
    Se quella parte definita ‘non affidabile’ fosse cresciuta in una condizione ‘realisticamente signorile’ sarebbe stata affidabile? Di primo acchito, ne dubito.
    Allora, la condizione ‘signorile’ è auspicabile in sé? Però se espunge la parte servile che razza di signorile è!
    E’ un “dante” che non prende (come dice Buffagni), i signori sono signori….
    Non c’è forse conflitto in questa rappresentazione? Perché allora non si dà una cooperazione, o per lo meno un dialogo, anziché antagonismo tra queste due parti?

    Prendiamo spunto da Dante.
    Egli fa la tessitura delle sue parti vincolate dalla teologia del suo tempo, dalla politica del suo tempo e dal suo essere ‘uomo’ del suo tempo (dotato sì di una certa posizione ‘signorile’ ma anche suscettibile del poter essere messo al bando dalla sua città come un malfattore qualsiasi) attraverso il dire poetico. Mette insieme e trascende il ‘particulare’ di queste sue parti, non ne fa prevalere una a discapito dell’altra.

    R.S.

  9. robertobuffagni

    Sintesi 2: quando Fortini consigliava il giovanotto ad assumere una morale di servo, faceva tre cose: 1) indulgeva al suo personaggino burbero, doveristico e brechtiano-straniante, mettendo inutilmente a disagio il malcapitato ragazzo (Fortini non l’ho conosciuto, ma a leggerlo dà l’impressione che avesse seri problemi nell’espressione, persino nel controllo della più banale affettività) 2) lo incoraggiava a non identificarsi con l’aggressore 3) faceva un promo per il suo prodotto di nicchia (comunismo “qualità totale”).
    Personalmente consiglierei un giovane di aderire solo al punto 2.
    Quando uno è “servo”, o più modernamente “dominato” nell’effettualità, come sono io, e direi quasi tutti i lettori & scrittori di queste pagine, è assai meglio se non si fa dei viaggioni identificandosi con i “signori” o dominanti. Questa identificazione con l’aggressore è, detto di passaggio, il segreto (di Pulcinella) psicologico del “ceto medio semicolto” di sinistra (copyright La Grassa).
    Però, il “servo” o “dominato” nell’effettualità che si riconosce tale E SI OPPONE, anche solo nel suo fòro interiore, ai “signori” – dominanti non riconoscendo la legittimità del loro dominio NON E’ PIU’, spiritualmente, un “servo”: anche se continua ad essere, nell’effettualità, un dominato.
    L’indipendenza e la dignità sono, anzitutto, atteggiamenti interiori ed esistenziali. Il resto, cioè l’azione politica, la teoresi, tutto l’ambaradan della vita pratica & ciontemplativa, è come l’intendenza: suivra. Quando uno ha deciso che NON PIEGA la testa, che NON si mette a 90°, ne possono conseguire molte cose, compreso che diventa un criminale; però una cosa è certa, e cioè che diventa un cliente scomodo, per i dominanti.

    • Annamaria Locatelli

      …scusami Rita, questa sera andrò diritta sull’enfasi consapevole

      Una fantasia irriverente
      immaginare Dante camminare tra la gente?
      Magari per le strade di Milano
      nel cuore della crisi economico sociale?
      A passo svelto punterebbe su Palazzo Marino
      o su una delle tante periferie urbane?
      Sdegnerebbe, credo, i palazzi del potere
      per confondersi con italiani ed emigrati
      gli abitanti della Milano marginale
      il suo costume di uomo medioevale
      ben mimetizzato tra un sari colorato
      tuniche arabe, chador, e arancioni
      a gran falcate nel viaggio spazio temporale.
      Ma ahi me! Da subito sarebbe smarrito
      nell’odierna selva oscura
      e dalle belve del nostro tempo assalito.
      Quale pietoso Virgilio potrò venire in soccorso?
      Suo e nostro?
      Ma eccolo giunto sotto al ponte del Corvetto,
      costruzione davvero surreale
      a più mondi collegare
      e, centrale, il giardinetto a dipanare…
      Nel gran caos, proprio lì,
      sulla testa il mastodonte,
      la guida a Dante si presenta
      luminosa ed accogliente
      maschile e femminile ugualmente,
      dal bel volto brunito,
      di viaggi in mare e per deserto,
      ogni uom di buon intento a traghettare…

  10. Ennio Abate

    @ Simonitto

    1. Enfasi, la poesia «Futurismi» di Lucio, sparigliare le carte, convinzioni da sostenere fino all’ultimo? È strano che, mentre io, richiamandomi alla (mia) condizione ed esperienza reale (“di servo”), circoscrivo una verità che vuole valere solo per me (o per altri che fossero in questa condizione e la sentissero come me), le mie parole vengano lette come affermazioni « DOTATE DEL MASSIMO DI REALISTICITA’ E DI VERITA’ INDISCUTIBILE». Insomma io mi faccio piccolo ( e servo) e tu ci vedi la presunzione di un possesso di “verità indiscutibile”? Non capisco.

    2. Ho nel mio precedente commento tentato numerose precisazioni. Forse superflue. Ma perché definire «un bel pasticcio» una affermazione che a me pare semplice e logica: se si è «nella condizione *realisticamente* servile», non si può essere signori ed è illusorio pensarsi tali. (È quello che Buffagni ha definito ‘identificazione con l’aggressore’). In altri termini ho detto: a voler a tutti i costi trovare nel servo la parte signorile, qualora la si riscontrasse, si vedrebbe che è *deforme*. Ancora in altri termini mi azzardo a dire: nella condizione del signore la figura (interiore o introiettata) del servo si presenta *deforme*; e nella condizione del servo è la figura del signore che non può non essere *deforme*. (Per questa condizione mi viene in mente l’immagine dei bonsai: avranno la struttura e le forme degli alberi, ma non sono alberi nel senso comune del termine). Dove sta il pasticcio? L’antagonismo c’è, eccome. E non ci può essere cooperazione o sintesi tra servi e signori. E perciò – continuo il mio ragionamento – il servo, per diventare “grande”, deve perseguire un’altra strada. La sua strada non può essere quella della imitazione della grandezza signorile. Dovrà imparare dalla storia dei signori, ma non ripeterla, evitarla. Questa la mia semplice tesi. Al di là delle vicinanze o delle distanze dalla dialettica hegeliana servo/signore (o Servitù/Signoria) di cui non m’intendo troppo. Sparigliamo pure le carte, ma da dove si deduce che io sostenga che « la condizione ‘signorile’ è auspicabile in sé»?

    @ Buffagni

    A parte la caricatura malignetta del «personaggino» Fortini, a me fa piacere questa tua acquisizione: siamo servi ( o dominati) e non ci dobbiamo identificare con l’aggressore. Che è poi quanto io sto cercando di dire. Restano, però, tra me e te due piccole divergenze:
    1. tanto di cappello all’indipendenza e alla dignità che uno arriva a possedere soggettivamente « anche se continua ad essere, nell’effettualità, un dominato», ma si tratta sempre di indipendenza e dignità da dominato (non di signore);
    2. Non ho nessuna fiducia che « Il resto, cioè l’azione politica, la teoresi, tutto l’ambaradan della vita pratica & contemplativa, è come l’intendenza: suivra». Kant, pare, la pensasse così. Per me, invece, nulla seguirà e “moriremo etici” (=singoli io etici), se dall’etica non si riesce a passare alla politica, cioè a strutturare indipendenza e dignità nella polis, nella società, nel “noi”.

    • roberto b

      Caro Ennio,
      c’è molto di vero nella “caricatura malignetta” di Buffagni, sai come la penso riguardo all’uomo (per l’appunto) Fortini (per altri versi, per me, un Maestro), piuttosto anaffettivo, per quel che mi risulta.

    • robertobuffagni

      Guarda Ennio che non volevo offendere Fortini. Se la descrizione t’è sembrata maligna, mi dispiace e me ne scuso. Parlavo di “personaggino” perché tutti ne abbiamo uno, che mandiamo in giro a sbrigare molte nostre faccende, e che non coincide con quel che siamo. Fortini non è solo quello, anzi. Ci ho fatto caso, leggendolo, perché a me, e al mio personale personaggino, questo atteggiamento sempre incravattato e surgelante da padre nobile dà un po’ sui nervi. Ma son cose da nulla.
      Sul resto, cioè sul passare dall’io al noi, dall’etica alla politica, non ci piove che hai ragione; come dicono i diplomatici di vecchia scuola, le minoranze contano zero.
      Solo che non si passa dall’etica alla politica afferrandosi per il codino come il barone di Munchausen. Si passa, se si può passare (e questo non sempre è possibile) solo dopo una decisione intima, che è la risultante visibile della dinamica di un intero mondo interiore. Quando si passa alla politica bruciando sull’altare dell’efficacia o di qualche altro idolo tutto quel che fa di te l’uomo che sei, si fa il passo più lungo della gamba, e di solito le cose vanno a finire piuttosto male. Ciao.

  11. Rita Simonitto

    Velocemente:
    a) Gli inganni del linguaggio…. La mia frase era: * fanno parte della sua esperienza e, in quanto tali, DOTATE DEL MASSIMO DI REALISTICITA’ E DI VERITA’ INDISCUTIBILE*. Lì avrei dovuto aggiungere “per lui”, ma mi sembrava OVVIO dato che avevo premesso che si trattava della SUA esperienza.
    Noi diamo “verità” a quanto sentiamo ed esperiamo proprio perché siamo noi a sentire ed esperire. Ma le cose possono non essere così. I nostri sensi (esterocettivi ed interocettivi) sono in buona parte fallaci anche rispetto alla nostra esperienza in quanto ‘parziali’.
    Si potrebbe dire: la visione che il ‘servo’ ha della parte ‘signorile’ (e viceversa) è ‘de-forme’ poichè la ‘forma’ che ognuno dà è condizionata dal suo status, dal suo punto di vista (‘parziale’).
    E’ una ‘attribuzione’ e in quanto tale non fa parte dell’essenza.
    Mi sembra che tu, invece, faccia del ‘servo’ o del ‘signore’ una ENTITA’ tutta d’un pezzo e non una condizione (anche temporanea), o una figura (dotata di certe caratteristiche più o meno stabili), o, ancora, una parte della complessità del soggetto.
    b) *ma da dove si deduce che io sostenga che « la condizione ‘signorile’ è auspicabile in sé»?*, mi chiedi.
    Tu sostieni: *Tengo conto che l’eventuale parte ‘signorile’ presente in me ( e che non nego né voglio relegare o segregare) è deformata dall’essere cresciuta in una condizione *realisticamente* servile*.
    Traduco (e, indubbiamente ‘tradisco’): se la parte ‘signorile’ fosse deformata dalla condizione *realisticamente* servile significa che dai un ordine di preminenza alla parte signorile come se fosse un punto di vista previlegiato. Osservi gli eventi da quel punto di vista.
    Ben diverso sarebbe stato il senso se formulato così: non ho potuto confrontarmi pienamente con la mia condizione (supposta [aggiunta mia]) *realisticamente servile* in quanto deformata da una certa visione ‘signorile’, da un “come avrebbe potuto essere la mia vita se… e invece non è stata”.
    c) *L’antagonismo c’è, eccome. E non ci può essere cooperazione o sintesi tra servi e signori*
    Volevo solo portarti a dire quello che hai detto. Il conflitto c’è (anche se non sempre si traduce in antagonismo): oltretutto siamo esseri desideranti e non sempre la realtà si adegua al nostro desiderio, ragion per cui entriamo in conflitto e, molte volte, in antagonismo (vedi relazioni uomo-donna che si trasformano in relazioni uomo/donna).
    d) quanto all’identificazione con l’aggressore la cosa si fa più complessa e verrà modo di riprenderla in altre occasioni. Qui posso dire che rimane sempre esclusa e insoddisfatta quella parte che è stata costretta all’identificazione perché in quel modo non verrà mai sanata la sua ferita.
    e) In tutta sincerità, preferirei, al posto di *moriremo etici*, morire “er-etici”:
    Bye, bye.
    R.S.

  12. Ennio Abate

    Ancora @ Simonitto

    PIGNOLERIE

    1)
    «Mi sembra che tu, invece, faccia del ‘servo’ o del ‘signore’ una ENTITA’ tutta d’un pezzo e non una condizione (anche temporanea), o una figura (dotata di certe caratteristiche più o meno stabili), o, ancora, una parte della complessità del soggetto.» (Simonitto)

    Non mi pare. Parlo anch’io di condizione. Precisiamo: storica. E nella storia non troviamo mai entità tutte d’un pezzo.

    2) «dai un ordine di preminenza alla parte signorile come se fosse un punto di vista privilegiato. Osservi gli eventi da quel punto di vista» (Simonitto)

    Neppure. Dominante sul piano storico, sì. Nessuna concessione di privilegio. Tanto più se dico: «il servo, per diventare “grande”, deve perseguire un’altra strada. La sua strada non può essere quella della imitazione della grandezza signorile. Dovrà imparare dalla storia dei signori, ma non ripeterla, evitarla.». Non vedo perciò perché osserverei la mia condizione dal punto di vista “signorile”

    3) «*L’antagonismo c’è, eccome. E non ci può essere cooperazione o sintesi tra servi e signori*. Volevo solo portarti a dire quello che hai detto. Il conflitto c’è (anche se non sempre si traduce in antagonismo)». (Simonitto)

    Ma è quello che ho ripetutamente detto anche in altre occasioni precedenti.

    4) «In tutta sincerità, preferirei, al posto di *moriremo etici*, morire “er-etici”». (Simonitto)

    Sono giochi di parole. Anche gli eretici, IN QUANTO TALI, restano nel cono d’ombra degli ortodossi (= i loro signori o aggressori!)

  13. emilia banfi

    Non certo signorile è quel signore che fa del servo la sua signorilità.

  14. Giuseppina Di Leo

    Sperando di fare cosa gradita, riporto alcuni link musicali che credo ben si adattino all’argomento di discussione ed agli altri recentemente postati.
    Buttarla in musica, come si suol dire, credo abbia anche i suoi pregi e non soltanto difetti. Sull’ultima (Cronaca)
    mi scuso se mi è scappata la vena sentimental-popolare.
    Giuseppina

    Daniele Silvestri

    http://it.search.yahoo.com/search?fr=mcafee&p=don+backy+tot%C3%B2

    Don Backy

    http://it.search.yahoo.com/search?fr=mcafee&p=don+backy+cronaca

    • Annamaria Locatelli

      Giuseppina,
      mi dispiace, ti conoscevo scrittrice di belle poesie. Comunque “tutto é puro per i puri”…
      Annamaria dei Moltinpoesia

  15. Giuseppina Di Leo

    Cara Annamaria, dispiace più a me se la scelta musicale – forse perché tratta dal repertorio “leggero” – ti convince poco, o per nulla; d’altra parte, come ogni scelta, anche questa mia è opinabile, ci mancherebbe. Sulla ‘purezza’ ho seri dubbi di averne vantato meriti, anzi, piuttosto è vero il contrario, disponibile come sono alle contaminazioni, cosa sulla quale credo di averne dato dimostrazione più volte.
    A questo proposito trascrivo una recente ‘ispirata’ proprio da una poesia di Ennio (“Da Holz” in “Immigratorio” ):

    *
    (Ispirata ad una poesia di E. A.)

    Nell’inquadro delle mani
    la faccia di pietra posso vederla
    saprò anch’io di che natura è fatta
    se piange, se sorride o se la ferita
    agli occhi resta più o meno simile
    nella ripetuta alternanza dei tratti
    di un comune mortale indispettito e solo.
    Il solco nella mano richiama la via
    aperta da una crepa lungo la casa
    si inerpica sulla barriera del muro.
    Oltre gli sguardi
    corpi adolescenti trovano riparo
    tra carezze confuse di fumaria
    il sesso turgido reclama
    il fiore schiude ali come labbra.
    Giuseppina

    • Annamaria Locatelli

      Ciao Giuseppina,
      perchè no, buttarla in musica…ma poi chiarirsi e chiarire,. Più difficile il primo tratto…
      La purezza, secondo me, sta nel riuscire a non travisare il significato delle cose, sotto pressioni emotive interne o esterne. Resta soggettiva la scelta, ma aiuta . Ricominciare insomma…

  16. Giuseppina Di Leo

    Annamaria, possiamo anche essere in disaccordo sul campo musicale, ma sul campo della chiarezza, mi spiace dirti che sono assolutamente contraria a quanto mi attribuisci, né capisco a cosa ti riferisci. Se c’è stato qualche mia mancanza da parte mia nei tuoi riguardi, ti prego scrivimi privatamente.

    • Annamaria Locatelli

      …No, assolutamente, cara Giuseppina, non ho mai pensato a una tua mancanza nei miei riguardi. Ho solo avuto l’impressione di un tuo tormento interiore e ti dicevo come io solitamente procedo in questi casi. Cerco di chiarire a me stessa le ragioni e ne parlo alle persone interessate. E la purezza é solo un modo per tenere a bada l’emotività. Forse presuntuoso da parte mia dirti queste cose. Ognuno deve seguire il proprio percorso. Quante insidie si nascondono dietro alle parole! Apprezzo sempre di più la poesia “Futurismi” di Mayoor.Ciao

  17. Giuseppina Di Leo

    Mah!
    Annamaria, dopo la visione del lago ghiacciato, a questo punto un ringraziamento lo mando volentieri al caro Mayoor Tosi (Lucio) e alla sua poesia, grazie al quale, si direbbe, anche noi possiamo dunque uscire “a riveder le stelle”.

  18. antonio sagredo

    Statua del poeta

    È sbigottito il fronte! Flaccida, imbelle è la Lubjanka, ma di granito
    è l’occhio del poeta che insolente tracima credito e condoni.
    Rumore del Tempo il conteggio che torture muta in fiori di linguaggio,
    delazioni in cantici, ceppi sonori in ferri da stiro, violini di Stradivari!

    Rosario di pianti e di lamenti, catastrofi di scarpe e di carne consumata!
    Tutto era lagrime: numeri telefonici, infanzia, versi, amici, città in singhiozzi…
    Capricci di neve tormentano patiboli di ghiaccio per distese stivalate senza fine
    da uno ieri balsamico, da un rancore leggendario prigioniero d’assonanze.

    Il Palazzo estorce grida di granito! I Tribunali non amano occhi equini.
    Come la donna è privazione, memoria del manoscritto ignifugo, punta
    affilata della tua compassione, ghiaccio che genera miraggi interdetti:
    certificati classici del tuo eterno scorrere, concreto, contro il fuoco!

    antonio sagredo

    Vermicino, 06 – 09 -20 marzo 2001

    ————————————–
    Sull’insegna luminosa d’ una bettola c’era scritto:
    Contrada Mandel’štam

    27 dicembre 1938

    Recitavi da tetrarca a Vladivostok…
    davanti ai falò Laura danzava sul secolo XX°
    ti offriva veleno per farla finita col verso classico
    ti donava una carriola di zucchero e cavoli.

    Indossava per fame i rifiuti di una pelliccia piumata,
    ma restava il principe dei Barboni questo usignolo – non lupo!
    La scopolamina, al poeta, per farlo cantare!
    Petrarca, il suo duca, gli offriva un passaggio svitato.

    A nord-est, gridava, c’è un esotico sogno – a fumetti!
    Ma il barbuto spauracchio recitava sonetti.
    Fu gettato svestito senza la corteccia d’un cencio,
    festeggiò il Natale con Mozart in una fossa comune.

    Ma Laura s’invaghì dei suoi capelli nostalgici
    che ricordavano una gravida Tauride veneziana,
    come se il suo collo, per uno spostamento degli occhi,
    la sua testa di cammello piegasse anche il tiranno.

    Sul fondo d’una fossa luminosa c’era scritto:
    Contrada Mandel’štam!

    antonio sagredo

    Vermicino, 4 gennaio 2005
    ——————————————————-
    e con questi miei splendidi versi (senza presunzione!) finiamola con Dante e Mandel’stam: con questi fu tanta l’empatia che fui testimone più volte dei suoi patimenti e lo accompganai alla fossa ancora vivo! – M. si portò dietro D. a causa della extraterritorialità di quest’ultimo.
    antonio sagredo

    • Ennio Abate

      @ Sagredo

      Il problema – mi dico ogni volta che leggo e propongo su questo blog i versi di Sagredo – non è la sua «presunzione». La voglio considerare una sorta di contorno della sua *interessante* o *notevole* – questo io gli concedo – ricerca poetica. (Contorno forse obbligato, ma che lo chiude e lo fa più inaccessibile di quanto egli stesso desidera; e non ho ancora afferrato perché..).
      È invece la sua concezione della Poesia come Assoluto, solidamente esemplificata anche in questi versi (ma in genere in tutta la sua produzione) che andrebbe capita e discussa.
      Certo egli l’ha assorbita anche da Mandel’štam e dal primo Novecento russo, e cioè da un’epoca e un luogo storico dove si è avuto ed è fallito un grande sogno rivoluzionario. Di esso Sagredo da una lettura che conclude con un paradosso: lì ha vinto la Poesia.
      Ha vinto contro il Potere: il bloscevismo e/o lo stalinismo. Sulla stessa falsariga, che lo ha portato a assolutizzare l’eresia (e in particolare il suo amato Vanini) contro la Chiesa cattolica repressiva e controrifomistica, in questi versi egli abbatte (in poesia!) il simbolo del potere bolscevico-stalinista: la Lubjanka (che per chi non lo sapesse è il nome con cui è noto un palazzo di Mosca, celebre per essere sede dei servizi segreti sovietici prima e russi poi)
      Contrappone l’occhio «di granito» del Poeta alla «flaccida, imbelle» faccia del Potere sovietico. Già in questa immagine si ha il ribaltamento – poetico appunto, ma per me anche eroicistico e tutto fondato sulla propria soggettività astorica – del senso comune che, come Sancio Panza, resterebbe bloccato alle “cose”, alla “realtà” (che è poi quella che i potenti impongono).
      Il Poeta per Sagredo è, dunque, capace di mutare in fiori le torture, in cantici (il termine ha una sua carica religiosa) le delazioni degli spioni. E dunque vince *sempre* (un po’ come l’Amore, di cui si sta discutendo in altro post…).
      Ora proprio su questa «extraterritorialità» della grande poesia (dalla storia, s’intende), che egli rivendica con forza per Dante e Mandel’štam (del quale in un bel verso dice: «ma restava il principe dei Barboni questo usignolo – non lupo!»), andrebbe continuata la lunga discussione che ho tentato di aprire sui due “poeti-gemelli”.
      No, non la si può chiudere sbrigativamente. Perché noi non siamo più né nell’epoca di Dante né in quella di Mandel’štam. E dobbiamo rapportarci a loro senza identificarci con loro. La nostra eventuale “grandezza” si conquista *anche* distinguendoci da loro.
      Dobbiamo cogliere le consonanze (perciò ho insistito sul loro essere *esodanti*) ma anche le distanze: non possiamo rifugiarci nella loro «extraterritorialità». Ne dovremmo costruire una nostra, adatta a questi nostri tempi; e quindi storica!
      Per Dante e Mandel’štam l’«extraterritorialità» c’è stata ma non in modo *assoluto* come sostiene Sagredo: Dante era anche e resta uomo del Medioevo; Mandel’štam era e resta dentro quel sogno rivoluzionario primo novecentesco. Non dobbiamo scordarcelo.

  19. Rita Simonitto

    Il potente è colui che ha il potere di imporre la visione della realtà in funzione dei suoi occhi (e dei suoi interessi) e questa non è una novità.
    La visione Assoluta di Poesia (di Sagredo ?) contempla invece il suo essere difforme dallo sguardo del vincitore, va oltre; non trasforma l’esistente perché non è il suo compito (*Il Poeta per Sagredo è, dunque, capace di mutare in fiori le torture, in cantici (il termine ha una sua carica religiosa) le delazioni degli spioni. E dunque vince *sempre* (un po’ come l’Amore, di cui si sta discutendo in altro post…)*). Ne canta la duplicità, non c’è Sancho Panza senza Don Quijote de la Mancha.
    La poesia “vince” sempre perché non è quello il suo campo di battaglia.
    .
    Essa è granitica perché oltrepassa tutti i tempi nel suo essere contro il potere, sia esso clericale che anticlericale, e, pur essendo storica, nel senso di essere collocata nella storia di cui parla, va al di là della storia èvènementielle. Mentre il Potere è *flaccido e imbelle* in quanto ha sempre bisogno di confermarsi e di essere confermato con la forza o con la persuasione.
    La Poesia, invece, no. (almeno in teoria!!!!!!!!!!!)
    L’essere della poesia è Assoluto nella sua essenza mentre è relativo nelle sue modalità di espressione: quelle sì sono legate ai tempi e quindi storiche.

    R.S.

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