Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante
(e di Mandel’štam). Coda di discussione n.1: @ Buffagni

arlecchinoIl commento di Roberto Buffagni a cui replico si legge qui

Caro Buffagni,

davvero «signore è chi, nel conflitto, affronta la morte, servo chi vi si sottrae»? Ho l’impressione che Hegel abbia, sì, sintetizzato la storia delle società umane del mondo antico che portò alla loro scissione in classi (signori e servi), ma truccando molte carte e molto idealizzando. Oggi poi, di fronte alle società ben più complesse emerse dalla rivoluzione industriale, ‘signori’ e ‘servi’ mi paiono concetti alquanto metaforici, da usare con cautela. Usiamoli, ma teniamo conto che i “signori” – settori delle società nazionali più o meno internazionalizzate che, semplificando, potrebbero rientrare in queste categorie hegeliane – godono di beni, prestigio e consenso non perché più coraggiosi o più capaci di affrontare la morte, ma per aver ereditato dai loro antenati posizioni di grande vantaggio e di immenso potere rispetto ai “servi” (ceto medio in via d’impoverimento, neoproletariato, poor workers).Possiamo ipotizzare che ai primordi della storia le cose si posero proprio come dice Hegel? Non ho sufficienti competenze in antropologia per sostenerlo o smentirlo. Ne dubito. E credo che, anche se risalissimo al mito, inverificabile come si sa scientificamente, i dubbi rimarrebbero. Con questo non voglio ironizzare sul grande filosofo  tedesco. Non riesco però ad immaginare questa fila di uomini,  da cui escono come in  un concorso a premi i pochi destinati a diventare signori perché in grado di sfidare la morte, mentre gli altri ( le solite masse!) si rassegnano al ruolo di servi. Non è, cioè, sul piano del coraggio (o soltanto del coraggio) che nella storia sono stati decisi i rapporti sociali tra gli umani. Questa la mia convinzione. Vedo, piuttosto, gruppi umani (popoli, classi, ceti) contrapposti ad altri in nome di valori ideali, ma mescolati  inestricabilmente a interessi materiali (chiarirlo è stato merito immenso per me del marxismo); e pronti, sì,  in situazioni estreme createsi nel gioco complesso dei conflitti e delle riappacificazioni, a darsi reciprocamente la morte. E vedo che quasi da subito certi gruppi hanno conquistato posizioni di forza (economica, politica, militare), ma mai per ragioni puramente morali o psicologiche. Mai si potrà dire poi che i coraggiosi siano stati solo da una parte – quella dei signori che avrebbero affrontato la morte – e i vili solo dall’altra – quella dei servi che vi si sarebbero sottratti. Direi anzi che ci saranno stati molti servi coraggiosi (magari disposti anche ad affrontare la morte per uscire dalla loro condizione), ma rimasti inevitabilmente servi, proprio perché non è bastato solo il coraggio e mancavano le  condizioni e le circostanze favorevoli per realizzare quel loro desiderio di libertà.  Nella lotta contro i signori, militarmente e culturalmente più attrezzati e potenti – penso a Tommaso Müntzer e alla guerra dei contadini nel primo Cinquecento – non ce l’hanno fatta. A diventar signori? A ribaltare i rapporti sociali diseguali e a costruire un “mondo migliore”? Lascio in sospeso queste due domande che riprenderò tra un attimo. Non possiamo affidarci soltanto al coraggio (Achille?). Dobbiamo sapere (o imparare faticosamente)  come combattere, quando  attaccare o indietreggiare o persino fuggire, ingannare il nemico, tessere alleanze, ecc. (Ulisse?). E poi credo che conti lo scopo per cui lottare. Sì, forse più o quanto il coraggio e le altre abilità.

E qui riprendo le due domande: Si lotta per diventare signori? Si lotta per ribaltare i rapporti sociali diseguali e costruire un “mondo migliore”(Liberté, Égalité, Fraternité)? E so di incappare subito nel nodo etico/politico  di sempre. Che oggi o viene eluso e accantonato (coi discorsi idealistici sulla pace, la fratellanza universale o la democrazia liberale). Oppure viene riproposto  esclusivamente in termini che definirei “signorili”. Credo che quasi tutti oggi condividano l’idea che si lotti o si possa lottare soltanto per «diventare i primi su questa terra», proprio come tu scrivi. E,cioè , per uscire da un assoggettamento (reale e/o immaginario)  nell’unica maniera realisticamente possibile: assoggettando altri, quelli che oggi ci assoggettano. E con la prospettiva probabile che un domani altri ci assoggetteranno. Non c’è altra via. L’aveva capito benissimo Manzoni: «Ad innocente opra non v’è: non resta/ Che far torto, o patirlo». (Adelchi, 1822).  Questa tesi ha per me i tratti esclusivi del pensiero realistico “signorile”. Oggi domina incontrastata nel pensiero politico. Perché i “signori” dominano come sempre. Perché le lotte che veramente contano sono tra loro (dominanti e sub dominanti, come dice G. La Grassa). E  la ricerca di un “mondo migliore” è pensabile  al massimo entro questo quadro “signorile” (imperiale o policentrico).

Possiamo spiegare questa  egemonia del pensiero politico “signorile” con il fallimento storico  della lotta per il comunismo e la caduta della sua ipotesi forte: che la lotta tra le classi fondamentali (per Marx  borghesia e proletariato) potesse portare all’abolizione delle classi stesse; e quindi al superamento della incessante lotta tra signori e servi; e all’uscita da quella che Marx considerava preistoria. O almeno alla riproposizione del conflitto di sempre su un piano più controllato, meno “bestiale” (il Mao delle” contraddizioni in seno al popolo”; ma anche, sul versante del pensiero democratico, le teorie dello Stato di diritto).  Cancellata l’ipotesi comunista (sia nella forma utopica che in quella scientifica marxiana), resta sul tappeto  soltanto  questa ipotesi di una lotta interminabile tra signori e servi (alias: dominatori e dominati), da cui usciranno per forza di cose solo altri dominatori e altri dominati. (Tu stesso, nel pezzo che hai scritto su «Poliscritture» n.10, ci hai avvertito: le guerre ci saranno sempre; cioè ci saranno sempre signori e servi, dominanti e dominati e – per collegare la questione al tema Dante/Mandel’štam – grandi uomini e piccoli uomini).

Se le cose stanno così (o staranno inevitabilmente così per sempre), se  la possibilità di  fuoriuscire da questa storia non esiste più (o ci sono e saranno solo fuoriuscite ideali, artistiche, simboliche), se essa si ripeterà sempre secondo lo schema plurisecolare dei vincitori e dei vinti, bisognerà ammettere che l’unica politica possibile è quella dei signori. (Come corollario, a livello letterario, a me pare che deriverebbe che l’accento deve stare sul Dante-monumento da te difeso). Una politica “di servi”, che riscattando se stessi, riscattino persino i signori dal compito – ingrato ma necessario (perché le crisi e le ribellioni mai mancheranno) – di dominare, sarebbe definitivamente una frottola o una  credenza consolatoria. Il fallimento della rivoluzione socialista/comunista ne sarebbe l’ulteriore prova.

Che fare di fronte a questo fallimento? Mancando la possibilità di un pensiero e un’azione  politica capace di scompaginare questo quadro storico e in attesa che, io vedo per ora e per quanti non vi si rassegnino un bivio etico. E colgo l’importanza simbolica della nostra piccola discussione su Dante monumento/ Dante poveraccio. Che mi ha spinto a  verificare le mie origini sociali, l’esperienza interrotta e fallita negli anni Settanta di superarle con una scelta politica (in senso ampio “comunista”), sull’assenza di un noi come soggetto collettivo  in cui identificarmi oggi. Che è un po’ entrare, come tu suggerisci, in  «rapporto con la morte (la tua, eh? quella generica non vale)». E  a concludere: non posso scegliere  la via dei “signori”, quella che oggi appare l’unica, non posso rinunciare alla «morale di subordinato, di servo», quella  che  Fortini consigliava in un passo che riporto in Appendice. Sì, «una morale di servo è, da noi, meno immaginaria di una da signore». E, sempre per tornare all’argomento della nostra discussione, non mi sento di rinunciare a pensare a una grandezza accessibile unicamente per la via del servo, del «poveraccio» (da qui ancora la mia simpatia per Mandel’štam). Anche se non intravvedo una politica di  riscatto e non sento più in questa condizione subordinata le potenzialità che il cristianesimo  (idealisticamente) e Marx (scientificamente) avevano intravisto. Non si tratta di preferenza. Si tratta di realismo (“da servi”, di chi sta nella condizione reale dell’assoggettato). Quella del signore non mi è mai appartenuta. E credo che la stessa qualità poetica del mio o “nostro” «modo di essere o scrivere o cantare» dipenderà non  tanto dal mio «rapporto con la morte» (Vedi quanto in proposito ho scritto  in Poliscritture n. 10), ma proprio dalla capacità di scegliere  anche in poesia una morale  di servo (di «poveraccio», di “poeta esodante”), come atto estremo di resistenza.

Passando, infine, alla tua affermazione:«“Il disonor del Golgota”, vale a dire la vidimazione al Massimo Livello dello stigma servile (compresa la paura di fronte alla morte) è [stato] un bello sparigliamento delle carte signorili», ti faccio notare  che nella storia questo «sparigliamento» è stato presto recuperato, neutralizzato e ricondotto ancora una volta alla visione dei signori (all’ingrosso da Costantino in poi…). E aggiungo che, se scrivi: « questo sparigliamento davvero sovversivo funziona solo nella misura in cui la partita si gioca ancora con le carte signorili», rendi un omaggio  solo ideale a tale sparigliamento, perché di fatto lo riconduci – consapevole o meno – nell’alveo di sempre. Sostieni, cioè, anche tu che l’unica politica ( e forse l’unica morale) che conta è quella dei signori. I quali  l’hanno praticata a seconda delle convenienze come crociati, come liberali, come fascisti, come democratici.  E pure – lo ammetto senza difficoltà – come comunisti.

APPENDICE

 F. Fortini, Avere ragione, pagg. 102-103 in Insistenze, Garzanti, Milano 1985

A un giovane che me ne chiedeva ho consigliato di scegliersi una morale di subordinato, di servo; come credo di aver fatto io. Con quel tanto di equivoco e magari di ripugnante (come l’invidia, il rancore, l’intenzione di dominare umiliandosi) che ogni morale di servo comporta. La ragione di quel consiglio? Anzitutto che una morale di servo è, da noi, meno immaginaria di una da signore; almeno per chi viva alla periferia dell’Impero. Basta riflettere all’impegno che i nostri signori e i loro delegati mettono a persuaderci che, via, siamo anche noi ormai parte del mondo dei signori. Il che, in una certa misura, è vero. Sganarello, infatti, mangia, dorme e beve molto meglio del cavallante, del contadino o del poveraccio per il quale il suo padrone stanzia (in Molière), per la lotta contro la fame nel mondo e «per amor dell’umanità», una certa cifra «purché bestemmi il Signore» cioè la propria cultura e verità. Che dico, Sganarello fruisce anche della cultura e delle agevolazioni tariffarie di Don Giovanni e deve buona parte della propria astuzia alla conoscenza degli splendori mondani cui partecipa indirettamente. Eppure, di un servo non ci si può mai fidare; e questa è grande superiorità, la cui rinuncia non consiglio a nessuno.

C’è qualcosa che tuttavia il servo non possiede: l’ironia e la leggerezza. Il servo ha solo riso e sarcasmo; sempre, in qualche misura, plebei. Nulla di più doloroso dell’apostolo della leggerezza, Nietzsche, incapace di danza, e condannato alla più tremenda serietà. Eppure – contro l’opinione corrente – dubito che l’ironia e la leggerezza siano davvero sempre supreme virtù (o privilegi signorili). Sono virtù; ma secondarie. Esse infatti non possono essere praticate se non in gruppo, fra pari.

Insomma, la morale del servo è anche quella che ti consiglia insistenza e petulanza, offerta di spiegarsi meglio e di porgere scuse. («Si spieghi meglio!». «…Disposto … disposto sempre all’ubbidienza».) Docenti, moralisti, pedagoghi, preti, psicanalisti, funzionari di partito, d’ogni sorta addetti alla manutenzione delle anime, tutti costoro – dei quali certo faccio parte – sono perpetuamente esposti al disprezzo signorile degli spiritosi libertini ma sfuggono tuttavia di mano a questi ultimi perché la loro verifica è sempre altrove, è qualcosa che è sempre un oltre, metafisico o storico, un dover essere, un «verrà un giorno …». Mentre lo spiritoso libertino ha tutto interiorizzato; ha o crede di avere tutti in sé i propri diavoli e angeli; è costretto all’ateismo («pèntiti!», «no!») e all’autoinganno dello stoicismo. Don Giovanni non può essere «serio come il piacere». «Sarò serio come il piacere» è locuzione di Baudelaire; l’altro infelice apologeta dell’ironia e della leggerezza, grande anche per la sua incapacità di essere ironico e leggero.

Il giovane se n’è andato, com’è giusto, scuotendo il capo. Spero di avergli lasciato, almeno, una spina fastidiosa. Nella loro pressoché integrale ignoranza del nostro passato e al di là dell’abisso profondissimo, quasi insuperabile, di quest’ultimo decennio, ho la certezza, non per fede ma per ragione, che si stiano formando anche nel nostro paese – e forse proprio attraverso una maggiore frequentazione del mondo dei padroni – delle minoranze che possono assumere deliberatamente una morale di servi per uscirne nella sola direzione capace di fondare, come sempre è stato, una aristocrazia vera; facendosi cioè disinteressati e, al bisogno, sacrificali difensori dei più, delle folle accecate. Il loro primo moto sarà, anzi già è, di seppellire sotto lo scherno le false aristocrazie, straccione o snob, che si riproducono nella nostra cultura nazionale.

 

 

11 commenti

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11 risposte a “Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante
(e di Mandel’štam). Coda di discussione n.1: @ Buffagni

  1. Caro Abate,
    bellissima risposta, complimenti e grazie. Se riesco, oggi pomeriggio ti rispondo. Intanto, sul tema Italia, povertà & ricchezza (più a commento del pezzo di Fortini che del tuo) guardati questa paginetta che mi fu chiesta da Antonio de Martini, poco tempo fa:

    ALLA RICERCA DELLA IDENTITÀ ITALIANA: MELODRAMMA E TRAGEDIA. DUE PAROLE SULLA IDENTITÀ ITALIANA. di Roberto Buffagni


    Ciao, grazie ancora e a presto.

    • Gianmario

      Partendo da Hegel, mi sento di dare ragione a Ennio. Certo idealizzava, ma le categorie analitiche della storiografia di allora erano, mi si permetta, molto rudimentali di fronte alla evoluzione della storia come scienza sociale. Io credo che Hegel avesse peraltro un secondo fine, poco scientifico, nel fare quell’affermazione, collegabile più a uno spirito cortigiano o collusivo che a una convinzione obiettiva. Marx lo rovescia col disincanto, ma commette, credo, lo stesso errore sul versante opposto, idealizzando le masse.
      Ebbene, anche senza tirare in ballo questi monumenti, osservo che di vigliacchi e di eroi se ne trova di tutte le schiatte e in ogni epoca e per ogni idea. E ancora, chi non teme la morte mi pare più un incosciente che un signore (nobile d’animo, s’intende, non portatore di robusti portafogli).
      La paura è una risorsa, non un difetto. E pertanto va riconosciuta per poterla controllare. Infatti, per fare in modo che questo non avvenisse, girava parecchia grappa, prima degli attacchi, sul fronte del Carso e gira parecchia cocaina, eroina o altre porcate fra i militari di ogni “contingente di pace” disseminato per il mondo – e ovviamente in tutti i casi dove c’è guerra. Non ci vedo nulla di eroico ad andare sbronzi o spiritati ad ammazzare tutto quello che si muove sotto il sole. Ci vedo piuttosto una alienazione: dare la propria paura alla grappa, per essere macchine più efficienti, perché non la si sa controllare, e prima ancora perché non la si sa guardare negli occhi.
      La morte diventa perciò atto eroico quando sei in grado di scegliere; se non sei cosciente, è una morte incosciente, stupida e stupido è chi muore in questo modo (altro che eroe) , perché è la vita una risorsa, non la morte.
      Si potrà obiettare che, dal punto di vista degli effetti, non c’è nessuna differenza, ma io credo di vederla, soprattutto se fra gli effetti mettiamo le efferatezze che gente drogata e fuori di testa perpetra a danno dei civili che non c’entrano un tubo.
      E peraltro non vedo nulla di signorile nel capitanato industriale o finanziario: fare il padrone di industria o della finanza è un mestiere come un altro, che non ha nulla di eroico o di signorile. Certo, pesa una certa responsabilità, ma credo sia anche troppo remunerata da altri vantaggi. E credo anche che la storia e la recente cronaca ne diano ampio riscontro. E credo anche che il male vero sia l’eccessivo potere di incasinare la vita altrui che questa gente pratica con troppa disinvoltura e non di rado con una buona dose di cinismo.
      Aveva ragione Pirandello: per vedere questi personaggi da una giusta prospettiva e nella dimensione più umana, sarebbe meglio immaginarli mentre sono a cesso a cagare. Quella è la vera umanità, unita a tutte le risorse dello “Spirito” hegeliano. Ebbene, grandi uomini, grande potere, grandi storie, ma ricordiamoci che cagano anche loro, come l’ultimo dei servi, e come tutti saranno pasto dei vermi e giudicati dalla storia futura (ma questo, credo, alla maggioranza di loro non importa nulla).

  2. Caro Ennio,
    partiamo da qui:
    “…mì me credevo un omo libero/ e sento nasser in mì el paròn” (Noventa, “Ghè nei to grandi oci de ebrea…”).
    poi continuiamo così:

    1. Hegel, servo/signore. La verità della figura hegeliana non è storica o genealogica. La descrizione è vera perché rappresenta la natura e la forma del conflitto interumano, la cui posta è “il riconoscimento” (della piena dignità di essere umano, concetto per nulla facile da definire). Il fine è quello; il potere è solo un mezzo, anche se ci siamo molto affezionati (“…tre anelli diede agli uomini, che più di tutto amano il potere” dice il prologo de “Il signore degli anelli”).
    No, certo: non ci sono, né ci sono mai stati o ci saranno, signori tutti coraggiosi, servi tutti vili.

    2. Mezzi e fini. “Chi vuole il fine vuole anche i mezzi”; ma quasi mai lo sa davvero, e se lo sa di solito non (se) lo dice. Chi vuole il pieno riconoscimento della propria dignità di uomo deve combattere per ottenerlo; anche (soprattutto?) quando creda che la sua vittoria segnerà la fine della “preistoria” in cui gli uomini, per essere uomini, devono combattere a morte tra di loro, ben presto si accorgerà che “luogo a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che fare il torto, o patirlo”; o altrimenti detto, che “anche l’ira contro l’ingiustizia fa roca la voce, anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso. Noi che volevamo apprestare il terreno alla gentilezza non potemmo essere gentili” (Brecht, “Ai nascituri”, 1940). Nell’antico linguaggio, è uno degli aspetti della Croce: “chi di spada ferisce…”

    3. Non sono conclusioni allegre. “Pour ne pas oublier la chose capitale, Nous avons vu partout, et sans l’avoir cherché, Du haut jusques en bas de l’échelle fatale, Le spectacle ennuyeux de l’immortel péché”. Malumore a parte, conducono spesso chi le tira al cinismo, alla disperazione, o ancor più spesso a rintanare la sua intelligenza nella meschinità come una blatta si rintana nel suo buco se accendi di colpo la luce.

    4.”Tel est du globe entier l’éternel bulletin”? Forse no. Non c’è solo la Gazzetta Ufficiale del mondo così com’è e/o appare: c’è anche l’altro mondo. Può essere il Mondo di Là, quello in cui credeva Dante e in cui qualcuno ancora crede; può essere l’altro mondo di cui parla Hegel, il mondo dell’autocoscienza umana in cammino verso se stessa; può essere l’altro mondo degli ideali di “Liberté, Egalité, Fraternité” che pur vive nei cuori degli uomini, in compagnia di tante altre cose e idee, non sempre altrettanto nobili; [segue].

    5. Al Mondo di Là di Dante, che gli consentiva di leggere e giudicare con così penetrante esattezza il Mondo di Qua, crediamo ancora in pochi, e ci crediamo con meno forza, spontaneità, sincerità, amore di lui. Diventa perciò più importante, più vitale, che chi ha smesso di credere al Mondo di Là non smetta di credere, o almeno non disprezzi e non derida, gli ideali e le speranze che il Mondo di Là custodiva. Niente li protegge più: handle with care.

    6. Dante lo sapeva benissimo, che nobiltà e dominio non sono affatto la stessa cosa, anzi: “…e dirò del valore, per lo qual veramente omo è gentile, con rima aspr’ e sottile; riprovando ’l giudicio falso e vile di quei che voglion che di gentilezza sia principio ricchezza.” […] “…tutti quelli che fan gentile per ischiatta altrui che lungiamente in gran ricchezza è stata; ed è tanto durata la così falsa oppinion tra nui, che l’uom chiama colui omo gentil che può dicere: ‘Io fui nepote, o figlio, di cotal valente’. benché sia da niente.” (“Convivio”, Trattato IV, “Le dolci rime d’amor ch’i’ solia”)

    7. Domanda: lo sappiamo ancora, noi? Io lo so, o almeno mi sforzo di ricordare che lo so, perché ancora credo nell’Altro Mondo di Dante, anche se con meno forza, spontaneità, sincerità, amore di lui. Ma chi al Mondo di Là non crede più? Neanche nella forma provvisoria, o nel travestimento, che ha indossato nel secolo scorso e ha dismesso in questo, insomma nella forma del “comunismo”? Lo sa, lo sapete ancora? Costanzo Preve lo aveva capito molto bene (e secondo me, è la sua acquisizione più importante).
    Gianfranco La Grassa, che entrambi conosciamo e stimiamo, non lo sa più. Ogni tanto cerco di ricordarglielo, ma da quell’orecchio non ci sente.

    8. E’ una sordità molto pericolosa. Che senso hanno, per questi sordi, gli interminabili conflitti umani per il potere e la supremazia, questo interminabile Samsara cinturato Pirelli? “Le bourreau qui jouit, le martyre qui sanglote”…Dopo un po’ di questa dieta, l’anima non serve più, ed appassisce e cade, come una foglia secca.

    9. Del Dante monumento non mi interessa la pietra o l’iscrizione. M’interessa che ripulendole dalle incrostazioni di retorica, non si cancellino anche i valori e le aspirazioni che rappresentano ed esprimono. Tutto lì. Sembra poco, ma io penso che sia invece quasi tutto. Penso infatti che la contraddizione tra uomo falso e uomo vero, tra ideali ed effettualità, durerà per sempre: come per sempre durerà la guerra tra popoli e nazioni, come per sempre durerà l’oppressione sociale dei dominanti sui dominati. O meglio: dureranno per sempre guerra e oppressione. La contraddizione tra uomo falso e uomo vero, tra ideali ed effettualità, potrebbe anche, almeno per un’ epoca, sparire (per sempre non credo, ma è un’affermazione di fede nella natura umana, non una previsione razionale). Se la verità ci diviene indifferente, se gli ideali suscitano in noi solo derisione e fastidio, resteranno soltanto il falso e l’effettualità. E se arrivasse quel giorno, guai ai miti, ai poveri, ai pacifici, perché parleranno alla luna e pascoleranno il vento; e quanto agli assetati di giustizia, bè: saranno giustiziati.

    10. E aggiungo per concludere: gli assetati di giustizia saranno giustiziati con il più vasto consenso democratico, i miti e i poveri e i pacifici saranno mandati a scopare il mare e presi per i fondelli tra i calorosi applausi del pubblico in studio. Già adesso si sterminano legalmente, igienicamente e gratuitamente centinaia di migliaia, milioni di innocenti (innocenti per non aver ancora commesso il fatto) e si definisce questo massacro un progresso morale e una scelta di libertà. Vedi un po’ tu che cosa si possono aspettare gli altri, quelli che qualche fattispecie di reato hanno avuto almeno la possibilità di commetterla.

    Grazie ancora della conversazione, e un caro saluto.

  3. Microaggiunta:
    quando Manzoni scrive “luogo a gentile, ad innocente opra non v’è, non resta che fare il torto o patirlo” è ancora un giovane, e in lui la tragedia si confonde ancora con il melodramma: o buoni, e vittime, o malvagi, e vincitori: e credi in Dio, che “verrà un giorno…”
    Da adulto – l’adulto che scrive il “Dialogo sull’invenzione”, per esempio, dove parla di Robespierre, il “mostro” in cui però “c’è del mistero” – avrebbe scritto:
    “luogo a gentile, ad innocente opra non v’è, non resta che fare il torto E patirlo”.
    Così ci siamo, caro signor conte.

    • Giorgio Mannacio

      Mi intrometto in una dimensione nettamente politica. Sono sorpreso per le continue citazioni di Hegel,grande filosofo( parole di Ennio ). Macchè.I grandi filosofi sono altri.Come si può chiamare filosofo uno che ignora la nostra
      ” fisicità”? Marx è un vero filosofo. Lo conosco troppo poco ( solo per stralci del suo pensiero ),ma ha affrontando i problemi dell’uomo nella sua storia, parlando della realtà e sulla realtà.Parziale? Può darsi,ma vero. Un suo pensiero mi sembra indiscutibile e trova conforto in alcune esperienze reali di comunione di beni in piccole comunità marginali e anche nelle società espansive ai loro albori Diqueste ultime sappiamo poco ( ha ragione Ennio ) ma l’ipotesi è attendibile,ragionevole e in qualche modo supportata da alcune ricerche storicamente databili.Ho letto – a preambolo di un passo di M. – di una canzone tedesca dei tempi della Riforma che dice più o meno così: ” dove erano i nobili quando Eva filava e Adamo zappava ? ” Se agli albori
      ( che possiamo definire inizio della Storia ) il ” capitale ” ( la terra ) era comune l’accumulazione originaria è una ” espropriazione originaria ” ( vulgo: un furto ). Ma si può arrestarsi a questa affermazione e non risalire al punto,alle ” cause ” che lo hanno determinato ? Si può fare a meno di connettere il rilievo ( a mio giudizio corretto circa l’espropriazione ) con una ricerca sugli istinti ? Se ad esso si deve arrivare a tale ricerca ( che mi sembra implicita nella struggente pretesa di cambiare l’uomo che è di Marx )
      si apre il versante ” etico della politica ” ( espressione – mi pare – di Fortini )
      che ha implicazioni articolate nella direzione delle prassi politiche reali e nel ruolo della cultura.Se questi passaggi reggono, il discorso si presenta semplice nella sue linee generali e complicato da una enormità di fattori nelle sue linee specifiche che un vero filosofo ( che deve essere anche “politico ” nel senso di saper analizzare il qui,ora e come del vivere ) non può trascurare.Partiamo dal dato – pessimistico – del fallimento delle utopie
      ” comuniste ” ? Ebbene: se è così occorre ” rovesciare ” il discorso a favore di un’etica individuale/collettiva che privilegi contro tutto e tutti la ” superiorità”
      della cultura e la svalutazione attiva di altri “valori” ( indifferenza verso altri valori: ahimè,non so usare altro termine ). Il paradossale invito di Fortini al giovane interrogante non potrebbe risolversi in questo?

  4. Tira una brutta aria per i grandi…Dante poveraccio, Hegel macché grande filosofo…Goethe stia in campana, che fra un po’ arriva anche il suo turno.

  5. Giorgio Mannacio

    A Roberto Buffagni.
    Sono tutt’altro che un rottamatore. Non ho citato nè Dante, né Goethe. Loro possono stare tranquilli a buon diritto. Ricordo il grande e profondo interesse di G. per i fenomeni naturali. E di Dante per le passioni degli uomini.Ma come si fa a credere a quella tesi-antitesi-sintesi che non ha un suo oggetto fisico ? Eraclito dice che la natura ama nascondersi. Che filosofo è quello che non tenta di togliere il velo,ma fa di tutto per imbrogliare le carte? Un cordiale saluto. Giorgio Mannacio.

  6. Ezio Partesana

    Un brevissimo intervento, da “professore di filosofia”, che poco ha a che fare con la discussione ma solo vorrebbe evitare qualche confusione.
    Giusto per ricordare come Hegel (che tonto non era…) parlasse di Signoria e Servitù, dunque forme dello Spirito, e non di Signore e Servo, che sarebbe per quanto allegorici uomini in carne e ossa. Certo poi quando si trattò di far vedere la “contesa” dello Spirito, Hegel si immaginò un Signore e un Servo, ma non vale; chi mai prenderebbe l’esempio per la regola?
    Un abbraccio a tutti.
    Ezio.

    • @ Partesana

      Sì, anche Buffagni ha fatto notare il rischio di confondere due livelli di discorsi ( il filosofico e lo storico) nel commento che trovi sopra il tuo: “La verità della figura hegeliana non è storica o genealogica. La descrizione è vera perché rappresenta la natura e la forma del conflitto interumano, la cui posta è “il riconoscimento” (della piena dignità di essere umano, concetto per nulla facile da definire). ” (2 febbraio 2014 alle 12:24 ).
      Resta il fatto che io preferisco pensare sul piano storico e misurare come se la cavano o quali significati noi attribuiamo ai concetti quando li caliamo dentro le nostre vicende.
      Posso però facilmente concedere che Hegel tonto non fosse e che le figure della Signoria e della Servitù rinvenibili a livello storico non coincidono con gli “originali”.

      • Ezio Partesana

        Caro Ennio,
        non è tanto questione di livello storico o meno, quanto di non confondere un concetto (Signoria) con una incarnazione del medesimo (Signore), e lo stesso vale naturalmente per Servitù e Servo.
        Ma non è qui il caso di andare oltre direi.
        Un abbraccio,
        Ezio.

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