Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante (e di Mandel’štam)

dante arcigno

Rispondo alle osservazioni/obiezioni di Roberto Buffagni, Roberto Bugliani e Rita Simonitto al post “Su Dante monumento e Dante poveraccio” (qui), mantenendo il dialogo con ciascuno di loro tre anche a costo di qualche ripetizione. [E.A.]

@ Buffagni

1. Interclassismo

«Il coraggio del signore non si esprimerà come il coraggio del servo, la poesia dell’analfabeta come la poesia dell’istruito: ma se lo sono, restano coraggio e poesia tutt’e due».

Troppo facile. La distinzione signore/servo è reale distinzione di due mondi diversi e in certe situazioni contrapposti. Il problema è che, a livello simbolico – cioè al livello del discorso dominante o che conta (quello che oggi passa in TV, per intenderci) –  soltanto il coraggio del signore appare coraggio. Fa da regola. Quello del servo resta un’eccezione. Conta, ma meno. Ed è al modello di coraggio signorile che si abbeverano sia i signori (anche quelli non coraggiosi) sia i servi (anche quelli coraggiosi). Entrambi da quel modello simbolico ricevono una conferma, un’aura sacrale di eroismo, che porta però il marchio signorile (o più signorile che servile, se vogliamo). Credo perciò che gli stessi snobismi (o in certi casi i veri odii) contrapposti – dall’alto o dal basso – siano il termometro di una differenza reale culturalmente significativa (che io, malgrado tutto, continuo a chiamare ‘di classe’). Essa struttura lo stesso simbolo, che però in sé unitario  non la fa più vedere o la rende trascurabile. (Per analogia e per collegare discorsi in apparenza lontani,  si pensi all’eguaglianza giuridica indiscutibile tra capitalista e operaio, che cela però rapporti sociali diseguali e squilibrati, come Marx dimostrò ne Il Capitale).

2. Grandezza

«Un ipotetico clone di Dante, oggi, non potrebbe riscrivere la Commedia, perché essa richiede, oltre l’esserne capaci, una unità del senso e della cultura che oggi non si presenta a nessuno».

Da  questa realistica constatazione, tu fai discendere la conclusione che «era meglio lui», Dante. Sì, concedo  con convinzione che Dante e la sua opera siano in cima a tutti gli uomini e alle opere letterarie di un’epoca. A patto che vengano tenute presenti alcune cose ragionevoli che impediscano di precipitare in una visione ideologica della grandezza. Temo, ad esempio, che il confronto tra Dante e noi non regga o non regga a sufficienza. Perché viene fatto su un piano astorico (o  metastorico o decontestualizzato dalla storia) di difficile verificabilità. Quel suo mondo era altro rispetto al nostro. E giustamente tu dici che un ipotetico clone di Dante si troverebbe a mal partito. O, come scrive Cataldi (qui), Dante oggi sarebbe un marziano. (Mi viene in mente, per una certa analogia di situazione, anche il film Dersu Uzala di Kurosawa).  Temo, inoltre, che un confronto tra Dante e noi alimenterebbe un “masochismo storico” o una inerte e fuorviante nostalgia  di un’ “età dell’oro”.(Atteggiamenti  simili si ebbero all’epoca  del dibattito  tra antichi e moderni, riepilogato nella importante voce antico/moderno da J. Le Goff nella vecchia «Enciclopedia Einaudi»). Ma ancora: chi garantisce che quella grandezza,  che di solito viene attribuita a Dante (o ad altre figure geniali) e che ci appare irraggiungibile (ma  è anche, diciamocelo, facilmente mitizzabile) sia  benefica per il singolo o la collettività che oggi l’accostassero? Non voglio insinuare che sia malefica, ma diffido di ogni visione idealizzante. E se operasse nelle nostre menti distratte da mille cose soltanto a livello d’immaginario e non aiutasse per nulla a  mettere meglio a fuoco i problemi che realmente ci affannano? Insomma, è l’enfasi astratta sulla grandezza di Dante (o di Marx o di altri) che mi rende sospettoso verso l’uso del termine stesso e tutti i discorsi che di solito si costruiscono sui Grandi Uomini. Non è facile intendere oggi la reale grandezza di Dante (o di altri). Ci vorrebbero studi seri. E spesso non possiamo permetterceli. Ne consegue che spesso ci resta dei Grandi  una fantasia, un’immagine idealizzata. Che ha, sì, i suoi effetti sociali non irrilevanti, ma che sono ideologici. E, cioè, dubbi.  Possono derivarne suggestioni che spingono a buone opere. Possono pure consolidarsi dogmi, luoghi comuni, ceppi alla propria voglia di capire e di vivere. Resta per ultimo il fatto che una parte di me (o di “noi”) e una parte  anche dell’umanità, magari solo di tanto in tanto, si dimostra restia ad abbandonarsi alla  idealizzazione dei Grandi Personaggi. Non ci sta a farsi dominare da – devo dirlo – fantasmi. («Meno genio» invocava prudentemente e per me in modo convincente Fortini). È l’assolutizzazione che non mi va. Ed, infatti, nella mia vecchia discussione con Cataldi, m’impuntai a dire che, nel Novecento, quella grandezza “marziana” di Dante, non bastava. Se io avessi un grande tesoro,  ma fossi nelle condizioni di non poterlo spendere, che me ne faccio? Con questo – ripeto ancora perché sento gli equivoci in agguato – non nego la grandezza reale di Dante, ma respingo quella grandezza che, secondo me, in gran parte è proiezione sulla figura di Dante di esigenze e desideri “signorili”. A me pare doveroso cercare in Dante un altro tipo di grandezza, diciamo pure e senza esitazioni: quella “servile”. Da qui la mia sintonia con Mandel’štam e la sua interpretazione di  un Dante «poveraccio». (Se si rilegge poi bene il suo Discorso su Dante, si capirà che il poeta russo non sminuisce affatto Dante. Vi cerca lui – come io pure vorrei – un altro tipo di grandezza rispetto a quella  allora esaltata, ad esempio, dai poeti simbolisti. (E lo ha ben intuito Anna Maria Locatelli nel suo commento19 gennaio 2014 alle 15:21). Mi viene in mente  anche la poesia di Fortini su Lukács, che parla di un grande ma evitando la retorica della Grandezza:

Le scarpe pesanti il gomito sui libri/ il sigaro spento non per il dubbio/ ma per il dubbio e la certezza/ nell’ultima foto/ dall’altra parte del vero/ occhi smarriti guardandoci.// Alle sue spalle guardiamo i libri deperiti/ i tappeti il legno gotico/ del San Martino a cavallo/ che si taglia il mantello/ per darne metà al mendicante.// Gli uomini sono esseri mirabili”

( in Versi scelti 1939-1989, p. 240, Torino, Einaudi, 1990)

Non è, dunque, che io voglia trattare gli eroi di una volta come poveri scemi. Vorrei invece ragionare sul fatto che l’eroismo (per me, cum grano salis, sempre ammirevole) è indice di uno squilibrio sociale che dovrebbe preoccupare. A valorizzarlo in sé, in astratto, fuori da ogni contesto storico, come mi pare tu tenda a fare, si finisce per ribadire una visione delle cose che quell’Ideale offusca invece di mostrare.  E perciò torno alla mia domanda, a cui nessuno finora ha risposto:«la grandezza di un poeta si misura dalla piccolezza degli altri?». O, detto in altri termini, l’essere grandi si costruisce sul disprezzo dei non grandi o degli altrimenti grandi?  O, in altri termini ancora, dobbiamo tener conto che grandezza e piccolezza sono interconnesse tra loro e che nella storia umana l’elevarsi dei Grandi non sempre ha comportato l’elevamento dei molti. Anzi spesso ha comportato – magari indirettamente –  persino il loro ulteriore abbassamento. Benjamin  questo lo aveva capito bene, quando, come ricordò tempo fa su questo stesso blog Roberto Bugliani (qui), prescrisse « allo studioso di parte marxista uno sguardo distaccato nell’abbracciare il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca, perché quest’ultimo “ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore [corsivo mio]. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie» W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6). 3.

@Bugliani

1. Sull’interpretazione di una figura del passato

Che Mandel’štam tiri Dante verso il Novecento e forse più del dovuto, sono il primo a dirlo. Ma un’interpretazione non può mai accontentare tutti. È di parte. E tra il Dante interpretato “signorilmente” e quello interpretato “servilmente” io preferisco il secondo. Pur riconoscendo – e mi pare importante affermarlo – che l’altra interpretazione non  viene perciò cancellata. E tuttavia vorrei precisare che quella  di Mandel’štam non è riducibile a una «provocazione». Non mi pare neppure che la sua lettura di Dante abbia avuto una funzione unicamente “terapeutica”, circoscritta cioè a Mandel’štam stesso alle prese con la persecuzione stalinista («era forse un modo per riuscire a resistere alla sua condizione di deportato»). Non si è trattato nel suo caso di un semplice adattamento di Dante alla propria biografia o al proprio tempo storico. Né io, coi mie sospetti verso l’ideologia della grandezza, vorrei essere scambiato per un qualunquista che, quasi per giustificarsi, dicesse che  in un mondo di nani anche Dante dev’essere ridotto a nano per parlarci. Questa, sì, sarebbe un’interpretazione o un’attualizzazione riduzionistica. A me, perciò, non pare affatto una perversione politica «ricercare nei bassifondi la grandezza, anziché nei piani alti». E l’esempio  che fai del movimento zapatista – « un esempio di come la povertà e l’emarginazione d’un popolo non impedisca loro d’affermare dal basso grandezza e dignità» – indica bene, credo, quale tipo di grandezza sia perseguibile da “noi”. Sì, è proprio ciò che dovremmo fare. Se economicamente, socialmente siamo  in basso, dobbiamo vedere come essere grandi a partire dalle nostre condizioni reali e non alimentarci di miti di grandezza “signorili”. Visto che nella condizione “signorile” non siamo e mai saremo. Con questo non dico neppure che chi  si trova  in alto (come lo era un Dante nella Firenze dei suoi tempi) non possa attingere ad una grandezza che non sia solo e inevitabilmente e  unicamente “signorile”. Nessun determinismo sociologico. Dico che la grandezza reale di Dante, pur portando per forza di cose anche il marchio della sua condizione signorile, in parte se n’è sciolta. E, appunto nella Commedia (Sanguineti ha molto insistito sul “salto” esistente tra il Dante giovane e il Dante maturo e politico della Commedia…),  egli ha raggiunto una certa, storica, universalità. Ritengo, invece, che l’opera di monumentalizzazione di Dante ha costruito una grandezza unicamente “signorile”, occultando la grandezza “servile” colta da  Mandel’štam, il cui Discorso su Dante mi pare sia rimasto un tentativo soffocato e poco conosciuto. A me non pare  poi che sia «l’opera in sé», che, avendo « nel suo dna gli anticorpi», può respingere revisioni o interpretazioni “monumentalizzanti”. Ci devono essere dei lettori reali che sappiano cogliere certi suoi aspetti piuttosto che altri. Sì, un’opera che s’è imposta per settecento  anni acquisisce una “magia”. Ma questa può distrarre e deviare. Sì, la Commedia è sempre disponibile a «nuove interpretazioni». Ma credo che, se non ci saranno lettori che abbiano bisogno di cogliere proprio o anche in quell’opera qualcosa che serva loro,  certi aspetti (politici, estetici, morali, storici) potenzialmente presenti nell’opera resteranno inoperanti. E le interpretazioni dominanti resteranno le solite. (Del resto lo abbiamo visto con la figura di Cristo. L’abbiamo visto con quella di Marx). Il conflitto delle interpretazioni proposto dagli studiosi è conflitto fecondo, se però ci sono forze sociali reali veramente in conflitto, che possano imposessarsi di un determinato punto di vista  per raggiungere “qualcosa”. Se «ogni opera del passato vive dello “spirito” dell’epoca presente», mi chiederei, allora,  se e quale Dante ci serva oggi, e a chi serva, e a quale scopo.

@ Simonitto

1. Dialogo e monologo

In effetti il dialogo presuppone una ricerca insieme ad altri (due o più) di “qualcosa” che non si è raggiunto o  che si è convinti non si possa raggiungere da soli. Il dialogo è per me la forma di ricerca  tipica di un io/noi.  Non è in gioco soltanto un atteggiamento etico: di modestia o di problematicità nel caso del dialogo o di superbia nel caso del monologo. Modestia e superbia sono forse soltanto gli “effetti collaterali”, emotivi,  che accompagnano la ricerca della convinzione di aver già raggiunto o di non possedere ancora quel “qualcosa” che ci pare importante o essenziale.

2. Differenza  tra Dante e Mandel’štam

« C’è comunque una differenza non da poco tra Dante – che, pure esiliato e con una condanna al rogo che gli pendeva sul capo – poteva godere dell’ospitalità dei marchesi di Malaspina o della corte degli Ordelaffi (anche se in Paradiso, C. XVII, 58-59-60, scrive: *Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come duro calle/lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale*) – e la condizione di Mandel’štam, che era ancora più terribile di quella dei migranti di oggi perché per lui ”esilio” significava anche confrontarsi con lo smarrimento di un pensiero, la perdita della possibilità a pensare e a comunicare. E questo non è ‘uno scherzetto’ da poco».

Ecco, è su questa differenza che dobbiamo riflettere. La cogliamo  (vedi anche Locatelli), ma forse non la indaghiamo a fondo nelle sue implicazioni storiche, letterarie ed estetiche. Pur considerando i poeti incommensurabili tra loro se decontestualizzati (e rifiutando classifiche di dubbio universalismo, come quelle che, nel canto IV dell’Inferno, Dante stesso stabilisce nell’incontro coi grandi poeti antichi o descrivendo il  castello degli spiriti magni!),  tenderei a dire provocatoriamente che per me Mandel’štam è grande quanto  Dante. O persino di più, se tenessimo conto della condizione di «poveraccio» mille volte più pesante di quella di Dante.

3. Ancora su interpretazione e attualizzazione

Mi sento poi di difendere un vero e proprio “diritto” ad attualizzare un autore del passato. E ritengo che questo procedimento non sia neutro né necessariamente capriccioso. Può partire proprio da proiezioni soggettive, innamoramenti, identificazioni, sintonie più o meno reali tra lettore e autore.  Non c’è il “vero” Dante (come non c’è il “vero” Marx). La sua figura ha  un senso per me e un senso per Buffagni o Bugliani o Simonitto o, perché no, per un musulmano. È da interrogare alla luce delle nostre esigenze, non certo coincidenti. E certamente sulla base di una lettura della sua opera, che più è ampia e profonda e meglio permette di delineare le nostre stesse esigenze di lettori. Il “vero Dante” alla fine  è uno dei possibili: quello che finisce per prevalere attraverso il conflitto delle interpretazioni. Che va preso seriamente. Se, ad esempio, il Dante monumento tuttora prevale (e io non l’ho negato), ciò non accade per semplice arbitrio. Gli accademici che hanno contribuito alla sua monumentalizzazione hanno compiuto  un lavoro sotto certi aspetti egregi, che non può  essere semplicemente saltato  o disprezzato. E tuttavia non si può negare che il consenso a questa loro interpretazione, che si è avvalsa anche di un riuso organizzato tramite la scuola che conformisticamente la perpetua,  non risponda più a certe esigenze  di comprensione (giustificate) dei lettori di massa. ( E qui andrebbe aperto tutto un discorso sulle operazioni di Sermonti e Benigni). Credo che in questo “Dante scolastico” si siano persi aspetti significativi dell’opera di Dante (come quelli  messi in luce da Mandel’štam; o anche, nel suo commento, da Bugliani).  Rendiamoci conto che ogni opera del passato scelta come riferimento non raggiungerà mai l’unanimità. La sua ricezione suscita contese, che sono indice di divisioni culturali (ma anche sociali, ed economiche) non irrilevanti. (Basti pensare a quali conseguenze ha portato nella storia del cristianesimo la diversa interpretazione dei testi fondamentali. O andarsi a studiare il Bloch di Ateismo nel cristianesimo o del Principio speranza, quando sottolineava la distinzione tra cristianesimo dei sacerdoti e cristianesimo del popolo. O pensare al Cristo dei Papi  e al Cristo di Francesco. Per non parlare delle interpretazioni di Marx…).

Ma perché voglio il diritto a ragionare sul Dante poveraccio o migrante? Perché Dante è un simbolo della cultura italiana e occidentale. E smuovere l’interpretazione dominante di un simbolo talmente diffuso è alludere a un “qualcosa” d’altro. Che forse non c’è, ma forse può esserci. È evidente che inchinarci tutti davanti al Dante monumento o al Cristo pantocratore è impedire la ricerca di quel “qualcosa”, è cancellare un pezzo di mondo scomodo o promettente, che si è affacciato in passato e potrebbe affacciarsi oggi o nel futuro.

7 commenti

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7 risposte a “Ennio Abate
Sulla grandezza di Dante (e di Mandel’štam)

  1. robertobuffagni

    Caro Ennio,
    grazie della replica attentissima. Provo a risponderti.

    1. interclassismo
    Troppo facile? E allora te la complico.
    Secondo me, Hegel ci ha preso in pieno, nella “Fenomenologia dello Spirito”. Signore è chi, nel conflitto, affronta la morte, servo chi vi si sottrae. Se gli ultimi vogliono diventare i primi su questa terra, c’è poco da fare: si devono dare una mossa, e affrontare il rischio del conflitto a morte. Per la poesia (parola che per me denota anche, o forse soprattutto, un modo di essere, oltre che un modo di scrivere o cantare) vale la stessa regola. La qualità poetica del tuo modo di essere o scrivere o cantare dipenderà sempre dalla qualità del tuo rapporto con la morte (la tua, eh? quella generica non vale). Vedi ad esempio il cristianesimo, che un tempo motivava a buttarsi in bocca ai leoni, e oggi è, almeno qui da noi, è Valium.
    A proposito di cristianesimo. “Il disonor del Golgota”, vale a dire la vidimazione al Massimo Livello dello stigma servile (compresa la paura di fronte alla morte) è un bello sparigliamento delle carte signorili: però, guarda caso, questo sparigliamento davvero sovversivo funziona solo nella misura in cui la partita si gioca ancora con le carte signorili, cioè fino a quando il coraggio di fronte alla morte è riconosciuto da tutti, servi compresi, come valore se non ultimo, penultimo. (Su questo tema, si leggano i bellissimi “Dialoghi delle Carmelitane” di Bernanos, autore aristocratico e cattolico di grande forza e fede, che ebbi la fortuna di ridurre per la radio qualche anno fa).
    Se diventa normale senso comune pensare e dire che anzitutto la salute, anche il disonor del Golgota non funziona più, e Cristo diventa un povero esaltato che si è messo nei tumulti, però tanto buono con gli immigrati.
    Segue appena posso la seconda puntata sulla grandezza.

  2. emilia banfi

    Sono una che si sente davvero piccola davanti a Dante. Spesso il Genio è invidiato, criticato, ucciso, fatto rinascere con la stessa facilità con cui aveva dimostrato al mondo di essere quel che è o quel che è stato. Mi chiedo fino a che punto sia giusto pretendere di conoscere tutto del suo stato d’essere della sua fortuna o sfortuna, soprattutto quando egli ormai è morto magari da secoli. Mi sembra più quasi un gioco che una vera ricerca. Ma diamoci pure questo permesso e continuiamo a cercare magari dopo esserci incistati su “competenze ” che la cultura scolastica ci ha permesso di ottenere. Ecco, qui sta il punto. L’essere liberi di cercare e di liberare o di condannare il Grande in questione, e questo ci fa sentire più grandi, dimenticando che il nostro tempo non ci darà mai la possibilità di capirlo o di accettarlo pienamente ma ci dà la possibilità , attraverso la lettura, in questo caso , delle sue opere, di incontrarlo di farlo entrare nelle nostre case e nel nostro intendere come un ospite così gradito e così atteso da rendere l’incontro una grande fortuna per la nostra intelligenza e curiosità. Certamente sarà lui il primo a porci la mano.

  3. roberto b

    Caro Ennio,
    più piani discorsivi e contrastanti giudizi di valore s’intersecano in questo scambio di idee a più voci (ossia a più sensibilità estetiche ed etiche) innescato da un commento di Buffagni, ma non potrebbe che essere così, per cui mi limito ad estrapolarne alcuni temi a me più congeniali.

    Grandezza VS piccolezza dello scrittore.

    Non ricordo più quale scrittore francese ha detto pressapoco che, per il suo maggiordomo, nessuno è un grand’uomo. E’ un’osservazione banale ma che condivido in pieno. Certo, il “guelfo bianco” molto sui generis Dante ha dimostrato d’essere grande anche nella vita da uomo, e s’è messo in gioco come politico “alla grande”, appunto, ma s’è poi lasciato andare a confessare, come ricorda Simonitto, che “lo pane altrui” sa di sale per chi si trova a salire le dure scale dell’ospitalità altrui, condizione a cui è connaturato un insopprimibile sentimento d’amarezza, e conseguentemente d’umiliazione. Perciò, se le grandezze e le bassezze dell’esistenza compongono l’inevitabile dialettica della condizione umana, dove bisogna ricercare la vera grandezza d’uno scrittore? La risposta che mi dò (forse altrettanto banale, ma è l’unica che vedo) è che la vera, genuina grandezza vada ricercata nella “monumentalità” della sua opera. E’ lì che il soldato Dante, il politico Dante, ecc. assume la massima statura storica e letteraria. Tutto il resto, quando va bene, è valore aggiunto. Ma la mancanza di questo valore aggiunto non inficierebbe minimamente il piacere che provo alla lettura della “Commedia”. Così come l’insulsaggine biografica, ossia la grigia quotidianità dell’impiegato di banca Eliot o di quello assicurativo Kafka non sono minimamente d’ostacolo al piacere che provo nel leggere le loro opere. Né, per allargare il discorso a livello “ideologico”, mi sogno di sottoporre Céline o Pound a una censura preventiva perché magari le loro idee politiche non collimano con le mie, e penso che se ci fossi andato a cena avrei finito immancabilmente col litigare con loro (vabbe’, in questi casi gioca anche il mio rifiuto politico d’applicare loro gli infami cliché voluti da una malintesa critica “di sinistra”). Insomma, è la vecchia questione esemplficata nella predilezione del Moro verso l’opera grandiosa del monarchico Balzac. Una volta valevano i concetti di decentramento, di scarto, di “coupure”, d’ideologia spontanea, ecc. a interpretare la differenza tra scrittore e scrittura, e credo che ancora abbiano un contenuto di verità.

    Sull’interpretazione.

    Da qualche parte, forse nei Grundrisse, il Moro ha posto una domanda, che suona più o meno così: Perché si continua a leggere l’Iliade dopo l’invenzione della polvere da sparo? Domanda fondamentale, a mio avviso, per affrontare il “tema” dell’interpretazione. Ora, e ovviamente, se l’Iliade si limitasse a essere una sorta di manuale di strategia bellica, l’invenzione successiva della polvere da sparo lo farebbe finire nel dimenticatoio. Definitivamente. Invece lo splendore di quell’opera acceca ancora oggi, e ancora oggi si scrivono saggi su di essa. La ragione, ritengo, sta nella continua riattualizzazione storico-critica d’un testo del passato che ri-vive nel presente perché il tempo presente gli conferisce potenzialità inedite di parlare al lettore, a prescindere dalla “datazione” delle sue scene e avvenimenti. E questo al netto delle, pur importanti, “scoperte” filologiche. Non è prerogativa dei soli cattolici leggere come attuali testi sacri scritti migliaia d’anni fa, la forza e la “magia” d’ogni “monumento” letterario s’impongono in ogni epoca. Certo, ogni epoca ha i suoi beniamini, e s’alternano nel corso dei secoli (basti pensare all’alternanza tra Dante e Petrarca nelle predilezioni della critica letteraria), tuttavia il loro riconoscimento oggettivo di grandi opere non verrà mai offuscato. Certo, in questa ri-attualizzazione d’un testo del passato il conflitto delle interpretazioni gioca un ruolo decisivo, e lo stesso conflitto è indice di culture e concezioni della letteratura e del mondo contrapposte, che esistono di per sé, altrimenti non si darebbe alcun conflitto. Ma il testo “per noi”, ossia quello che ci parla e su cui conflittualmente si scrive, non è mai un’appendice del testo “in sé” (ossia l’oggetto scritto in e consegnato a una data epoca storica), bensì ne è la sua dinamica propulsiva, il suo motore (il suo “spirito”, potrebbe dire un idealista), cioè qualcosa che fa grumo, che resiste all’altrettanto idealistica interpretazione esaustiva che lo imbalsamerebbe in un’esegesi definitiva.
    Concordo con te quando dici che non c’è il “vero Dante”, ciò che abbiamo è solo materiale biografico che ce lo fa supporre grande, ma in compenso abbiamo la “vera Commedia“, nel (solo) senso che per poter attingere a quella verità all’ermeneutica è dato unicamente avvicinarvisi attraverso verità relative, che sono le letture storiche, per natura incompiute e parziali, riprese o negate o ricomposte (a partire, ovviamente, da alcuni dati oggettivi validi sempre) dalle letture d’un’epoca successiva. Anche il tuo “Dante migrante”, se ha un fondo di verità, non può essere che parziale, relativo, ovvero vale per questa nostra epoca, e insieme universale.

  4. roberto b

    Errata corrige: nel dantesco pane altrui, c’è un “duro” di troppo, e un “duro” di meno invece nelle scale altrui. Ecco cosa succede a non rileggere bene ciò che s’è scritto

    Nota.
    Ho evidenziato in grassetto i due temi del commento precedente e corretto secondo le tue indicazioni [E.A.]

  5. Rita Simonitto

    Non voglio entrare nel tema della dialettica ‘servo/padrone’ ma ritengo che non sia sufficiente soffermarsi sulla ‘distinzione’ fra le due figure bensì sulla loro relazione, sui loro rapporti e sulle politiche che li guidano. Infatti, la diversità in sé è una condizione che non ci dice nulla sui rapporti politici e di potere che poi andranno ad istituirsi. I *rapporti sociali diseguali e squilibrati* sono indubbiamente fonte di un conflitto che non si risolve alzando o abbassando l’asticella della diversità. Ci sono delle situazioni in cui è l’ignoranza ad avere potere sull’intelligenza, il servo ad avere potere sul signore. E questo non avviene a caso! Purtroppo non ricordo chi lo disse, ma le maggioranze tendono a trascinare verso il basso le minoranze anche se queste ultime sono portatrici di un pensiero buono.
    Quanto al coraggio del signore posso aggiungere questo: mentre il servo ‘non ha da perdere che le proprie catene’, il signore ha da perdere i propri privilegi. Beh, fate due conti!!!

    Ennio dice:
    a) *Non voglio insinuare che sia malefica, ma diffido di ogni visione idealizzante*.
    b) * Dante oggi sarebbe un marziano*.
    c) * E perciò torno alla mia domanda, a cui nessuno finora ha risposto:«la grandezza di un poeta si misura dalla piccolezza degli altri?». O, detto in altri termini, l’essere grandi si costruisce sul disprezzo dei non grandi o degli altrimenti grandi?…. Grandi non sempre ha comportato l’elevamento dei molti.*
    Rita:
    a) Le visioni idealizzanti hanno una loro necessità temporanea. Se non ci fossero quelle, ad esempio, non ci innamoreremmo mai: per quale motivo due illustri sconosciuti che non sanno nulla l’uno dell’altro dovrebbero mettersi assieme – non limitandosi quindi al mero atto sessuale – se non ci fosse l’idealizzazione? Finito il tempo della luna di miele poi ci si confronta con la realtà. Il dramma sta quando si vuole continuare in eterno la luna di miele oppure quando si travisano i dati di realtà per farli coincidere con la visione idealizzata.
    b) Dante è un grande a prescindere dalla ideologia che si è costruita sul suo nome e sulla sua opera: ideologia che è la prosecuzione istituzionalizzata dell’idealizzazione e che serve, per l’appunto, alle Istituzioni.
    Ed è un grande non solo rispetto ai suoi tempi ma anche rispetto ai nostri.
    Perché a dire il vero, quanto a ‘marzianità’, mi sento più coeva a Dante che non a certo intellettualismo (sottolineo: ‘ismo’) di oggi.
    Intellettualismo nel senso che vengono privilegiati i “sentito dire” intellettuali, a fronte dei quali l’assenza di una cultura scientifica ha favorito un orientamento relativistico degradato: *L’opinione che la pluralità sia di per sé un bene è vuotamente formalistica e di una astoricità allarmante* (Terry Eagleton in ‘Le illusioni del postmodernismo’).
    c) Prenderei questa espressione di Ennio:
    *respingo quella grandezza che, secondo me, in gran parte è proiezione sulla figura di Dante di esigenze e desideri “signorili”. A me pare doveroso cercare in Dante un altro tipo di grandezza, diciamo pure e senza esitazioni: quella “servile”* e a questo aggiunge la citazione di Benjamin :
    “Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie» W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6). 3.
    Rita:
    Come dire “Dante era grande ma aveva anche lui le sue debolezze (o i suoi scheletri nell’armadio)?”. Non credo si tratti di questo.
    Mi rifaccio, ancora una volta, ad un film, “Il terzo uomo” (C. Reed, 1949), in cui il protagonista impersonato da Orson Welles, per giustificare la sua corruzione di coadiuvante sanitario statunitense che, nella Vienna divisa e occupata dagli Alleati (!!!), contrabbanda penicillina diluita, e quindi inefficace, causando morti a go-go, si giustifica con la famosa frase: “Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.”
    Il discorso qui si farebbe troppo lungo sul concetto di conflitto, di barbarie e di come la barbarie lo produce (il conflitto) e lo risolve nel ‘reale’.
    Potrei dire che il dramma odierno sta nel fatto che, per abolire i conflitti (magari esportandoli in casa d’altri) abbiamo raggiunto il massimo di barbarie senza aver aggiunto niente alla cultura.
    La grandezza di Dante sta invece nell’aver utilizzato il pensiero (che rappresenta una ‘azione differita’) nonché il linguaggio e tutto ciò che può essere espresso attraverso la forma linguistica.
    E tutta questa esperienza non si è circoscritta ai suoi tempi ma si è arricchita attraverso i secoli fino a farla diventare il “nostro Dante”.

    Ennio: *Ma perché voglio il diritto a ragionare sul Dante poveraccio o migrante? Perché Dante è un simbolo della cultura italiana e occidentale*.
    Rita: Se Dante *è un simbolo della cultura italiana e occidentale* non credo che tirarlo per la giacca Vs ‘poveraccio-migrante’(certo, c’era anche quello) ci serva granchè. Forse a far vedere la ‘povera Italia’ che non è più nemmeno di dolore ostello ma terra di saccheggio?
    E se nascondesse l’ideologia del “Yes, we can” di obamiana memoria (tutti possono salire in alto, anche gli eso-Danti), unita all’idea della “democrazia che viene dal basso” mutuata dalle varie rappresentanze (le ‘quote’: rosa, i gay, i tecnici) più che dalle effettive ‘capacità’ degli individui?
    Dante aveva degli strumenti, delle dotazioni originarie, per poter tradurre nella Commedia i suoi tempi così come li aveva vissuti attraverso la sua esperienza e lo ha fatto a più livelli di astrazione e rappresentazione. Non ha parlato soltanto dei patimenti di un poveraccio e migrante dei suoi tempi.
    Mandel’štam è grande non perché esule e perseguitato politico ma perché ha scritto buone cose (così almeno viene detto da chi ci ha studiato sopra).
    E, citando Bugliani, Ennio dice: *l’esempio che fai del movimento zapatista – « un esempio di come la povertà e l’emarginazione d’un popolo non impedisca loro d’affermare dal basso grandezza e dignità» – indica bene, credo, quale tipo di grandezza sia perseguibile da “noi”. Sì, è proprio ciò che dovremmo fare. Se economicamente, socialmente siamo in basso, dobbiamo vedere come essere grandi a partire dalle nostre condizioni reali e non alimentarci di miti di grandezza “signorili”*
    Rita: Se economicamente e socialmente siamo in basso non sarebbe importante capire chi e quali dinamiche ci hanno portato a questo?
    Non si può accettare il mito della povertà come depositaria di genuinità di valori: grandezza e dignità ci possono essere sia nel signore e sia in chi vive la condizione servile.
    Ciò che ci è dato oggi di vedere è che non ci sono più “signori” (Fortini non era forse un “signore”? Un signore che poteva ‘permettersi’ di raccomandare “meno genio”?) ma poveracci (di spirito), mentecatti senza alcuna cultura i quali, peggio dei lanzichenecchi, mettono a ferro e a fuoco questo paese che da ricco di tradizioni (tra cui anche Dante) è diventato come quegli orti di casa un tempo lussureggianti, che facevano sognare cucine odorose e che oggi sono desolati, pieni di sterpaglie dove l’incuria regna sovrana e il destino del pasto è quello del fast-food .
    E le masse credono a costoro, perché rappresentano il mito della ‘grandezza’ e del suo facile raggiungimento.

    R.S.

  6. emilia banfi

    Cara Rita,
    ti leggo sempre con grande interesse .
    I veri “signori” sono coloro che si avvicinano a tutti e lasciano in tutti la loro signorilità, un dono grande, che pochi accolgono. Ciao

    • Annamaria Locatelli

      …certo la realtà attuale é desolante ma certi discorsi potrebbero bene riferirsi all’epoca dell’avanzata dei barbari all’interno dei confini del “sacro” impero romano…crollano certezze, equilibri, anche eccellenze e ci si mescola paurosamente. Poi però penso che Dante é nato proprio dopo quel crollo, di secoli e secoli dopo, riuscendo a rappresentare una visione del mondo ampia e solida con una altissima espressione linguistica. Ma Dante, non per caso ha preferito per la Divina Commedia la lingua volgare alla latina, accettando la sfida dei tempi nuovi, voleva essere capito soprattutto fuori dalle corti e dai templi del sapere, voleva condividere con tutti il suo viaggio iniziatico.

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