Luigi Manzi
Da “Fuorivia”

Manzi Fuorivia

Ho scelto da Fuorvia , l’ultima raccolta di Luigi Manzi, più di una ventina di testi. Danno a sufficienza un’idea di com’è costruita la sua poesia. Che stupisce, spiazza e intriga (quali le ragioni profonde?) per la scelta rigorosa di chiudere ad immagini che alludano direttamente ai problemi del mondo d’oggi; e cioè alla vita dei tanti che si svolge nella «corrotta città» o nella «città di marmo». Solo dall’alto, come «le gru» (Cfr. «IN SENO»), Manzi sembra osservarla, ma per accentuare da essa un’incolmabile distanza e cancellarla. Il suo è puro sguardo di pittore (si potrebbe parlare di “pittura contemplativa in poesia”), attratto quasi esclusivamente da poche immagini di un paesaggio (anche di memoria), che presenta sì i tratti dell’arcaica campagna italiana e centro-meridionale (mi pare), ma di una campagna abbandonata e in disfacimento, arida, abitata da figure umane o bloccate nella fatica («sugli alberi gli uomini potano i rami», «le donne raccolgono i sarmenti») o «perse» e perciò dedite a incerte, senili (e allegoriche) raccolte: «un vecchio racimola il colchico», «Ovunque i vecchi palpeggiano / gli ovuli lustri di pioggia fra i muschi». E poi ci sono gli animali selvatici («il geco, la vipera, il falco»), qualche «capra erratica», mandrie (di cavalli, di bufali) in movimento. Un mondo arcaico-medievale o comunque appena sfiorato dall’industria, destoricizzato, primitivizzato e reso metafisico proprio per l’isolamento e la fissità delle immagini, ciascuna chiusa in sé. Per lo più manca la narrazione; o, quando c’è, – ad esempio in «LA CAVA» – viene cifrata in nomi, senza azioni, pensieri e sentimenti. Nel linguaggio poetico di Manzi l’isolamento e l’essenzialità delle immagini sono ottenuti coerentemente mediante una sintassi semplice: quasi sempre proposizioni brevi coordinate tra loro; rare le subordinate. Non colgo nulla di elegiaco in queste “pitture in poesia”. C’è semmai una sospensione, una tensione strisciante e febbrile. Che si fa a volte più cupa e violenta in alcune composizioni (specie le ultime della raccolta) quando vengono toccati i temi del rapporto inquieto e ancora animalesco tra maschile e femminile («LE LUMINARIE», «ALTERA», MEMORIA», «APPENA») o della guerra («IN SOGNO», «IL SEGNALE»). Qui il nitore ammirevole dello sguardo non s’appanna, ma il linguaggio freme di più: le proposizioni s’espandono e il tono si fa più narrativo, concitato e onirico. [E.A.]

NEL BOSCO

Né la cimice asessuata, né la cantaride pigra
abbandonano il ramo che attende la forbice.

La vigna decade. Il platano e il tiglio
soccombono alla livida tigna; la mucillagine
ha invaso il sentiero.
Solitaria, nel bosco squamoso,
deborda la fonte. Un uomo,
di fianco a un tronco reciso,
saluta il custode seduto sul gradino di porfìdo
che sporge sul greto. L’ultima capra del branco
si strofina col dorso
al pruno aspro;
rosicchia le spine.

IL SORBO

Nel marasma dei cocci
il clangore dell’ anatra
rinnova il ricordo.
Torno indietro, mi spingo
all’estremo. Al di là del dirupo
l’oliveto separa le case.
Nella calura la siccità
sfarina gli anfratti, sfalda le pietre.
Mio padre siede all’ ombra del sorbo;
carica di verderame
la macchina a pompa.
Di fronte la pergola di lillà
ora si guasta in putredine.
Rivedo la massa dei bufali
arrampicati sopra la cava,
a rodere l’erba purpurea
che circonda gli stecchi
fra le stoppie affilate.
lo sono qui, nell’ afrore del giorno,
ridotto in carcassa.
La corrotta città fumiga
senza un foro sui muri,
e nemmeno orizzonte.

DAL FONDO

La stupefatta stagione dei calanchi, dei terreni carsici
inghiottiti dal sole, delle polveri
di fronte ai casali,
dei massi che cadono a picco,
distaccati dai costoni di roccia –
qui tace.

Dal fondo viene il sonoro rollio della ghiera
che batte e ribatte nel campo isolato. La trebbia
alza la pula, la riduce
in pulviscolo. Dall’alto del cassero
l’operaio nudo beve a perdifìato rivolto al sole,
col pugno al fianco.

CONTRORA

Nel campo da poco reciso
un vecchio racimola il colchico.
Il vento è mite e porta refrigerio nel cielo dilavato.
L’acqua che scende cola a ventaglio
dentro le crete dell’ orto.

(La libellula ascende; si posa
sopra la pallida ampolla d’un finocchio.)

Nel silenzio dell’ora s’affaccia un uomo
col sorriso di volpe.
Il cercatore che rovista nel cespo, si volta:
il passero ruota intorno al ciliegio;
sul midollo che fuori esce dal ramo
una vetrosa cicala
dismette il gemito.

SI SCIOLGONO

Presto si sciolgono le nevi. I torrenti
smussano i basalti, scavano scodelle nelle rocce.

Gli uomini lungo l’erta spronano i cavalli;
aizzano i cani che mordono i garretti, pungolano i fianchi:
la mandria caracolla in semicerchio.

Là dove si leva il fumo domestico la tarda matriarca
mescola acqua e farina nel paiolo.
La casa è in ordine.

L’inverno che si stempera
affila i precipizi, sparge i muschi
sopra la rupe inaccessibile. E già la primavera
invia messaggi: il topo rode
la radice del melo. Sul monte il noce, ampio e vigoroso,
rimodula il veleno che nei rami
quietamente dorme.

SUL RETTIFILO

Dissolte le nebbie mattutine,
un monello rabbrividito attinge la secchia
lungo la camionale; riprende il cammino.
Va verso l’estremità del rettifìlo,
entra nel bosco.

L’infanzia solitaria è un dono
riservato agli umili che dormono
in cima ai pagliai;
o nella stanza sgombra
ascoltano il grillo che stridulo sospira,
chiuso nella scatola di latta.

Io tendo l’orecchio,
quasi non respiro. Veglio, ti parlo
all’estremità del filo; eppure nessuno
all’altro capo
cigola nel barattolo.

AL MERCATO

Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.

C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette –
un gomitolo.

IN SENO

Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.

In seno a te riposo,
mio sobborgo disossato; mi ristoro
dai viali occlusi, dalle trombe altisonanti
sulle guglie.

In te riaffìoro sgombro d’ogni assalto
o contumelia.

E quando ritorno qui, fra gli alti
spigoli di roccia,
provo il volo con la mente,
quasi fossi
di nuovo ritto
in cima al picco, felice quanto
un avvoltoio.

LASCITO

Ti mostro il poco che possiedo nel ricordo:
un passero, una noce,
un globo di vetro.

O il sussiego della voce
di fronte alle tue forme stemperate
quando abbandonata dormi, con la nuca ovale
sul guscio della mano;
o agile scompari col velocipede
dentro le cartoline
colorate di seppia
in un tempo remoto.

LE LUMINARIE

Le insegne, le luminarie diffratte
che iniettano la luce isterica.
Il verde friabile delle lampade al sodio sui viali deserti.
Odora di siero il tuo labbro, il seno
di pece nera.

Stanotte non c’è lussuria più dolce
della tua lingua molle, della saliva che scivola
in fondo alla bocca.

Appena ti stringo sul petto resti inumata, docile, assorta;
e al culmine del desiderio
cadi nel sonno
come una testuggine capovolta.

ESULE

Dentro la guglia piramidale
il rombo della campana scuote le tortore,
le spruzza in aria. Nel battito esatto del volo
disegnano una curva sonora; infine si radunano
sul marmo della fontana. Bevono.
O tubano se l’una spiuma il petto dell’ altra,
o si nettano l’ala.

L’esule siede in strada,
raschia uno sterpo di scarna vitalba; il seccume
brucia le labbra; l’arbusto aspro
scioglie le palpebre in lacrime. Ti sia dato o mio amico
di rivedere presto la terra
dove la madre invecchia in solitudine e sempre
lascia acceso un fuoco davanti alla soglia
affinché possa leggere,
nella brace che si spoglia in cenere,
il tuo invocato ritorno.

ALTERA

Procedi altera. Caprifoglio e lapislazzulo.
Ghiaccio incoronato dall’inverno.
Dove tu sei già eri; e là dove non sei
resta la sinopia, la nostalgia del pieno.
Nuca, carne, simmetria del corpo;
gioiello levigato, chiave, chiodo. Re
e regina. Anello del percorso. Ovale. Lepre.
Muschio, perla, bosco. Qui ti attendo
e riconosco: icona, mio sangue, mio sigillo.
Cerchio e semicerchio. Scissura, serraglio
della mente. Rossore e impudicizia.
Pena e desiderio. Perfetto orgoglio,
iride nel buio. Spuma, fiamma, oriente.
Scoglio inabissato. Mistico orizzonte.

LA CAVA

L’unghia polverosa degli zoccoli
risuona nella cava.
Il colpo sbianca l’anfiteatro. La lepre
scompare nel cespuglio.

L’eco riverbera. Grida il figlio
insanguinato.

Oggi è un anno. Su quel masso
cresce vermiglio il ciliegio. Il tordo
squilla sul ramo. Il resto è memoria –
puntolineapunto –
del telegrafo.

CRINALI

Il vaporìo dei boschi si leva in cumuli;
si raddensa in nuvoli oleosi.
I contadini curvi spingono i buoi marchiati,
lungo i crinali. Sopra la pianura
i giovani figli impilano sul carro i rotoli del fieno,
li mutano in solide piramidi – Il sole dilaga
sul rosso sfrenato delle alture.

lo cerco fra le colline scavate le reliquie dei padri.
I ricordi m’avvolgono
come un nugolo di api. Rivedo –
specchiato nel cielo – il rigogolo inquieto
che gorgoglia intorno al ciliegio:
si muove in cerchio
intorno al tronco ormai senza sostrato,
in attesa che rinverdisca la scorza, emetta nuovi germogli,
e infine si coroni di frutti,
si decori di foglie.

NEL BUIO

Dietro la finestra la donna pallida
suona la viola, muove nel ritmo la mano snella,
poi chiude la tenda; di là dal vetro
si spoglia. Nello specchio resta la spalla avida
segnata da un ghirigoro.
Si toglie la sottoveste;
appare il nero. Nel buio
il silenzio è complice.

Oltre l’organza sfavillano gli occhi di bruno smeriglio;
le dita sfiorano il seno. La donna supina
ha smesso il respiro; il gatto
è salito sul ventre
e vi dorme.

 

SERA

Già riappare in lontananza
la città di marmo:

muta si riforma fra i vapori gelidi
come nel vetro d’un’ampolla.

Intanto, le gru sorvolano il cielo di Chagall;
si muovono oscillando
nel suo rosso, nel suo azzurro.

MEMORIA

Svelto, più svelto di un lampo,
nella pianura un destriero scavalca recinti e torrenti.
La donna si volta e l’osserva. Le torna in mente
quando un tempo fu giovane e altera:
ebbe pudore del petto, dell’anca; lasciava nascosta la pelle
come una ghirlanda preziosa.

Il bianco si vela d’opaco.

L’uomo col chiuso mantello cavalca furioso;
Oltrepassa la selva, salta nel chiostro. Fu lui un giorno
che la sospinse nel portico
e nel buio le sciolse il nero corsetto.
Il presagio è un tumulto. La memoria
spariglia le carte.

L’uomo notturno cavalca sul cupo destriero;
la donna
è scomparsa.

APPENA

Appena la veste fu sciolta dal corpo
e cadde sul suolo, apparve nel buio
una luce di fosforo. Il capostipite dal viso ardente –
la carne azzurrata dal fulmine – mostrò l’oro possente
dell’inguine: Io sono il tuo cilicio.
Io ti appartengo; dimoro nella ferita.
Mi fermo nei luoghi in cui il sole penetra incerto
e il muschio cedevole s’avvolge alla roccia,
in silenzio. Per te mi sono
ridotto in crisalide. Goccia a goccia,
l’amarillide colora il mio sangue.
Sono maschio appena per caso. Tu sei a me simile.
Sei verga, vanga, ugello e precipizio.
Non ho moneta che questa.
Né altro termine. La lucida sfera
che ci contiene, divide il culmine
in cerchi concentrici. È mia la tua sorte, poiché tu
sei da sempre la mia
immagine capovolta: l’evolvente astro che gira
sull’asse immobile.

IL DISPERSO

Là dove il folgore scarlatto
fluttua intorno ai nuvoli verdissimi
la zattera notturna lotta con le onde.

Torna il disperso. Lo accoglie la città
dai ponti incandescenti. Le strie di fluoro
rimescolano i fanali nel turchino.

Spalanca le imposte
l’ultimo postribolo, e agli incroci
fanno ressa i vincitori; i sopravvissuti
invocano pietà dei ginocchi.

Nell’antro
si preparano all’assalto
i resti d’un esercito
distrutto.

IN SOGNO

Lo scriba inumidisce la punta della canna.
Traccia sull’intonaco il suo sogno:
Nell’inferno dei sussurri
solo chi grida non soccombe …

Caracolla il barbaro; s’impenna il suo destriero
di fronte al tronco sanguinante.
Stretta al finimento della sella, svetta
la testa del nemico, infissa all’arma:
… che iddio protegga in eterno la sua lama,
dia luce al metallo e ne scintilli.
Giorno dopo giorno, senza ruggine
la conservi il sangue prezioso del nemico
che zampilla dalla ferita avida …

IL SEGNALE

Dalle torri aristocratiche in assedio
irrompono i mentecatti nudi, i transfughi col volto
mutilato dai chiodi.
– Il facocero è sceso dai boschi,
urta i secchi di verderame; distrugge il raccolto.
Le maglie dei cingoli giacciono
abbandonate sui muri –

L’impavido dio dei miseri
protegge il fortilizio; affacciato al bastione
getta olio rovente sui guerrieri all’ assalto.
Entro le porte girevoli splendono i quarti di bue.
I vivi seppelliscono i morti
con gli ovuli in bocca. I redivivi
si toccano in petto, si assegnano l’un l’altro
un numero di fuoco.

12 commenti

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12 risposte a “Luigi Manzi
Da “Fuorivia”

  1. Guardare è pensare, pensare è guardare (dondola lo sceicco bianco), lo scrissi qualche giorno fa. In questo modo si è pittori. E’ altro pensiero, come il cinema quando per abilissimo montaggio ci permette di seguire storie avvincenti senza che venga detta una parola. Eppure qui accade con le parole soltanto. Quei fotogrammi di cui lei parlò, Linguaglossa, furono per me illuminanti. Sì, è come guardare un dipinto, ma posto sul soffitto, più in alto di quanto riescono a fare tanti altri. Tra dieci anni sarà in corsa per il Nobel, anche se ritengo che il premio più ambito, per un artista, resti quello di trovare se stesso lungo il sentiero della ricerca. Il sentiero seguito da Manzi a me sembra abbia inizio nell’800, nelle tematiche tra bene e male, di sfuggita il primo Ungaretti, qualche somiglianza con Dino Campana, l’esistenzialismo anni ’70… dove ancora prevale il pensiero, non l’altro pensiero. Ora è totalmente visivo, le sue considerazioni non sono interpretative, sono specchi dove le immagini diventano, anche, introspettive. E la tematica della città tentacolare a me sembra un aggancio figurativo, scelto sapientemente per non cedere all’astrazione. Ma è certamente la poetica migliore per questi tempi, da Pasolini in poi. Inoltre il suo paesaggismo a me sembra abbia una modernità tale, da far dimenticare Montale.
    Grazie davvero.

  2. emilia banfi

    Condivido pienamente il discorso di Mayoor davvero non dovrei aggiungere nulla se non la mia infinita ammirazione per questo grande poeta. Ho letto questo ed altri libri che lui stesso mi ha fatto avere e nonostante alcune difficoltà (non è certo semplice capire tutto ciò che il poeta vuol significare), mi sono trovata immersa in una stupore e in una grandezza che sentivo ormai lontana da parecchio tempo.

  3. Giorgio Linguaglossa

    caro Lucio Mayoor Tosi,
    io sono da sempre un ammiratore della poesia di Luigi Manzi… ho faticato non poco agli inizi, circa venti anni fa, quando iniziai a leggere la sua poesia, a recepirla in un mio quadro mentale storico-critico. In seguito, con gli anni, e le ripetute letture della sua poesia anch’io mi sono convinto della assoluta riconoscibilità della sua poesia. Mi piacerebbe fare un gioco: che qualcuno metta in un bussolotto dei cartigli recanti alcune poesie di autori vari, dai più grandi ai meno tra i quali inserire una poesia di Manzi; ecco, io credo che non avrei difficoltà a riconoscere la poesia di Manzi per l’unicità del suo lessico, del suo stile, per il combinato disposto di paratassi e immagini immobili, direi per la dialettica di immagini immobili di cui è ricca la sua poesia. Questa immobilità, sottolineata da un lessico desueto e raro (da non confondere con il prezioso!), è accentuata dalla folgorazione dei gesti (degli umani e delle bestie)… i gesti sono come sospesi in attesa di qualcosa che non avviene… non c’è prospettiva escatologica né salvifica in quei gesti, non c’è, oserei dire, neanche una specificità semantica: intendo che non vogliono dire nulla, neanche il significato del proprio esserci semantico: tra semantica e mantica si è così aperto un divorzio assoluto (e non solo nella eosia di Manzi). Un certo chagallismo unito ad una religiosità tutta laica per la gestualità della civiltà contadina, contribuiscono a conferire a questa poesia un’aura di inattualità e di anacronismo. Tutto ciò dà alla poesia di Manzi quel caratteristico colore di immagini pittoriche dove non c’è nulla di pittoresco o di arcadico: le immagini si materializzano appunto già de-materializzate, e in virtù di questa de-materializzazione escono davanti agli occhi del lettore con tutta la loro carica di enigmaticità. E certo questo è un libro di elevata caratura e di intensità straordinaria. Manzi è uno di quei poeti che se potessi decidere io lo chiamerei subito nella collana bianca di Einaudi.

  4. Giuseppina Di Leo

    Delle poesie di Manzi mi hanno colpita due elementi, tra loro distanti e contigui: il “disfacimento” e il movimento: ad uno stato di disfacimento il poeta giustappone un verbo che esprime movimento circolare, di rotazione che reca in sé anteriorità, un prima, come anche il momento successivo, un dopo. Un solo esempio su tutti, ma le poesie contengono riferimenti continui in tal senso: “La vigna decade. Il platano e il tiglio soccombono alla livida tigna; la mucillagine ha invaso il sentiero. / Solitaria, nel bosco squamoso, / deborda la fonte…” – Nel Bosco). Quasi a voler dire che la trasformazione latente non nasce per caso, che ciò che vediamo esiste da sempre secondo una logica forse non immutabile ma che non può nemmeno arrestarsi nel tempo.
    Entrambi gli elementi esprimono cioè un ritorno: il disfacimento è metamorfosi, non abbandono, così come il movimento è un tornare (esprimendo forse il senso etimologico della parola –verso).
    Il tempo privilegiato resta dunque il presente, nel quale il verso – attraverso le sue volute – si afferma.

  5. Giuseppina Di Leo

    Scrivo qui, perché avevo dimenticato di aggiungerlo prima, il nome Ennio Abate accanto al termine “disfacimento”.

  6. Quel fiume che tace stanotte,
    ha la foce nella bocca del giorno.
    E più chiara vedrà la sua bocca
    toccando con le labbra la morte
    Poesia tratta da Capo d’inverno, pg 65 di Malusanza.
    Nella pagina successiva, i primi versi:
    “Ultima pianta di una stagione desolata
    La mia voce si spacca come al fondo
    di un greto deserto…”
    Ecco, qui l’Ungaretti del buon ermetismo.
    Quanto a Campana basta leggere una sua poesia qualunque, Viaggio a Montevideo ad esempio, oppure 21 settembre… sono immagini immobili, come dice lei, Linguaglossa, ma immobile è l’osservatore, non la cosa vista. E’ la camera dell’osservatore che è fissa, e il montaggio delle sequenze andrà per stacchi, quasi senza dissolvenze, come guardare qui e poi altrove restando fermi. Dentro quei quadri la vita non si ferma un istante, porte si aprono e chiudono, fontane zampillano e quant’altro. Ungaretti e Campana per somiglianze, a me non piace dire di precedenti, perché raramente scegliamo altri poeti per affinità umane ed estetiche, se non altro per non farne il verso che sarebbe come perdere in partenza ogni battaglia. O beh, Leonardo pare dicesse anche che copiare è saper fare… c’è sempre un lasciapassare da qualche parte, una via d’uscita, ma non mi sembra proprio il caso di Luigi Manzi, che mi sa dev’essere un genio (nella definizione che ne dava Dalì).
    Epperò una riflessione sulla qualità delle metafore la farei, perché, siccome sopra ho parlato di Nobel, e siccome da qualche tempo la mia ammirazione sconfinata è rivolta a Tranströmer, mi torna l’asciuttezza del primo Ungaretti ( tralascio il periodo del Manzi-esistenzialista che comunque vanta un ragguardevole livello di linguaggio), perché le metafore di Manzi sono misurate, mai ebbre, mai esagerate, c’è un’aderenza contadina alla realtà, come una scelta di parete, che obbliga ad un volo radente. Insomma Manzi a me sembra abbia la vista di un uccello rapace, sempre rivolta in basso. Va preso così. L’ingiusto, o se volgiamo l’insensato confronto con Tranströmer ( che comunque non mi sognerei di fare con nessun altro di cui io sappia), mi serve per dire delle metafore, che in Tranströmer sono aguzze per via delle componenti surrealiste del suo linguaggio. Senza, non vedo al momento come si possa. Ma in definitiva, dietro il linguaggio la realtà impera in entrambi.
    Resta da dire qualcosa su Chagall, da lei citato, e anche qui qualche riserva l’avrei, perché Chagall racconta una realtà onirica, le sue mucche non sono vere, sono nominate e poi fatte rivivere nei luoghi del sentimento e della nostalgia. E’ lirico, mentre Manzi non lo è, se mai trasporta la realtà in narrazione ideale, quasi si trattasse di un presente postumo.E questa potrebbe essere l’incognita filosofica.

  7. E comunque queste sono sciocchezze. Certe volte il critico lavora come un chirurgo sul corpo di un bambino, per salvarne le parole, perché possa dire ancora le sue meravigliose scemenze. E’ tutto scritto. E Fuorivia è un libro nuovo, del novecento conserva certe immagini alla Morandi che sono struggenti. Come in un moderno museo. Davvero penso che Manzi sia meglio di Montale.

  8. Rita Simonitto

    Quello che affascina in Luigi Manzi è l’utilizzo della parola.
    Nelle sue poesie, le parole che utilizziamo nel quotidiano, quelle della nostra comune esperienza si animano di sonorità e di immagini . Non si tratta di un ‘imagism’ (Ezra Pound) ad effetto, quanto del movimento che viene impresso alla cosa nominata che, in questo modo, non è più prigioniera del suo nome, ma prende ulteriore vita nell’accostamento con ‘altro’ con cui tesse legami di senso.
    E’, a mio parere, analogo a quello che, in una concezione ‘logopatica’, veniva chiamato “concettimmagine” dal filosofo Julio Cabrera , a proposito della potenza di certe immagini filmiche. Aveva coniato questa espressione per significare un’esperienza che non deriva soltanto dal contatto con un piacevole svago, o una ‘esperienza estetica’, ma che introduce una dimensione comprensiva del mondo.
    *E’ più stretta/ della cruna di un ago la porta nel vicolo/ dove la bicicletta s’infìla/ senza che il ciclista/ rallenti la corsa o scenda/ per rifarsi il fiato*. (L. Manzi, La cruna, p. 37)

    Questo è uno degli aspetti della ‘poiesis’ nel poetare: trasformare l’esperienza di chi si accosta alla poesia in qualche cosa di altro che può avere a che fare sia con il nuovo (ancora mai conosciuto) e sia con il più profondo (l’ancora mai emerso). E tutto ciò può aderire all’intimo di ognuno, al suo ‘particulare’, e sia a quello di tutti, in una ‘idea di universale’.

    A questo allargamento di senso fa da contrasto un testo breve, che non si dilunga oltre il necessario, non si pasce di barocchismi, è essenziale al punto che, a volte, basta un solo verso (*Il bianco si vela d’opaco* L. Manzi, Memoria p. 70), rinchiuso in un ‘ovulo’ ricchissimo di potenzialità e nello stesso tempo definito nella forma.
    Un ‘tempo cechoviano’, un tempo di ‘transito’, intinto di aspirazione e delusione attraversa le poesie:
    *Dove tu sei già eri; e là dove non sei/resta la sinopia, la nostalgia del pieno./Nuca, carne, simmetria del corpo;/ gioiello levigato, chiave, chiodo. Re/ e regina. Anello del percorso. Ovale. Lepre./ Muschio, perla, bosco. Qui ti attendo/ e riconosco: icona, mio sangue, mio sigillo.* (L. Manzi, Altera, p. 55).
    Ma non ha ancora assopito la speranza:
    * Addio febbre dei pascoli alti, delle cime/inesauste, delle inabitate rocce/ dove le aquile s’artigliano.// Qui le labbra ormai si screpano,/ scoppiano i rettili. Gli insetti/ scavano millimetri nei tufi. L’anguilla s’agita/ nella scatola di latta. // Unica, avverto la felce/ che cresce i germogli/ dentro il pugno*. (L. Manzi, Cime, p. 103).

    R.S.

    • Per quanto io ci provi non posso tentare della critica come sai fare tu, me ne mancano i mezzi e forse mi sono abituato ai significanti della pittura, alla quale torno sempre anche quando parlo di poesia. Quello che mi interessa però è tentare un parallelismo tra Manzi e Montale, ovviamente con tutti i distinguo del caso. Li unisce secondo me la perfezione e la bellezza del linguaggio, che mi arriva incontaminato ( tema di attualità la contaminazione…). Solo che Manzi, forse per qualità visive stilisticamente innovative, è avviato verso una contemporaneità oggi più interessante.

  9. Maria Maddalena Monti

    La poesia di Luigi Manzi è solo apparentemente semplice,ma da leggere e rileggere per coglierne i sottintesi più significativi.
    La costruzione dei testi è perfetta,ci fa percepire i contenuti più complessi con un ritmo agile e,anche se spezzato, musicale.
    Il titolo:” Fuorivia” pone subito un interrogativo.Fuorivia da chi, da che cosa?
    Da una visione convenzionale della realtà alla ricerca di ciò che si nasconde sotto la superficie ed è essenziale.
    E’ questo che mi ha catturato della poesia di Luigi Manzi,la possibilità di una lettura su vari piani,una realtà sfaccettata e multiforme per capire il mondo desolato in cui ci troviamo.
    La campagna ha spesso i connotati del disfacimento e della morte,quasi speculare alla città nella stessa situazione, se non peggiore.
    “/ La corrotta città fumiga/senza un foro nei muri/ e nemmeno orizzonte./
    Un mondo ,quello contadino del passato, descritto senza compiacimenti e rimpianti,anche nel ripensamento infantile:” Io tendo l’orecchio/ quasi non respiro. Veglio ti parlo/ all’estremità del filo/eppure nessuno dall’altro capo/ cigola nel barattolo./
    Qualche spiraglio di serenità dal rapporto amoroso,anche questo però complesso,a volte drammatico:/”Dove tu sei già eri e dove tu non sei/resta sinopia la nostalgia del pieno/anca, carne,simmetria del corpo./
    Il poeta nel contesto che descrive, è “un esule”,”un disperso”:” /I vivi seppelliscono i morti con gli ovuli in bocca.I redivivi/ si toccano il petto,si assegnano l’un l’altro/ un numero di fuoco./
    La scrittura di Luigi Manzi è misteriosa, chiusa da interpretare con umiltà e pazienza,ogni volta ci dirà qualcosa di diverso, susciterà emozioni inaspettate.
    Maria Maddalena Monti.

  10. emilia banfi

    Ecco che Maria Maddalena come al solito coglie con estrema eleganza ed intuizione la parte più emozionante del testo e ce lo fa vivere come se fosse nostro . La critica apre all’io/noi. Grazie

  11. Sulla “riconoscibilità” del lavoro di Manzi ha già posto l’accento Linguaglossa , motivandola / documentandola come dio comanda . Se poi Luigi vorrà violentarsi con l’invio di torroncini Sperlari e maglie di salute Dual Blu alle segreterie dell’editoria “che conta “, potrà pervenire pervenire pervenire dribblando brillantemente Comunione e Liberazione , abominevole scorciatoia dei raccomandati di ferro che ben conosciamo . Ma per fortuna L. è di un’altra pasta . Mondadori può attendere .

    leopoldo –

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