Depositando per primi una manciata di terra
o spargendo dei fiori
si deve seppellire chi ci è caro,
accertarci che la voragine l’accolga.
Arriverà altrimenti
come un fantasma furioso ad insultarci
per l’ingiustizia subita perché morti
quanto lui all’opposto
gli siamo sopravvissuti.
*
Detesti a tal punto il dolore
che del tuo hai scelto di non parlare.
Dici succederà anche troppo
quando da sottoterra dovrai raccontare
i motivi della tua morte
alle anime numerose che in ascolto
a turno riferiranno i loro.
Perlomeno ti auguri si possa
ogni tanto variare
inventando una versione inedita
immaginando qualche vicenda avventurosa
che renda più sopportabile l’aldilà.
*
Quel che diventeremo lo sappiamo
non serve aggiungere. La terra
seppellita altra terra la trascina
fino a svegliarci. Chissà per quante volte
ancora subiremo, aspettando
tenacemente che l’universo cambi. Come di cenere
soffocata composti e desiderio.
*
Dopo i figli capita alle donne
che chiedono ai dottori di interrompere
terapie inefficaci. Per una regola
che gli scienziati non riescono a capire
dal palato le ulcerazioni raggiungono
la trachea. Le mogli sospettano
una congiura maschile finché scoprono
agonizzante più di un marito. Si crede presto
in una maledizione. Le fognature
stipate di animali litigiosi
interi boschi respirano a rovescio.
*
Quando incontri la morte
fai di tutto per umiliarla
giri la testa altrove
confronti una pozzanghera qualsiasi
abitata da polvere e da microbi
con il liquido originario più fecondo
mentre il fumo del traffico
paragoni ai vapori che lasciavano
l’atmosfera per gradi.
*
Cosa sia il tempo
lo rivela il buon senso.
Sul tema la filosofia si allontana
dagli scopi come una donna appassionata
si distoglie dal proprio giudizio.
Capita con tale frequenza
da fare immaginare che deliri
per vanità e superbia.
Nasce il sospetto
la filosofia si perda fra sofismi
come Narciso a sua volta si smarriva
dentro le pieghe dell’acqua.
Nelle loro bellezze scoprono
più che la forma amata
l’occasione per dimenticarsi
del tempo che li afferrerà.
*
Anfore di alabastro
statuette d’argilla
cofanetti d’osso
orecchini e specchietti:
soltanto loro
perfettamente intatti.
*
Se dovessero traghettare
le mille gioie che ti sei portato
per allietare la tua vita eterna
occorrerebbe una flotta
anziché la piccola barca
su cui nudo insieme ad altri sali
senza memoria dell’antica fama
e dei tesori nascosti.
*
Ti seppelliamo con un seme fra le mani
spunta dal suolo germoglia cresce
ti fa ombra d’estate
le foglie ti coprono in autunno
lo battezziamo col tuo nome gli parliamo.
(*) (Ho raccolto qui, sotto un unico titolo, poesie scritte in periodi diversi, ma legate fra loro da una forte affinità. Alcune sono inedite, altre sono già state pubblicate nelle raccolte “Contraddizioni d’amore” e “Cambiamenti”).
* Giancarlo Baroni, nato a Parma nel 1953, è autore di due romanzi brevi, di qualche racconto e di un testo di riflessioni letterarie (Una incerta beatitudine). Ha scritto cinque libri di versi; gli ultimi tre “Contraddizioni d’amore” (1998), “Cambiamenti” (2001), “I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli” (2009, prefazione di Pier Luigi Bacchini) sono pubblicati da Mobydick. Ha terminato di scrivere una raccolta poetica che parla di luoghi reali e immaginari, di città, esploratori e viaggiatori. “Farheneheit” (Radio 3) ha trasmesso diverse sue poesie. Collabora alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”
Tra queste poesie preferisco “Dopo i figli capita alle donne…”, forse perché parla della malattia, dell’agonia, prima ancora che della morte. Notevole anche il verso di chiusura “interi boschi respirano a rovescio.”
Per il resto, proprio in questi giorni riflettevo, anzi constatavo quanto il pensiero della morte, per il fatto di averci pensato fin dall’infanzia, mi sia venuto a noia. Non me ne voglia, Baroni, queste poesie sono interessanti ma non risolvono alcun mistero, anzi, non fanno che diffondere ulteriormente la fastidiosa paura di morire. E’ di questa paura che non riusciamo a liberarci, non della morte in se’. Quando avverrà avremo altro a cui pensare. Piuttosto mi chiedo come mai questo assillo sia tanto presente nei poeti: per mancanza di solennità, di attenzione, rispetto, per carenza di argomenti davvero indiscutibili? Non sarebbero difetti, ma andrebbe detto.
Penso…in ogni poesia c’è sempre un po’ di vita e un po’ di morte. La poesia stessa nel nascere già un po’ muore . Parlare di morte per un poeta oggi richiede molta attenzione , per non cadere in quel banale che potrebbe scaturire nel prendere in considerazione una società che muore di se stessa. La morte qui è altra cosa , pensata , stretta nella vita del poeta come qualcosa a cui arrendersi ma senza abbandonare il vero senso della vita. Certo non è un piacere leggerle ma senz’altro è interessante.
Tema che facilmente evitiamo, che tu rendi leggero e che incuriosisce come una traversata in mare. Si prevede uno sbarco emozionante e ciò rende sospesa e piacevole l’attesa. Certo, vorrei per me un imbarco al sole, senza sofferenza, senza malattia. Hai toccato un argomento che troverà molto da ridire, bravo. Parliamone. Personalmente, ho l’impressione molesta di essermi imbarcata tante volte e di essere sbarcata in tempi sempre più impegnativi, vorrei continuare… forse penso di essere eterna?
…sul tema della morte non possono che pervenire risposte balbuzienti: in realtà si gira sempre intorno al problema senza mai risolverlo: non sarebbe un mistero.
Le poesie di Giancarlo Baroni mi sono piaciute soprattutto dove si pone l’accento sulla fragilità dell’uomo e sulle cose che lo hanno circondato e che gli sopravvivono, a testimoniarlo. Vi trascrivo una poesia scritta proprio questa mattina:
Le cose testimonianza
Sono già spazzatura
prima che tu abbia varcato la soglia
montagne cumuli
di cose smistate da raccolta differenziata
carta straccia
vestiti usati per l’Opera San Francesco
soldi in banca bastevoli per la sepoltura.
Un sassolino nella scarpa degli amici
da rimuovere
per procedere sulla strada senza intoppi.
Non é crudeltà.
Lo spazio vuoto é già occupato
da nuove fragili forme
pronte a cedere umori
alla terra e al cielo.
Un filo ricordo
attraversa i secoli in matassa multicolore.
L’uomo potente: un giro usurpato in più intorno alla fossa
Annamaria Locatelli
Sul tema ‘ morte’ trovo interessanti spunti in un inquadramento filosofico generale della figura di Freud in un interessante articolo di Franco Toscani ( qui: http://www.sinistrainrete.info/teoria/2151-franco-toscani-freud-marcuse-e-il-disagio-della-civilta.html). Suggerirei a chi ha tempo di leggerlo e meditarlo per intero. Qui mi limito a stralciare alcuni brani riguardanti la concezione della morte in Freud, Heidegger e Sartre:
Eredi come siamo dell’inconscio dell’uomo primitivo – a differenza del quale ci limitiamo a pensare e a desiderare la morte altrui, senza per lo più metterla in atto -, “nel nostro inconscio rimaniamo ancor oggi una masnada di assassini” (“In unserem Unbewußten sind wir alle noch heute eine Rotte von Mördern” Cfr. WT 26-28, 48-50). La psicoanalisi ci avverte dunque del fatto che “noi – ognuno di noi – non crediamo in fondo alla nostra propria morte (…). Ma questo nostro atteggiamento verso la morte ha conseguenze importanti sulla nostra vita. Questa si impoverisce e perde interesse (…) diventa vuota ed insignificante come un flirt americano in cui sin dall’inizio è chiaro che nulla accadrà” ( WT 15-17).
Ora, di fuga e più esattamente di “fuga deiettiva” (verfallende Flucht) dell’esserci (Dasein) davanti alla morte, alla propriaNichtigkeit (nullità) parla anche Martin Heidegger in Sein und Zeit (1927).(19)
La fuga in Heidegger è fuga del Dasein davanti a sé stesso, al suo “più proprio essere-per-la-morte” (das eigenste Sein zum Tode) e alla sua possibilità di autenticità (Eigentlichkeit).
[…]
In esplicita polemica con Heidegger e nella direzione di un esistenzialismo umanistico, nel suo L’Etre et le Néant (1943) Jean-Paul Sartre ha invece sottolineato il carattere assurdo della morte e il fatto che essa è “un annullamento sempre possibile dei miei possibili, che è al di fuori delle mie possibilità”(20).
Per Sartre la morte non appartiene alla struttura ontologica del suo “per-sé”, perché essa – assurda come la nascita – è un fatto contingente, un dato legato alla mia fatticità che “non mi tocca affatto” proprio perché non è “la mia possibilità” e non corrisponde alla “mia libertà”, che resta comunque “totale e infinita”(21). Sfugge però a Sartre che ciò che è più radicalmente da pensare nella morte è proprio questa sua insuperabile non corrispondenza, questo suo porre fine a ogni nostra libertà. Per il suo per-sé, sempre proiettato e in fuga verso i propri possibili, la morte non è una questione che davvero lo riguardi, anche se prima o poi lo colpirà.
Per Heidegger – che nelle opere più mature non parlerà più di angoscia e indirizzerà il proprio pensiero verso un approfondimento del “pensiero dell’essere” e un senso ecologico-hölderliniano dell’abitare la terra – il significato della vorlaufende Entschlossenheit(decisione anticipatrice per Chiodi-Volpi e risolutezza precorritrice per Marini, cfr. il par. 62, SZC 363-369, SZM 858-873) non consiste certo nel darsi volontariamente la morte, nell’elogio del suicidio o nel passare l’esistenza pensando cupamente alla morte, ma nel cogliere la possibilità del libero e autentico “poter-essere-un-tutto” (Ganzseinkönnen) dell’esserci.
Che poi Heidegger parli del Mitsein senza tematizzarlo a dovere, che nel suo pensiero manchi un’etica, che la sua critica della civiltà (e poi, più tardi, della tecnica) sia talvolta ideologica e insufficiente, che il Ganzseinkönnen del Dasein venga considerato essenzialmente nell’ottica esclusiva della focalizzazione del Sein zum Ende o del Sein zum Tode e non approfondisca e tematizzi dimensioni fondamentali dell’esistenza come la corporeità, la sessualità e l’amore, tutto ciò e altro ancora resta per noi vero, ma esula dagli intenti e dai limiti del presente scritto.
Come abbiamo visto attraverso questi rapidi cenni, in modi assai diversi fra loro sia Freud sia Heidegger si richiamano all’esigenza di ritrovare nel problema sempre aperto della morte tutto il suo spessore e tutta la sua drammaticità, la sua vicinanza e necessità (o non casualità).
Per Freud era questo uno degli insegnamenti fondamentali della prima guerra mondiale in corso ai tempi della sua conferenza suWir und der Tod.
Restituire alla morte il posto che le spetta nella nostra vita, ripensare a fondo il nesso essenziale vita-morte, modificare il motto politico degli antichi latini “Si vis pacem para bellum” (“Se vuoi la pace prepara la guerra”) in quello “Si vis vitam para mortem” (“Se vuoi mantenere la tua vita, disponiti alla morte”) significa per lui non solo che la “meditatio vitae” è inseparabile dalla “meditatio mortis” e viceversa, non solo “rendere nuovamente la vita più sopportabile, e sopportare la vita è il primo dovere di tutti i viventi”(cfr. WT 32), ma anche ridare più vigore e intensità, più significato e spessore alla nostra stessa vita, trasformandola in una vita degna e buona.
Aggiunta:
Qualcuno/a mi chiede: ma tu cosa pensi sulla morte.
Più o meno quello che avevo scritto tempo fa in questo articolo ospitato sul blog IL RAMO DI CORALLO di Francesca Diano:
http://emiliashop.wordpress.com/2012/10/22/ennio-abate-riflessioni-su-dinanzi-al-morire-di-francesca-diano/
“E vengo al discorso della morte che darebbe significato alla vita. Sempre perplesso mi chiedo: perché dovrei propormi di sperimentare «tale cessazione [la morte] mentre sono ancora in vita»? o dovrei « liberare la mente da tutto ciò che la [mia] memoria ha accumulato»? Per prepararmi all’atto traumatico e misterioso della morte? Per rinvigorire paradossalmente la mia voglia di vivere con uno stratagemma, intellettualistico, raffinato e quasi omeopatico? Insomma, a me questo suggerimento (o pretesa) pare una sorta di gratuito esercizio di anticipazione, che ha gli ambigui caratteri dell’esorcisma popolare. (Mi viene in mente la poesia in cui Giovanni Giudici immagina il proprio funerale). Dimostra la forza della nostra immaginazione, direi. Ma nulla più.” ( Ennio Abate)
Bene, la pensiamo allo stesso modo, solo forse io sono stato irrispettoso verso Giancarlo Baroni. Ora volgio dirti q
… oh, senza volerlo ho toccato l’invio. Nel tuo scritto sul blog di Francesca Diano fai spesso riferimento all’ascetismo, trovo ottime le considerazioni su Krishnamurti, ma perché non quelle di qualche teologo cristiano? Semplice: perché Krishnamurti era ateo come lo sono spesso gli asceti, atei e materialisti tanto quanto lo sono i marxisti. Inoltre apprezzo il fatto che parli della morte come istante della cessazione della vita, non cadi nel tranello di ricavarne un mito. Un passo ancora e diventerai un buon esploratore, come lo sono io.
L’impressione che ricevo dalla lettura delle poesie di Baroni è che la morte intesa come dipartita c’entri poco quanto nulla. O meglio, il cadavere che si vorrebbe seppellire sta dentro, fisso come un pensiero.
Mancano quegli stati d’animo o quegli interrogativi legati alla perdita (ad es. dolore, nostalgia) e ogni domanda sembra appianarsi su se stessa in descrizioni di tanti quadretti in cui il poeta colloca i micro-vuoti che vede o avverte intorno a sé.
L’elaborazione del distacco è da chi, viva e vegeta, riporta in vi[s]ta una serie di oggetti: cofanetti d’osso / orecchini e specchietti: soltanto loro perfettamente intatti.
Il rito da compiersi resta il medesimo: raccogliere la terra o spargere fiori, ma occorre accertarsi “che la voragine l’accolga” (al posto di ‘lo’ per ‘caro’), altrimenti:
Arriverà altrimenti
come un fantasma furioso ad insultarci
per l’ingiustizia subita perché morti
quanto lui all’opposto
gli siamo sopravvissuti.
Seguo questo blog da qualche tempo, in punta di piedi, per imparare, non ritengo mai rilevante un mio commento, ma di fronte a questi versi ho sentito l’impulso di esprimere la mia gratitudine al poeta. Qui non leggo soltanto poesie sul tema della morte fisica ma anche sulla consapevolezza di una mortalità intellettuale ben più temibile della prima. Vi trovo espresso, in uno scrivere poetico pacato e penetrante, seducente, qull’ “essere-per-la-morte” di Heidegger che cerco sempre di tenere a mente mentre vivo, perché la certezza della morte non sia spauracchio ma strumento, possibilità per comprendere noi stessi. Molti i versi indimenticabili, pervasi da una ironia sottile e amara che trovo deliziosa e dolorosa ad un tempo.
E’ una poesia leggera e profonda che convince e avvince il lettore.
Darò disposizioni per la mia sepoltura, che mi mettano un seme fra le mani.
Grazie per le parole che mi riempiono di soddisfazione e per la sensibilità che mostrano.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto “Un seme fra le mani” e quanti hanno lasciato un commento.
E’ bello vedere che i propri versi, anche se spinosi, si diffondono generando nuove energie e risposte differenti.
E’ la prima volta che partecipo a uno scambio di commenti (a un blog?); sono contento dell’accoglienza.
Giancarlo Baroni