SEGNALAZIONE
Carlo Rovelli, Nel paese dove gli asini volano

David Kellogg Lewis (1941-2011)

David Kellogg Lewis (1941-2011)

Straordinaria questa affermazione di David Lewis: «Tutti i mondi possibili esistono davvero», che mette in discussione tutti i nostri principi basati sulla autoevidenza del senso comune. Il concetto non è estraneo a quello dell’universo infinito di Giordano Bruno (e sappiamo come sia andata a finire), che prevedeva già questa ulteriore estrapolazione: dall’universo infinito alla possibilità di esistenza di tutti i mondi possibili. Molti concetti filosofici dell’homo tecnologicus, come quello di «essere» ed «esistenza», sono fortemente condizionati dalla loro origine teologica, ma fare filosofia è, appunto, sgombrare il campo dai sedimenti di pensieri teologici, dogmatici, indimostrabili da parte delle nostre facoltà razionali; pensare le «possibilità» è dunque un equivalente di pensare le «realtà». Pensare significa fare continuamente dei «salti» da un pensiero all’altro per poi trovarne le connessioni; le connessioni verranno dopo, non prima. Tutti i sistemi filosofici finora dispiegati dall’uomo cadono sotto quello che è stato chiamato il «paradosso dell’autoreferenza»: i modelli autoreferenziali includono il soggetto-osservatore nell’oggetto osservato, e sono posti come una piramide al cui vertice sta il soggetto-osservatore. Ma le cose non stanno così. Per il principio di «tutti i mondi possibili esistono davvero», il soggetto è semplicemente un trascurabilissimo evento del cosmo, e il fatto che lui osserva il mondo è una delle infinite possibilità con cui si dà l’evento. E la «freccia del tempo»?; ma, è ovvio, se io (quale soggetto-osservatore) mi pongo come un puntino o segmento (infinitesimale) della freccia del tempo, ecco che escogiterò che la freccia del tempo abbia una direzione precisa, dal prima al poi, dal passato al futuro passando per il presente. Ma questa asserzione, in realtà è una semplice credulità, non ha nulla di scientifico ed è priva di zoccolo filosofico: che cos’è il «presente»?, è un ente?, esiste?, non esiste?,. Nessun teologo e nessun filosofo ha mai risposto in modo esauriente a questa domanda, perché è una domanda priva di risposta se ce la poniamo entro le coordinate spazio-temporali e filosofiche della «freccia del tempo». Ecco che comprendiamo la famosa frase di Wittgenstein: «ciò cui si può arrivare con una scala non mi interessa» (Considerazioni filosofiche trad. italiana, Einaudi, 1975): il cui senso significa che non ha senso ascendere da un cumulo di proposizioni che, coma una piramide, dal basso partono verso l’alto e culminano con un assioma: è un tragitto autoreferenziale che ha una validità limitata al qui e ora. Siamo immersi tutti nella «dromomania», nell’ossessione della velocità che ci contagia con quella credenza nella velocità della freccia del tempo che è sempre davanti a noi, ed è irraggiungibile. Recentissimamente è stato postulato da alcuni fisici teorici l’esistenza, prima del Big Bang, di un altro universo, da cui deriverebbe il nostro universo che comprenderebbe 10 Dimensioni più il Tempo. C’è la dimostrazione matematica di ciò. Bene, un bel rebus per un filosofo che voglia pensare tutto ciò. E la poesia?, chiederanno alcuni: beh, è una delle infinite possibilità in cui può darsi il mondo, rispondo. [Giorgio Linguaglossa]

Nel Paese dove gli asini volano.

«Tutti i mondi possibili esistono davvero»: tesi che a un fisico (come l’autore di questo articolo) sembrava una bizzarria. E invece gli ha rivelato la figura di un grande filosofo

di Carlo Rovelli

da Il Sole 24 Ore – domenica 26 maggio 2013

Chi è David Lewis?». «È uno dei più grandi filosofi del secolo, forse il più grande». «Caspita, e cosa dice?». «Che tutti i mondi possibili esistono davvero». «Ma che significa, non ha senso, tu ci credi?». «No». Questa conversazione rasenta il surreale: come si fa a dire di qualcuno che è il più grande filosofo del secolo, e aggiungere che la sua tesi principale non è credibile? Eppure ho avuto questa conversazione un sorprendente numero di volte, mondi possibili, con un sorprendente numero di filosofi, anche molto eminenti, di svariati Paesi. Nel mondo un po’ rarefatto della filosofia analitica, David Lewis, filosofo americano che insegnava a Princeton ma molto vicino all’Australia, morto dodici anni fa, è oggi indicato da diversi colleghi come uno dei grandi filosofi contemporanei, se non il più grande (in un recente sondaggio online fra filosofi è stato votato fra i tre più influenti filosofi del XX secolo); anche se la sua tesi più nota, l’esistenza concreta di molti mondi, lascia perplessi i più.
Lewis era un personaggio simpatico. Nelle sue conferenze parlava di film di fantascienza e di viaggi nel tempo. I suoi articoli filosofici pullulano di asini che volano, gatti che perdono il pelo sul divano, marziani che sentono male, e simili entità. Aveva una barba irsuta e l’aria stralunata. Qualcosa di anticonvenzionale e scanzonato. Amava profondamente l’Australia, dove passava molti mesi all’anno. Ha scritto decine di articoli sui temi più diversi d’interesse per la filosofia analitica, e diversi libri di cui il più noto si ìntitola Sulla pluralità dei mondi, dove difende la sua tesi che tutti i mondi possibili esistono. Compresi quelli dove gli asini volano. Ma, direte voi subito, in questo mondo non ci sono asini che volano. E Lewis è perfettamente d’accordo: non ci sono asini che volano, in questo mondo. Ma in altri mondi, ci sono. Ci sono molti mondi dove gli asini volano. Tutti questi mondi, esistono. Esistono, dice Lewis, concretamente. Noi non vediamo asini che volano perché viviamo in un mondo dove gli asini non volano. Così come io ora dalla finestra vedo il mare di Marsiglia e non il Colosseo, non perché il Colosseo non esista, ma solo perché sono a Marsiglia e non a Roma. Così come esiste Roma, anche se io non sono lì, allo stesso modo esistono altri mondi, dove noi non ci siamo. E quali mondi esisterebbero? Tutti, risponde Lewis, con un sorriso disarmante.
Sconcertato dal sentir raccontare queste idee, l’anno scorso ho deciso di provare a leggere Lewis, anche se non sono un filosofo, e non dispongo degli strumenti per capire bene. Per primo ho cercato l’articolo sui viaggi nel tempo. Il mio mestiere è la fisica, e mi occupo proprio di spazio e tempo e delle loro buffe proprietà, quindi mi sentivo abbastanza forte da affrontare la lettura del filosofo su un terreno a me favorevole. Ho sempre pensato che quello che si legge di solito sull’impossibilità dei viaggi nel tempo sia terribilmente confuso e pasticciato, e a dire il vero ho forse cominciato a leggere l’articolo con il gusto un po’ cattivello di aspettare al varco il preteso grande filosofo, e coglierlo in fallo. Invece mi ha lasciato a bocca aperta. La chiarezza con cui discute la possibilità dei viaggi nel tempo è completa. L’articolo è limpido, inequivocabile. Mette ordine perfetto nella questione. Tutte le sciocchezze sull’impossibilità di tornare indietro nel tempo perché potremmo uccidere nostro nonno sono spazzate via con lucida semplicità.
Ho cominciato a intravedere perché in tanti sono abbagliati da David Lewis. Così mi sono immerso nella lettura di una intera raccolta di suoi articoli. Qualcuno, più tecnico, filosofico, mi ha annoiato, non l’ho capito. Ma molti sono folgoranti. Che cos’è esattamente un’entità? Per esempio un gatto che sta su un divano? Comprende o non comprende un pelo del gatto che si è mezzo staccato? Dove finisce esattamente il gatto? E via via, zigzagando fra problemi tecnici di logica modale e quelle domande che discutevamo da adolescenti e che in fondo non eravamo mai riusciti a risolvere. Su ogni questione l’argomentare di Lewis, anche se sempre con un sorriso sulle labbra, è convincente. Trova la soluzione là dove la soluzione sembrava impossibile. È intelligenza scintillante. In un discorso in memoria di Lewis, David Chalmers ha chiamato la limpidezza del sistema di Lewis una “fisica fondamentale” per la filosofia: non stupisce che piaccia ad un fisico teorico…
Armato di questa esperienza, mi sono sentito pronto per affrontare il libro principale, Sulla pluralità dei mondi. Non riuscirà a convincermi, pensavo fra me e me, che ci sono asini che volano. E invece, confesso con desolazione, temo che ci sia riuscito. Non provo certo a ripetere qui l’esercizio con voi in questo breve articolo. Non sono Lewis. Leggete il libro di Lewis, se ne siete curiosi. Certo, qualche dubbio mi rimane. In fondo mi chiedo ancora se quello di Lewis non sia solo un cambiare nome alle cose, chiamare “esistere” quello che altri chiamano “essere possibile” e chiamare “di questo mondo”, quello che altri chiamano “esistente”. Ma certo a me Lewis è riuscito a far cambiare molte idee su cosa significhi “esistere”. A togliermi, credo, molti pregiudizi riguardo al significato di questo verbo molto sdrucciolevole. Esiste un burattino a cui cresceva il naso quando diceva le bugie? Si certo, è Pinocchio! Allora Pinocchio esiste. No, non esiste! Ma hai appena detto che esiste…
Con Lewis la filosofia analitica è tornata prepotentemente a occuparsi di metafisica, terreno da cui si era tenuta a lungo a distanza di sicurezza. La lezione del positivismo logico, che aveva insistito si parlasse solo di cose definite in maniera sufficientemente chiara, e soprattutto di Wittgenstein, che aveva mostrato come molti problemi apparentemente profondi non siano che il risultato di uso maldestro del linguaggio, avevano lasciato un’impronta molto profonda su questo vasto territorio della filosofia, con il risultato che le domande intorno a cosa esiste e cosa non esiste erano tradizionalmente percepite con grande scetticismo in questi quartieri della filosofia. Tutt’ora, la parola “metafisica’” produce un cospicuo sollevarsi di sopracciglia in molti dipartimenti di filosofia nel mondo. Le cose sono cambiate solo un poco durante l’ultimo decennio, e Lewis stesso viene visto ancora con sospetto a questo riguardo. Ma certo vi è una parte della filosofia analitica che ha trovato il modo, con la nitidezza di pensiero che caratterizza questo modo di fare filosofia, e con gli strumenti propri di questo pensiero, di tornare a trattare questioni come chiedersi cosa esiste e cosa non esiste. Lewis, che ad Harvard è stato allievo di Willard Van Orman Quine, fra i massimi esponenti della filosofia analitica, ha contribuito non poco a riportare la metafisica al centro del discorso.
Non è certo l’unico contributo di David Lewis. Per citarne un altro fra i molti, la sua filosofia della mente, una versione dell’idea che identifica stati e processi mentali con stati e processi del cervello, e quindi nega l’esistenza di proprietà irreducibilmente non-fisiche, è una delle posizioni centrali nel dibattito odierno sulla filosofia della mente.
Michele Salimbeni, versatile intellettuale italiano che si è occupato di cinema, teatro e filosofia, sta scrivendo una articolata biografia del filosofo, di cui un primo breve stralcio è uscito sulla rivista di filosofia Klesis, che ha consacrato il numero di dicembre a David Lewis. La aspettiamo con interesse. E speriamo che il mondo dove molti la leggeranno, e verranno a contatto con questo sorprendente e originale filosofo che è stato David Lewis, sia proprio il mondo dove siamo capitati ad abitare.

*

David K. Lewis, On the Plurality of Worlds, Blackwell, Oxford, pagg. 276, $ 58,00 e $ 27,00 paperback

14 commenti

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14 risposte a “SEGNALAZIONE
Carlo Rovelli, Nel paese dove gli asini volano

  1. emilia banfi

    Tutti i mondi possibili si possono -creare- l’impossibilità è tale fino a che non si pensa al possibile , lo si crea. Pensato detto fatto. I Dove e perché sono infiniti non per questo impossibili. Forse davvero il reale non esiste? Perciò neppure l’irreale. Siamo .

  2. emilia banfi

    Siamo dentro e fuori
    per ogni momento impossibile
    il possibile è presente
    come la vita che continua
    anche senza la nostra realtà
    la nostra presenza
    qui o là non chiedono di noi
    né di altri esseri
    siamo
    e di questo viviamo
    se ci basterà e- fino a morire
    ci basterà-.
    Emilia

  3. ro

    cara Emy,
    un conto è fare il verso all’universo multiverso, tu ci riesci sempre alla grandissima, ma un altro è rovesciare le carte per tentare di leggerle. Per una parte dell’articolo sono richieste conoscenze di fisica teorica e altro ancora, che hanno contiguità con questioni filosofiche, ma da qui a parlare o saper parlare sugli aspetti altamente scientifci, ci passano miliardi e infiniti multiversi.

    mi limito in questo commento a sollevarti un punto critico, duplice, o meglio storicamente duplice.

    Il problema grande grande di questo mondo (di questo, qui e ora da milioni di anni che nemmno vogliamo conoscere) sebbene sia pieno di “doppio” in ogni cosa e persona ( e a volte purtroppo anche più di un doppio), non ha un suo doppio in un altro pianeta “terra2” , abitato di una Storia e di tante storie, che faccia da specchio…che possa essere riferimento di riflesso, in entrambe le ipotesi efficace, nel peggio o nel meglio che potrebbe rinviare al di qua. A riguardo c’è anche un ottimo film; a proposito di cinema e addirittura roboante parola “fantascienza”, che vengono molto malamente citate nell’articolo, il film è Another Earth. Qui trovi addirittura un pianeta dove c’è un altra Emy capace di condizionare il destino di questa Emy….in questo, come in altri “prodotti” simili, non c’è alcuna pericolosità , assente del tutto il depistaggio e la manipolazione della coscienza ( tanto del singolo che delle masse) . E qui per problemi di sintesi del mio commento mi fermo sul primo aspetto storico, “millenario”, chi conosce ad ogni livello ( anche di filosofi “alternativi”) questo aspetto, può marciarci alla grande.

    Ilsecondo problema è legato agli universi, ma relativi a quelli infiniti che può creare l’uomo, tanto più se di potere scientifico, o intellettuale etc etc rispetto a quelli che un tempo, servivano per gli stessi scopi i potenti, ma con universi assai limitati, anzi quasi bastava, fino a pochi decenni fa, la chiesa da un parte e successivamente le ideologie / i partiti dall’altra. Ora che tutti o quasi sanno scrivere e leggere, ora che a tutti, con la tivvù e il pc, può essere “divulgato” /sdoganato di tutto, dai neutrini a Buddha, dalla fisica quantistica alla reincarnazione, le armi per drogarlo rispetto ad altre omelie, e ad un solo (l’)”altro mondo”, sono in ampia e profonda mascherata. Un carnevale della scienza, ma anche della metafisica, per meglio ottenere la rinuncia “allegra” ad occuparsi delle cose di questo mondo, che peraltro potenti e loro servi ( fra cui scienziati, intellettuali, media e sole e focus) a loro seguito (volenti o nolenti, a loro saputa o insaputa) hanno fatto di tutto per renderlo inguardabile e per annientare chi , di questa oscenità, ne racconti ancora lo sguardo.

    ciao.

  4. emilia banfi

    Cara Rò:
    i miei versi ti danno ragione, ma sono dettati dalla mia realtà, quella in cui credo , ma sono molto curiosa e questo discorso di Lewis , mi intriga molto. Vediamo un po’ se qualcun altro vorrà parlarne. ciao

    • ro

      Mia cara Emy, non voglio ragione (*_*)….il vero lato rivoluzionario, vuoi nella fisica teorica, vuoi nell’astrofisica, vuoi nell’astrometafisica, c’è ma per essere copernicano, nolano, etc e che che noi vorremmo di veramente rivoluzionario e di capovolgimento quindi delle gravità terrestri, andrebbe impostato , FORSE, su una postura di cui ogni uomo (ancorché nessuno o scienziato, divulgato o filosofo etc etc) tanto più se elitario quanto più se di massa (critica o meno), dovrebbe dotarsi per attrezzare prima di ogni indagine e interiorizzazione, nel caso in questione, degli infiniti innumerabili, degli mini e iperuniversi che appaiono e scompaiono. La caratteristica prerivoluzionaria richiesta onde evitare la trappola tesa attraverso alcuni di loro (scienziati, intellettuali, filosofi) sarebbe disattivata. L’egemonia culturale imperiale tende con varie trappole ad incrementare una moneta a due facce opposte e concordi. Da una faccia della loro luna si terrorizza questo mondo, per gettare nel terrore e nella più totale “paura” , paura diverisifcata e liquida, a piu livelli d’impatto. Dall’altra gioco forza la faccia, anch’essa a piu livelli, e in questo caso a tema: mutiversi. Con questa si raggiunge l’apoteosi della prima. Vie di fuga fittizie, virtuali, posticce, che nulla hanno a che fare con l’atteggiamento scienziato ed eretico, di un nolano o di Galilei. Eppure tutte queste altre vie lattee, hanno gatti al contempo possono esistere e non esistere, tempi che possono essere annullati per entrare in altri iperspazi…di cui il primo è l’arte, la fantasia, l’immaginazione, la creazione. Ed è questo il punto veramente rivoluzionario per disinnescare i poteri antiuomo che governano la montea di cui sopra. Perché la cosa più riuscita , da sempre, ma mai tanto come ora ad un Potere egemonico (culturale, politico, antropologico, economico) è proprio quella incentrata sulla paura , che distrugge qualsiasi istinto di ri-creazione del proprio universo uomo per uomo, di questo e di altri universi. Se l’attuale potere imperiale, avesse di fronte masse sconfinate di individui che sapessero sbeffeggiare tali poteri, i loro inganni e le loro trappole, i multiversi sarebbero pianeti del tutto eco-bio-logici attarverso cui caricare le proprie armi contro i primi.

  5. emilia banfi

    Sbeffeggiare già, sbeffeggiare…quanto è vero! Ma è molto difficile farlo per chi ha perso il lavoro e si trova in difficoltà, guardare in alto per non guardare in basso….accidenti mi rendo conto di essere entrata in un post che ha creato in me curiosità ma non basta. Ciao e grazie cara Rò.

    • Giorgio Linguaglossa

      Quando Heidegger definisce l’essere una «prossimità distante», che cosa vuole dire con questo paradosso?, tutto e niente. E siamo al punto daccapo. Heidegger ricade in una visione antropocentrica e antropomorfica dell’essere che lo porterà in un vicolo cieco. Infatti, dopo il 1935 dirà che dobbiamo «lasciar perdere l’essere». L’altra questione fondamentale secondo cui il linguaggio è la casa dell’essere nella cui dimora abita l’uomo, può e deve essere ribaltata nella ipotesi di un linguaggio che non abita l’essere, anzi, in un essere che non abita il linguaggio. Il linguaggio come una grande zattera, un continente che sembra immobile, e che invece è in lentissimo movimento e un giorno andrà a scontrarsi con un altro continente. Dobbiamo accettare l’ipotesi (tanto più verosimile quanto più è lontana dal senso comune), secondo cui l’uomo abita-e-non-abita il linguaggio. Pensiero tanto più sconvolgente e inquietante, se ci pensiamo. Dobbiamo imparare a pensare l’impensato del pensiero, perché solo così possiamo gettare uno sguardo al di là del linguaggio come «dimora» dell’umano. Insomma, David Lewis ci vuole, credo, spingere a pensare sempre qualcosa che è fuori dell’ordinario e fuori di ciò che il senso comune e una visione antropocentrica ci ha illuso di vedere. Fuori del concetto corrivo di «verità» unica e indefettibile.
      Personalmente, nella mia modesta pratica poetica (e critica) mi sforzo di pensare l’impensato mediante il pensiero della insufficienza del mio linguaggio. Sapere che il tuo linguaggio insufficiente ti dà una grande forza per tentare di superarlo, di andare oltre i limiti del linguaggio (ma senza il ricorso a futili misticismi) storicamente confezionato. Pensare le «cose», è sempre una sfida all’intelligenza per vedere le «cose» lì dove esse non stanno. È il modo migliore per vederle veramente. È chiaro che questa è una procedura molto molto dispendiosa che non mi sentirei di consigliare a nessuno, ma è l’unica finestra che a noi ci è data che può essere aperta verso l’infinito di tutti i mondi possibili.

  6. emilia banfi

    Grazie anche a Linguaglossa

  7. “Quando Heidegger definisce l’essere una «prossimità distante», che cosa vuole dire con questo paradosso?”.
    Sapendone assai poco di filosofia, la prima domanda è: l’essere è una prossimità distante da che? E poi, perché Heidegger ricadrebbe in una visione antropocentrica e antropomorfica se se non si dice con esattezza cosa si intende per essere, linguaggio o linguaggio in movimento?
    Soffro di incontinenza mentale, non riesco a capitalizzare il pensiero, insomma sono uno smemorato, quindi non posso che essere un empirico. Infatti ho subito volto l’asserzione per cui” l’uomo abita-e-non-abita il linguaggio” al mio corpo: non sei linguaggio, vero? La risposta è: no, sono coscienza del corpo e coscienza del linguaggio, e l’essere sta a distanza collegato da un filo che se si spezzerebbe potrei non essere più (qui, a questo mondo). Anni di meditazione spirituale mi hanno insegnato che “l’impensato del pensiero” è la sua assenza. Mentre la visione antropocentrica sarebbe l’identificazione col pensiero stesso, come prova di esistenza dell’essere, che sta alla base dell’io e particolarmente dell’io occidentale.
    Inoltre considero la storia come il farsi di un progetto (così interpreto quello “storicamente confezionato”).
    “Pensare le «cose», è sempre una sfida all’intelligenza per vedere le «cose» lì dove esse non stanno. È il modo migliore per vederle veramente.” Cioè nella “prossimità distante”, come appunto sosteneva Heidegger. Rimando all’esempio di Rovelli: “Così come io ora dalla finestra vedo il mare di Marsiglia e non il Colosseo, non perché il Colosseo non esista, ma solo perché sono a Marsiglia e non a Roma.”, che poi era già stato detto da Sartre nel suo “L’essere e il nulla”, mi pare.
    Tralascio le considerazioni sulle dieci dimensioni e sull’altro universo, quello prima del Big bang (che è certezza nel suo farsi continuo, ma è teoria per quanto concerne le sue origini), e tralascio volutamente i viaggi nel tempo perché dovremmo considerare la magia, unitamente alla scienza, ai sogni , e in tutti i casi non mi allontanerei qui dalla prossimità distante.
    A questo punto la domanda è diretta: perché questi discorsi? sono fatti a sostegno di qualche progetto poetico dove, ad esempio, si tenti l’uso del tempo così come s’intraprendesse un viaggio? un viaggiare nel tempo dove, pare, la sola difficoltà risiede nel linguaggio? Certo, con tutto il rispetto, mica si può tornare alla terzina dantesca.

    PS. Spero si capisca, è per me uno sforzo sovrumano mantenermi in equilibrio sulle parole, di solito preferisco precipitare insieme al lettore.

    • … al lettore immaginario, s’intende.

      • Giorgio Linguaglossa

        * Lucio Mayoor Tosi
        il concetto di «prossimità distante» utilizzato da Heidegger per introdurre visivamente il suo concetto ontologico di «essere» in realtà indica una tautologia, ritorna ad ogni momento al punto d’inizio: il vicino è ciò che è distante, il che può essere una brillante formula che però non indica niente perché il punto fondamentale è: perché ciò che è «vicino» ci appare «distante»?, che cos’è che determina questo fenomeno?; Heidegger si rifugia in una colossale ricerca filosofico linguistica del termine «essere» che sarebbe ciò che si allontana, si nasconde (dal greco aletheia). Fatto sta che tutto il pensiero di Heidegger di “Essere e tempo” rimane, come dire, abbagliato e fulminato da questa intuizione dei greci, ma non può fare neanche un passo avanti rispetto ai greci (come lui confesserà più tardi). Tutta l’ontologia di Heidegger rimane immobile sul punto, non è in grado di fare alcun passo avanti perché il suo approccio al problema dell’essere è un approccio concettuale linguistico etimologico; secondo il pensatore tedesco noi possiamo esperire l’essere soltanto attraverso il linguaggio, perché il linguaggio è la custodia dell’essere, etc. Il passo successivo sarà il concetto (mitologico) di «oblio dell’essere» e della «casa dell’essere», ovvero la lingua (e il linguaggio poetico). Ma questa impostazione trascura completamente il fatto che si dà un «essere» anche prima (e oltre) di ogni linguaggio e che l’uomo si dà anche prima (e oltre) di ogni linguaggio che il linguaggio non è in grado di catturare. Per Heidegger l’«essere» (come notò acutamente Adorno in “Dialettica dell’iluminismo”) non è né un «concetto» né un «fatto», e così si sottrae bellamente ad ogni critica. Heidegger scrive: «Ma l’essere, cos’è l’essere? È esso stesso». È, come si vede, una posizione che sottrae l’essere ad ogni critica e ne fa una mitologia, una tautologia. Di fatto Heidegger resta imprigionato in una visione antropocentrica e antropologica.
        Questa impostazione concettuale ha dei risvolti anche sulla elaborazione di poetiche (cioè sulla elaborazione di una procedura della poesia). Il concetto della lingua come «casa dell’essere», è una mitologia, cioè un racconto; ma non possiamo accettare questo racconto come un racconto veritiero; dobbiamo invece considerare il linguaggio (e quello poetico è una delle declinazioni del linguaggio), non come una custodia dell’essere ma come un’orbita di un continente in viaggio; e anche l’«essere» non si dà una volta per tutte all’intuizione poetica come un continente immobile ma come rappresentazione di due continenti in movimento: è il movimento, a mio avviso, la vera chiave d’accesso all’essere, il movimento della lingua è la lingua stessa e la poesia è il fotogramma di questa colossale forza di movimento. Di qui, da questa consapevolezza sortiscono nuove questioni e nuovi modi di considerare i tropi come tropismi che inglobano il Tempo e lo Spazio entro le proprie coordinate linguistiche, che muovono il linguaggio poetico (che non sta fermo, non può stare fermo), al di là delle intenzioni soggettive dei singoli poeti e delle proprie convinzioni teoriche. Il linguaggio poetico è determinato dalle proprie coordinate temporali come una cornice delimita lo spazio del quadro. Ecco, in questo quadro concettuale è evidente che una poesia come quella di Transtromer è una poesia altamente sviluppata e sofisticata; voglio dire che nelle metafore di Transtromer c’è un congegno ad orologeria che cattura il tempo e lo spazio e lo trasforma in linguaggio. E quando io parlo della Grande Crisi della Poesia Italiana voglio dire che senza una critica delle poetiche del Novecento, senza una consapevolezza della posta in gioco culturale, concettuale, epocale delle questioni filosofiche del fare poesia, non può nascere una poesia adeguata all’altezza del nostro tempo: ci si limita a navigare nei rigagnoli laterali e epigonici delle poetiche tardo novecentesche.
        Personalmente non credo alla mitologia di un poeta che fa della poesia in base all’intuizione, all’entusiasmo o che altro; non c’è una scorciatoia o un cavalcavia che ci porterà sani e salvi sulla sponda della grande Poesia.

  8. @Linguaglossa
    Grazie per aver chiarito. Così com’è può essere difficile tentare con la prassi una fusione tra l’opera d’arte e la sua teorizzazione, anche per i filosofi non deve essere semplice avventurarsi con il solo strumento della logica in ambiti che sarebbero della mistica o dell’esoterismo, per citarne solo due. Evidentemente David Lewis è dotato di notevole virtuosismo se riesce a dimostrare che gli asini volano, assai più di Heidegger. Fa niente se si occupò d’altro.
    Condivido quanto detto sul movimento, che poi mi sembra sia quello tra coscienza e conoscenza, dove il linguaggio è il verificarsi costante di quest’ultima. E capisco che tutto ciò riguardi enormemente la poesia se per altre vie, non quelle della logica soltanto, vuole accostarsi al mistero. Non a caso i filosofi hanno sempre guardato all’arte, alla poesia, come se in cerca di conferme o di nuove tesi da districare. Non è più così? Allora è giusto avvertire i poeti, che esprimendosi al di fuori della logica spesso non sanno quel che ben dicono, che l’arte è anche linguaggio volto alla conoscenza, e che non tutto va affidato al caso. Ma questa è la novità concettuale con cui si apre il nuovo secolo. Per questo le arti visive si sono dotate di nuovi mezzi espressivi oltre alla pittura, per questo un’arte tutto sommato debole come la fotografia ha ottenuto in questi ultimi anni un crescente successo, perché si è data un progetto, è sempre meno estemporanea. Fare poesia in base all’intuizione non è indice di dilettantismo o di superficialità, è attardarsi all’espressionismo di rottura che fu il compito che si diede il novecento, forse per uscire dal classicismo. Uno sforzo colossale. Anche per la critica.

    • Sopra di me giace lo sceicco bianco del vuoto terrestre, del vuoto tra le particelle del corpo.
      Guarda senza respirare, guarda e non muore.
      Non fa rumore dondolando appagato sull’altalena. Il rumore non gli appartiene. Il rumore dei corpi, il rumore degli astri, quel rumore è il suo vento.
      Pensare è guardare, guardare è pensare. Un raro cavaliere pensante. Un maestro di luci.
      Il sonno è legato a un filo.

  9. emilia banfi

    L’essere inutilmente
    conquista il tempo
    il tempo è l’avere
    nella perdita chiara è
    la storia.

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