Ancora (e non solo…) su una poesia di Fabio Pusterla
Archiviato in CANTIERI
Con tag .dp., Baretta, Daniele Lo Vetere, Ennio Abate, Fabio Ciriachi, Fabio Pusterla
Ancora (e non solo…) su una poesia di Fabio Pusterla”
INTERVISTA-Lorenzo G… su Ennio AbateBabbasciò e Uva Put… | |
POESIE di Carlo Bord… su GLI ALTRI. “Ulisse… | |
POESIE di Carlo Bord… su GLI ALTRI. “Ulisse… | |
Annamaria Locatelli su D’Acunto su Rose Au… | |
Cristian Maritano su DISCUSSIONI. Umberto Eco, Rico… | |
Simone Carunchio su Poesie sulla luna | |
notizie latina su Poesie sulla luna | |
Luigi su Lina Salvi, Poesie. | |
POESIE di Carlo Bord… su GLI ALTRI. “Ulisse… | |
Massimo dagnino su Ennio Abate Appunti su «Quader… |
di Laura Pugno e Giulio Mozzi*22 giugno 2020
Anno 2002/213 giugno 2020
Non capisco le tue perplessità, Ennio, ma provo a interpretare: è perché la sua vien detta poesia sociale mentre magari è solo poesia di una solitudine malvissuta, l’espressione di uno scontento individuale rivolto, lanciato verso la collettività? E’ per chiarire che la poesia sociale dovrebbe essere diversa, secondo te, meno individualistica, meno uno contro tutti, come anche a tratti anche a me appare? Manca l’io partecipativo, cosciente della complessità sociale e di farne parte, e di voler essere voce di quella parte? Di non avere altra appartenenza oltre al se’? E tutto questo inquinerebbe la purezza d’intenti di una poesia che si possa dire sociale?
Può essere? Ma non trovi che Pusterla rifugga i facili rapimenti della scrittura restando agilmente affrancato al dire, e senza per questo mancare al linguaggio poetico? A me non sembra cosa da poco.
In altre parole: i toni sarebbero quelli decisi, alti e coinvolgenti che ci si aspetterebbe dalla poesia civile, ma la sostanza non corrisponde?
emilia banfi
2 dicembre 2013 alle 13:07
Caro Ennio,
quello che tu trovi irritante ,pietistico,generico, io lo trovo invece sublime. Un contrasto alle bassezze di questo vivere la politica di oggi che il poeta sente profondamente. E’ la poesia di una umanità che spesso non si arrende ma cerca di trovare attraverso i propri sentimenti, forse una via di fuga, Fuggire non è certo la giusta via , ma oggi molti sentono questa forte sensazione e perciò perché non esprimerla anche in poesia? Purchè sia poesia. E in quei versi io la trovo.
Che sia poesia e persino buona poesia non lo nego. Che questa poesia di Pusterla valga più di 100 raccolte che girano come poesia non lo nego.
Che a voi piaccia così lo accetto. Ma sono incontentabile. Ho spiegato le mie ragioni nelle varie repliche. E soprattutto, se devo proprio riassumere, nelle ultime righe rivolte a .dp. : “A me, come ho cercato di dire riferendomi soprattutto all’evocazione della tragedia di Kabobo, quell’affacciarsi verso l’orrore del mondo pare, con tutto rispetto, ancora timido. Ma il discorso non lo rivolgo al solo Pusterla ma a tutti (me incluso). Infine, grazie dei dubbi che mi ha offerto. Li aggiungo a quelli che già ho.”
indovinate chi è questo poeta
——————————————–
Glorificatemi!
Non sono pari ai grandi.
Sopra tutto ciò che fu fatto,
pongo il mio nihil.
Non voglio mai leggere nulla.
Libri?
Che sono i libri?
Io un tempo pensavo
i libri si fanno così:
arriva il poeta,
lievemente disserra le labbra
e d’improvviso si mette a cantare il sempliciotto ispirato.
Prego!
Ma risulta che prima
che cominci a cantarsi,
cammina a lungo, incalliti dal vagabondare
e dolcemente sguazza nella melma del cuore
la stupida tinca dell’immaginazione.
Mentre sbolliscono, strimpellando rime,
una brodaglia di amori e di usignoli,
la via si contorce priva di lingua:
non ha con che discorrere e gridare.
Dubbio:
“la via si contorce priva di lingua:” o “la vita…”?
No. Ho controllato . E’ proprio “la via…” ( pag. 256 Edizione Feltrinelli 1973).
Poi riprendo il tema…
caro mio, io non faccio errori di questo tipo; una volta recitavo a memoria il poema in lingua russa, e so quel che dico. Ma non hai detto chi è il poeta. Io lo so che Tu lo sai, ma devi sciverlo per i lettori. Quanto riguarda l’edizione, c’è quella del 1954. Questa traduzione qui riportata differisce un po’ da quella pubblicata, perché l’ho presa direttamente dalla dispensa (Corso per gli studenti) dello slavista.
Ah, io errori ne faccio di tutti i tipi! ( E’ per questo che non ho mai recitato, tranne una volta da bambino in uno spettacolino di parrocchia…). La traduzione Feltrinelli 1973 su cui ho controllato è la terza di quella casa editrice ( la prima è del 1960).
Per i lettori: il poeta lo trovate nel post che ho appena pubblicato (oggi 4 dic. 2013).
P.s.
La copertina dell’Einaudi l’ho scelta da Google a caso. Non è un omaggio al traduttore che compare nel sottotitolo.
e non poteva essere la “vita” (poi che questo poeta non è Pasternàk!), attraversava il periodo del cubofuturismo, poi futurismo; e il contorcimento dell’oggetto va di pari passo con la rivolta dell’oggetto: la rivolta degli oggetti, e le deformazioni che ne seguono, che sono non soltanto materiali, ma anche sonoro-sintattiche, il che permette al poeta di stravolgere il senso e se stesso autore; a questo punto bisogna leggere Jakobson e Sklovskij che furono amici intimi del poeta – e non furono i soli studiosi. Qui la elasticità della via, (l’asfalto o) il selciato è la lingua… vien meno,: per questo il selciato si contorce per l’assenza – sarebbe stato più facile -logico – che si fosse contorto perché presente, invece entra in scena l’estraniamento/assenza (Sklovskij) e l’afasia (jakobson): il balbettìo che vien sempre meno fino a scomparire: la lingua non c’è più! E mentre i poeti dozzinali continuano a strimpellare (come il 99,9% in Italia, oggi), il vero Poeta “non ha con che discorrere e gridare”. E perciò il futurismo urlato -polemico ad oltranza – ha qui (in questo poema di quella Russia) la massima giustificazione; non come quello italiano che inneggiava e celebrava la guerra! Ma di dire…. non c’è fine!
Volevo inserirmi in punta di piedi nel contrastato dibattito di questi ultimi post aggiungendo, con umiltà e molto sinteticamente, alcune riflessioni. Quando tu, Ennio Abate, affermi, a proposito di alcuni versi di Pusterla: “Si tirassero fuori le colpe. Si dicessero i nomi dei devastatori.” questo, al di là delle intenzioni, mi sembrerebbe un invito alla scrittura di volantini (esagero ma…), l’ultima cosa che si deve fare in poesia. C’è il rischio di degradarsi a scrivere un libro sul signor b. , ad esempio, e mi riferisco agli “Ultimi Versi” di Giovanni Raboni. Ne uscì pessima poesia. Se c’è uno spazio nel quale uno ha diritto all’aristocrazia malinconica, poi, questo è proprio il recinto artistico. Senza la pretesa di emendare il mondo ma con la suggestione di sfuggirvi (parlo di suggestione e non di illusione che è una cosa che fa male). Ma in particolar modo l’errore di fondo, a me sembra, è quello di imporre alla poesia ciò che essa deve essere. Del resto lo scrivi esplicitamente: “Per me questa poesia di Pusterla non dice quello che oggi la poesia dovrebbe dire”. La poesia, io credo, non va condivisa, mi riferisco a una condivisione dei contenuti, non emotiva. Ma valutata per il suo valore artistico, e scusate se è poco! Mi viene in mente una scena del capolavoro Roma di Fellini. A un certo punto alcuni ragazzi studenti si avvicinano al regista chiedendo se nel film verranno fuori finalmente i drammatici problemi sociali, della scuola e del lavoro, delle borgate, temendo che si parli di Roma in una prospettiva qualunquistica. Ebbene, Fellini risponde loro con disarmante semplicità ma anche con folgorante genialità: “io credo che si deve fare solo ciò che ci è congeniale”. Ecco, lasciare che ogni autore esprima ciò che gli è congeniale, poi valutare se l’opera è riuscita o meno, non certo sulla base di parametri di affinità ideologica o di contenuto.
Grazie, ciao